Un museo del mare al Lido di Venezia

Il laboratorio-museo del Capitano Ferruccio Falconi è un baluardo a difesa della tradizione marinara della Serenissima. Un luogo da visitare per chi vuole approfondire il rapporto tra Venezia e il mare. Con uno sguardo al presente.
BARBARA MARENGO
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Oggetti che pesano dai pochi grammi – le fotografie – fino alle sei tonnellate del motore Ansaldo sei cilindri della nave scuola “Marinaretto” o alle otto tonnellate di una camera iperbarica: entrando nel laboratorio-museo del Capitano Ferruccio Falconi, in via Biagio Zulian 11 al Lido di Venezia inizia un viaggio nella caverna di un Ali Baba con aspirazioni molto marittime. Occhi cerulei, ciuffo bianco, classe 1927, il Capitano riceve molta gente nel suo museo, costruito pezzo dopo pezzo con acquisti e donazioni, dopo aver restaurato un’antica falegnameria e dedicato spazi esterni ed interni al mare e a Venezia.

Lui che veneziano non è, poiché è nato a Carrara e ha studiato a La Spezia e all’Accademia Navale di Livorno, ma che è diventato veneziano per amore o per forza, dopo aver navigato tutti i mari come pilota di petroliere, ed infine come pilota del Porto, tiene molto a sottolineare che è arrivato a trentaduemila pilotaggi. Insomma del mare qualche cosa ne sa.

Il Capitano Falconi

Un baluardo, questo museo pieno di cose e di quadri di grandi dimensioni, oltre ottanta opere di Giacomo Vaccaro, che raccontano le storie di navi, antiche come l’Amerigo Vespucci, mitiche come l’Ausonia, enormi come le petroliere, eleganti come gli yacht dei nababbi, spropositate come le grandi navi da crociera che infestano il Bacino di San Marco.

Un baluardo a difesa della tradizione marinara della Serenissima: fatalmente il museo si trova in via Biagio Zulian, chi era costui. Qualcuno che ideò un baluardo nel 1645 per fermare la prepotente avanzata del Turco, all’inizio della guerra che costò a Venezia la perdita di Candia. Zulian, o Giuliani, istriano, con settantacinque fanti veneti comandava il forte di San Teodoro a Candia all’inizio dell’assedio e vista la preponderante presenza nemica pensò bene di far saltare in aria l’intera roccaforte con le truppe all’interno attirando i nemici in un mortale tranello.

Dopo simili combattive considerazioni eccoci negli spazi del laboratorio-museo: un cortile pieno di oggetti e varie stanze al piano terreno che contengono centinaia di vetrine, quadri, foto apparentemente messi alla rinfusa. Ma ascoltando e toccando – è obbligatorio toccare, bussole e statue, timoni e sestanti, binde e catene, caschi da palombaro e lance di salvataggio, leoni andanti e cronometri – inizia un viaggio nelle cose di mare circondati da progetti e mappature, carte nautiche e remi, motori e lapidi commemorative.

Venezia ed il mare: argomento banale ma non troppo, visto che in città il Museo Navale potrebbe essere una meravigliosa attrazione ma non lo è, visto che il Bucintoro ce lo ricordiamo solo perché lo vediamo nei dipinti antichi, visto che quelli che potrebbero essere delle “zoge”, veri gioielli della tradizione, non sono più in laguna. E Falconi parla del “Marinaretto”, l’ultima nave scuola della marineria veneziana che giace in attesa di motore e destinazione, e della bellissima “Ausonia” della Società Adriatica di Navigazione venduta per una somma ridicola ad un armatore genovese, o il brigantino “Giorgio Cini” venduto ai francesi per una pipa di tabacco… Suvvia, un po’ di orgoglio: venduti i gioielli, non si ricomprano più.

Insomma sembra non esista più l’amore per il mare che per mille anni ha reso forte Venezia: Falconi, definito da una tesi di laurea discussa a Ca’ Foscari “l’ultimo capitano da mar”, si anima parlando di grandi navi.

Vanno lasciate fuori dalla laguna, ed al più presto, oltre che per i danni che possono derivare dagli scavi dei canali, per il calore che emanano quando sostano alle banchine della Marittima

masse d’aria calda prodotte dai motori sempre accesi che accumulano non solo sulla laguna enormi “vulcani itineranti”.

Questo luogo è quasi una sorta di “missione”, afferma il comandante:

Tale insieme di oggetti dedicati al mare vuole essere un messaggio morale, un modo per capire come continuare a far vivere tradizioni e memorie di una città come Venezia.

Ma cosa ci fanno, sparsi nel cortile o sistemati nelle sale, tanti attrezzi da lavoro agricolo? Macchine da semina, aratri di legno accanto a sirene e grandi statue di marmo… Certo, questo laboratorio-museo dove tutto quello che è elettrico o meccanico funziona, è una fucina dove la mente galoppa: e si interroga. Ma a tutto c’è una spiegazione: gli attrezzi agricoli stanno a significare quanto i veneziani, quelli antichi s’intende, fossero duttili ed attivi. Durante la stagione fredda, quando non si poteva prendere il mare, era la terraferma l’obiettivo di famiglie ricche o meno, nobili e plebei, uomini e donne, “paroni” o servitori.

Era questa l’altra ricchezza della Serenissima, le centinaia di ville, sottolinea Falconi, vere opere d’arte, esteticamente perfette ed armoniose quanto funzionali alla coltivazione della terra, alla conservazione degli alimenti, progettate da geni dell’architettura e al tempo stesso poli economici importanti che rispettavano i ritmi della natura, ma anche salotti letterari collegati alla città d’acqua. Allora non c’era il ponte…. Neanche le grandi navi, o l’inquinamento.

Sul lato esterno del piazzale-museo, si materializza un sottomarino, come non pensare a Jules Verne ed alle sue ventimila leghe sotto i mari? Capitano Nemo e Nautilus, cosa ci fai in via Biagio Zulian numero 11? Sommergibile americano autopropulso a tre posti PM 83, capace di scendere a cinquecento metri di profondità, perfettamente funzionante.

Accanto al novello Nautilus, maglie di catena gigantesche, ognuna del peso di cento chili: i veneziani di una certa età ricordano le petroliere ancorate tra Alberoni e Malamocco negli anni Settanta? Erano ancorate con delle enormi catene, galleggiavano togliendo aria e sole alle camere dell’ospedale San Camillo, alcune maglie sono adesso ben esposte a ricordare un avvenimento grave ed importante per il Mediterraneo: la chiusura del canale di Suez nel 1967 dopo la guerra dei sei giorni tra Egitto e Israele. Evento carico di gravi conseguenze politiche ed economiche per il trasporto del petrolio e l’approvvigionamento energetico dell’Europa.

La costruzione di enormi petroliere che compivano la circumnavigazione dell’Africa ebbe termine con la riapertura del canale stesso dopo pochi anni e alcune di esse trovarono un ormeggio in Laguna, “Anita Monti “ e “ Caterina Monti”, lunghe trecentotrenta metri, vittime della crisi dei noli in attesa di essere smantellate.

La storia ci incalza passeggiando nel museo: il naufragio del veliero inglese “Mutine”, avvenuto nel 1848 di fronte a Pellestrina, una lapide ricorda i nomi dei marinai periti ed il coraggio degli abitanti dell’isola, salvatori del resto dell’equipaggio. Statue lignee polinesiane accanto ad un robot guidato da un filo lungo trecento metri per indagini in profondi fondali parlano sempre del mare, accanto a mappe riguardanti la collocazione di tutti i relitti presenti nel golfo di Venezia oltre a quelle delle concrezioni calcaree affioranti dai fondali sabbiosi della Laguna (opera dei figli).

La Laguna è padrona di casa: antichi “faròli” di navi fanno da contorno alla scritta “pagine memorabili della portualità veneziana”, ben visibile dalla strada. Attilio Carminati, il poeta, ha dedicato al comandante vari versi, che Falconi conserva inquadrati in un altro museo, la sua casa con vista laguna. Anche qui cimeli, medaglie, progetti, onorificenze, libri (ne ha scritti parecchi) e soprattutto lo spazio d’acqua solcato da navi, plasmato dal vento, scaldato dal sole, sferzato dalla pioggia.

Schema del Capitano Falconi per un grande porto fuori Laguna

Dal terrazzo fa paura la vista delle grandi navi che entrano ed escono con finta disinvoltura dal porto di San Nicolò navigando a pochi metri dalla riva. Ci si rende conto delle proporzioni smisurate di simili natanti dentro uno spazio tanto ristretto, la laguna della quale si parla sempre evidenziandone la fragilità. Un timone di legno è ben fissato alla balaustra del terrazzo, indica una rotta, anche una rotta ideale. E allora torniamo al laboratorio–museo di via Biagio Zulian, dove una scritta domina la mole degli oggetti rari e vari, “Fermarsi in tempo”: io ci metterei anche un bel punto esclamativo.

L’ingresso al laboratorio–museo è gratuito: scolaresche e privati possono contattare il numero +39 348 45 03 766

Le foto sono dell’autrice

Un museo del mare al Lido di Venezia ultima modifica: 2018-08-08T19:55:29+02:00 da BARBARA MARENGO
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