Nelle puntate precedenti abbiamo visto che il tema del brain drain è oggetto di un dibattito pubblico che non fa differenza tra giovani e personale altamente qualificato (qui). La discussione pubblica diventa il solito elenco delle lamentale e del vittimismo che spesso ci contraddistingue come paese. E abbiamo visto anche che in molti paesi europei la situazione non sia molto dissimile da quella italiana e che il brain drain verso gli Stati Uniti è tema che preoccupa l’Unione europea (qui).
In questo terzo episodio cerchiamo di soffermarci sulla categoria del personale altamente specializzato del mondo della ricerca: i veri “cervelli in fuga”. O meglio le persone che partecipano alla mobilità internazionale nell’ambito della ricerca accademica (e quelli che ne rimangono fuori). Quanti sono? Perché se ne vanno?
Vale la pena ricordare che i ricercatori che lasciano il paese non sono tutti dei geni in fuga. Lo dico a mio svantaggio, ma alcuni studiosi sottolineano che l’Italia sia riuscita in realtà a trattenere Ph.D. holders (i detentori di un titolo di dottorato di ricerca) di qualità media (misurata sull’impatto delle pubblicazioni). Chi emigra invece appartiene alle categorie sopra la media o inferiore alla media per quanto riguarda le performances scientifiche (le famose pubblicazioni). E che spesso cercano di utilizzare il titolo ottenuto con il completamento del dottorato di ricerca nel campo pubblico o privato, in ambiti diversi da quelli accademici. E questo è un punto fondamentale: il riconoscimento da parte di soggetti diversi dall’università del valore del dottorato di ricerca.
Quello che dobbiamo sottolineare è che chi resta in Italia è spesso oggetto di denigrazione e di demonizzazione, ma in realtà è l’altra faccia della mediatizzata fuga di cervelli: se chi se ne va è un cervello in fuga, quelli che restano sono i peggiori? Ebbene secondo queste ricerche non è così.
È possibile quantificare questa mobilità internazionale dei dottori di ricerca, post-doc e professori? Purtroppo non è così semplice: innanzitutto perché mancano i dati sulla mobilità internazionale di chi fa ricerca. Per avere un’idea del fenomeno si devono ricostruire i percorsi complessi attraverso più database. Alcune stime del 2010 parlano di un totale di italiani espatriati pari al 5,22 per cento, dato che saliva al 7,07 per cento per chi aveva una formazione universitaria elevata: tutti dati in linea con la media europea. Secondo un’indagine molto vecchia dell’Ocse (2005), i maggiori beneficiari di questa mobilità internazionale altamente qualificata sarebbero gli Stati Uniti, l’Australia, il Canada, la Francia, la Gran Bretagna, la Svizzera e la Germania.
Pare che la situazione non sia molto cambiata in rapporto alle destinazioni, secondo altre ricerche indipendenti, con la sola novità della Spagna. In quest’ultimo caso ci sarebbe da chiedersi quanto conta il fattore culturale e geografico nella scelta dei ricercatori.
Perché i lavoratori di alta formazione emigrano? Secondo alcuni i lavoratori italiani di alta formazione emigrano a causa del mercato del lavoro universitario italiano: la mancanza di opportunità e di prospettive, le cattive condizioni di lavoro (leggi bassi salari), la poca possibilità di carriera, gli alti livello di “endogamia” professionale nelle università italiane, l’assenza di competitività e di autonomia. Quindi chi sperimenta all’estero migliori ambienti di lavoro e di carriera (e migliori salari) di sicuro non ha intenzione di rientrare.
Per quanto vi siano degli incentivi esterni – l’alta qualità delle ricerca all’estero, le offerte post doc attrattive e il desiderio di fare esperienza internazionale – quelli sopra elencati sono tutti fattori legati alle università italiane.
Già perché la mobilità internazionale del capitale umano altamente qualificato – e l’incapacità di attrazione – dipende dai difetti del sistema universitario italiano. Che da decenni non riesce ad affrontare alcuni nodi legati alla ricerca.
Non si tratta solo dei fondi a disposizione delle università. Secondo il ministero dello sviluppo economico:
Negli ultimi anni gli investimenti in Ricerca e Sviluppo (R&S) sono aumentati in tutti i paesi europei, anche se in misura eterogenea. In Italia la dinamica della spesa in termini reali è stata molto più lenta: ponendo a 100 il valore del 2007, il livello dell’Italia nel 2016 è pari a 110, mentre per l’area Euro ha raggiunto 136.
E a differenza di molti paesi europei l’Italia sembra avere un problema in più. Almeno così ci dice il 2016 Global R&D Funding Forecast:
In tutte le tra grandi aree di investimento (Nord America, Asia ed Europa) e in quasi tutti i paesi (l’Italia è un’eccezione) gli investimenti industriali sono di gran lunga prevalenti su quelli istituzionali. Il rapporto è, ormai da tempo, di 2:1. Per ogni dollaro istituzionale ce ne sono due investiti dalle industrie. Con evidenti correlati di tipo economico. Gli investimenti in R&S non sono solo un indicatore, ma un motore della crescita economica.
Le difficoltà del sistema universitario italiano non legate al finanziamento si possono comprendere immediatamente quando si affronta il tema dei dottorati di ricerca. Grazie al lavoro svolto dall’Adi (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani) disponiamo di molti dati sulla situazione di chi cerca di muovere i primi passi nell’ambito della ricerca italiana. Innanzitutto vi è stato un crollo dei posti di dottorato: 15733 nel 2006, 8737 nel 2016 (-44,5 per cento in dieci anni). Ora non necessariamente quantità significa qualità, ma quel che è certo è che al dimezzamento dei posti di dottorato non è corrisposto un aumento di coloro che trovano un lavoro come ricercatore strutturato.
E questo riguarda anche i post-dottorati: oggi solo il 6,5 per cento resta nel mondo accademico, mentre la maggior parte ne è espulsa: un dato su cui riflettere dato che si tratta di capitale umano su cui il paese ha investito delle risorse.
Non necessariamente quest’espulsione deve essere negativa. Buona parte di coloro che vengono espulsi dal percorso accademico si ritrovano infatti a dover ricercare soluzioni alternative. E qui cominciano però le difficoltà.
Alcuni infatti scelgono di restare. Molti possono testimoniare che il possesso del titolo di dottorato nella ricerca di un’occupazione diversa da quella accademica non è di alcun aiuto. Talvolta si risulta troppo qualificati (quante volte l’ho sentito dire). Oppure si è costretti ad accettare posizioni sotto qualificate. La stessa pubblica amministrazione non riesce a valorizzare i dottorati di ricerca, e questo è a dir poco paradossale: avete mai visto concorsi pubblici esclusivi per chi detiene un dottorato di ricerca? Nei concorsi spesso non viene nemmeno tenuto conto del dottorato o gli viene assegnato un punteggio molto basso. Molto spesso, a livello di concorso pubblico, che si abbia la triennale o il dottorato di ricerca poco cambia.
Ma il riconoscimento del titolo è difficile anche da parte del settore privato. Magari è dovuto alla qualità della formazione del dottorando (ed è vero in parte), magari è anche dovuto all’incapacità di molte imprese di comprendere le figure di cui hanno bisogno. E sempre più spesso si comincia a parlare di PhD transferable skills, cioé di quelle capacità acquisite durante il dottorato di ricerca che possono essere utilizzate nel settore privato (nell’ambito del project management ad esempio).
Alcuni scelgono anche di andarsene. Non che sia semplice entrare nel mondo accademico di un altro paese (la rete conta ovunque). Però una certa quantità di persone espulse dal sistema accademico italiano riesce a continuare a svolgere la propria professione fuori dal paese.
Guardiamo ai dati degli Erc grants (borse di studio attribuite dall’agenzia europea Consiglio europeo della ricerca, noto anche come European Research Council o Erc). Nel 2017 l’Italia si situava all’ottavo posto nella classifica dei paesi europei che avevano ottenuto più grants (lo vedete nell’immagine). Se però consideriamo la nazionalità di chi ha ottenuto quei grants la realtà cambia notevolmente: i ricercatori italiani sono al terzo posto, poco dopo la Francia (nel 2016 erano al secondo posto).
Altri ancora, il dottorato stesso non li prepara affatto per essere competitivi a livello europeo. Spesso si scrive per le riviste dell’università, magari quelle di cui il docente è il responsabile, e mai in inglese, la lingua internazionale della ricerca (anche se molto sta cambiando). Tutto il dottorato diventa un interminabile tentativo di entrare nelle grazie del docente, in alcuni casi con forme di “asservimento” totale nel timore di vedere diminuite le probabilità di restare all’università.
I problemi cominciano quindi alla base del percorso professionale accademico. Poi ci sono i soliti male dell’università italiana: il nepotismo e la burocrazia. Ma il dottorato stesso è pensato per un mondo della ricerca che è ormai cambiato. E questa mancanza di realismo impedisce di preparare i dottori di ricerca per soluzioni alternative a quelle accademiche.
Certo si possono aumentare i fondi per la ricerca, si può migliorare il sistema dei post doc e aumentare l’adattabilità delle competenze del dottorato per riutilizzarle in ambiti diversi da quelli accademici. Si possono anche aumentare gli standard di accesso al dottorato o impedire di fare ricerca nell’università in cui si è ottenuto il dottorato.
Quello però che la vicenda dei dottorati di ricerca ci dice è che il nostro paese nell’ambito della ricerca universitaria, così come in altri settori, preferisce evitare di fare i conti con i cambiamenti globali. Preferisce la nostalgia per l’età dell’oro – che non c’è mai stata -, il piagnisteo all’autocritica. È sempre la stessa storia di irresponsabilità.

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