Sono passati settant’anni dallo strappo di Tito con l’Unione Sovietica di Stalin. Un fatto al tempo stesso clamoroso e inevitabile, che seguì alla condanna delle scelte politiche ed economiche jugoslave da parte del Cominform (28 giugno 1948), al culmine di una disputa che, anche se non alla luce del sole, andava avanti, ormai, da qualche anno.
Gli anni successivi si incaricheranno di dimostrare che quella rottura non fu dettata soltanto da divergenze sul ruolo ed il grado di indipendenza dei paesi socialisti nell’ambito del nuovo blocco geopolitico gravitante intorno all’Urss, ma anche – o forse soprattutto – da diverse ed inconciliabili visioni strategiche riguardo alla costruzione della società socialista.
Predrag Vranicki, tra i fondatori della rivista marxista Praxis (1964-1974), qualche anno più tardi scrisse che “nello scontro erano in causa due diverse concezioni del marxismo”. Lo sforzo dei comunisti jugoslavi fu infatti, secondo il filosofo croato, proprio quello di “respingere l’eredità dogmatica” dello stalinismo, per una riscoperta (ed una valorizzazione) dell’antistatalismo insito nel pensiero di Marx.
Sul piano teorico, l’esperienza jugoslava ebbe il merito, innegabile, di riportare al centro della discussione filosofica e politica, dentro e fuori il paese, il tema del superamento del lavoro alienato, dell’abolizione del lavoro salariato. Lo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, secondo i teorici del nuovo corso jugoslavo, non si eliminava sostituendo alla proprietà privata la proprietà statale dei mezzi di produzione. Che al posto del capitalista fosse lo stato ad appropriarsi del “pluslavoro” (lavoro non pagato, oltre quello necessario alla sussistenza del lavoratore ed alla sua riproduzione come forza lavoro) non cambiava la natura dei rapporti di produzione, perché, sia nel primo caso che nel secondo, i mezzi di produzione rimanevano “estranei a chi produce” (come il prodotto del lavoro).
Ecco, allora, il grande tema della progressiva “ritirata dello Stato” dalla sfera economica, non nell’accezione liberista, ovviamente, bensì per affermare un nuovo assetto della società basato sulla “gestione diretta” delle imprese e dei servizi da parte dei “produttori associati” e dei cittadini, attraverso nuovi istituti di autogoverno locale. Un assetto sociale ed economico fondato sul concetto di “proprietà sociale”, dove la libera iniziativa del “lavoro associato” è funzionale sia al benessere del lavoratore che alla cosiddetta “riproduzione allargata” (nuovi impianti, nuove specializzazioni produttive, nuovi investimenti).
In sintesi: gli operai, tutti i produttori, finanche gli addetti ad alcuni servizi, si appropriano, collettivamente, dei mezzi di produzione e del loro “pluslavoro”, che, per una parte, sarà destinato all’ampliamento della base produttiva del paese (riproduzione allargata) ed al miglioramento della vita sociale degli stessi lavoratori (case, ambulatori, scuole, luoghi di ritrovo, ecc.).
Lo stalinismo – aggiungeva Vranicki – ha introdotto l’abitudine di misurare i progressi del socialismo in base alle tonnellate d’acciaio prodotte, al numero di fabbriche costruite. Il problema del socialismo invece sono i nuovi rapporti sociali, per cui l’uomo cesserà di essere un numero, per diventare effettivamente protagonista della storia.
Nella pratica, tale orientamento fu alla base di una serie di provvedimenti legislativi che, per un quarantennio, tra alti e bassi, successi e insuccessi, diedero impulso al cosiddetto “modello di autogestione jugoslavo”. Due, però, furono le fasi principali, più significative: quella che va dal 1950 al 1963 e quella che va dal 1963 al 1976 (anno in cui fu adottata la nuova legge sul “lavoro associato”).
Il nuovo sistema si basava su un complesso reticolo di relazioni economiche e politico-istituzionali, dal più piccolo villaggio al centro del potere federale. Ogni unità produttiva (si puntò su piccoli stabilimenti, in controtendenza con la regola della grande fabbrica fordista) era gestita direttamente dai lavoratori (con rotazione degli incarichi), mediante un “consiglio del lavoro associato”, che stabiliva anche i criteri di ripartizione degli utili, tenendo conto delle esigenze dei lavoratori e degli “obiettivi sociali” dell’attività economica.
Le decisioni sulla produzione venivano assunte in simbiosi con il livello politico locale (“consigli delle comunità locali”), nell’ambito delle strategie di sviluppo complessivo del paese decise dai vertici dello stato. L’idea era un po’ quella della “Comune”, come dichiarò lo stesso Edvard Kardelj, tra i principali teorici dell’autogestione, nel 1954:
È necessario creare organismi politici ed economico-sociali che siano il più possibile vicini al produttore […]. Attraverso la comune si realizza la distribuzione del pluslavoro.
L’obiettivo, come recitava la Costituzione del 1974, era quello di consentire all’uomo lavoratore di decidere
[…] direttamente e su piede di parità con gli altri lavoratori nel lavoro associato su tutto quanto concerne la riproduzione sociale in condizioni e in rapporti di interdipendenza, di responsabilità e di solidarietà.
Col passare degli anni si provò a riorganizzare tutta la società in base a questo schema, estendendo la regola dell’autogestione (e dell’autogoverno) anche al settore della cultura, dell’istruzione, della sanità, dei servizi sociali, dei trasporti (anche i bambini delle elementari sperimentavano l’autogestione). In tali ambiti sorsero le cosiddette “comunità di interesse autogestite” (Samoupravna interesna zajednica), costituite sia dai lavoratori che dagli utenti dei servizi.
Nel 1965 fu varata anche una riforma del sistema dei prezzi e del settore bancario per rendere ancora più libera l’attività delle imprese autogestite. Da un lato si stabilì che i prezzi fossero determinati dalla domanda e dall’offerta, dall’altra che gli investimenti fossero finanziati solo dalle banche (non più dai fondi speciali del governo), che potevano essere costituite dalle stesse imprese gestite dai lavoratori e dalle «comunità socio-politiche» (le comuni).
Nel corso degli anni non mancarono, comunque, scioperi e proteste da parte dei lavoratori (inammissibili in altri paesi del socialismo reale), a dimostrazione di come l’autogestione operaia non fu mai un fatto compiuto, definitivo. Nella maggior parte dei casi, però, quasi tutte le vertenze si chiudevano assecondando le richieste dei lavoratori, con conseguente aumento dei consumi, delle importazioni e, di conseguenza, degli squilibri (e del debito) con l’estero.
Tutto questo, almeno fino ai primi anni Ottanta, significò nondimeno, per milioni di jugoslavi, l’accesso, attraverso una strada diversa, alla società del benessere, con più diritti sociali dei loro contemporanei “occidentali”. Se ne giovò anche l’economia che, dalla seconda metà degli anni Cinquanta a tutti gli anni Sessanta, crebbe ad un ritmo molto sostenuto.
Si trattò, in ogni caso, di un processo che si sviluppò per tappe, tra passi in avanti ed arretramenti, con tanti aggiustamenti, scanditi da nuove leggi e riforme costituzionali, nel corso di quattro decenni. Non fu facile, peraltro, coniugare decentramento politico ed autonomia decisionale delle imprese, delle municipalizzate, delle scuole, degli ospedali, e prerogative dello stato federale, che non solo non si “estingueva”, ma manteneva le sue fondamentali esigenze di coordinamento delle attività economiche tra le varie repubbliche, d’altra parte attraversate anche allora da forti tensioni nazionalistiche.
Dire che l’esperienza di autogestione in Jugoslavia abbia avuto successo sarebbe eccessivo. Ai problemi di attuazione si accompagnarono prolungate divergenze nel gruppo dirigente sul significato da dare alla stessa e sul rapporto che doveva intercorrere tra iniziativa economica dal basso e pianificazione centrale. Lo stesso Tito, in principio scettico su questa strada, alternò sempre momenti di entusiasmo a momenti di preoccupazione che finivano, inevitabilmente, per accentuare il controllo statale sull’economia.
D’altro canto, i limiti dell’autogestione camminarono di pari passo con limiti di un regime politico pur sempre autoritario, paternalistico, caratterizzato da un eccessivo culto della personalità di Tito.
Allo stesso tempo bisogna riconoscere che quello jugoslavo fu il tentativo più concreto, più lungo e più ostinato, di realizzare il sogno di una società liberata dalla schiavitù del lavoro salariato. Il fatto che storicamente l’obiettivo non sia stato raggiunto, non è una giustificazione per buttare alle ortiche quell’esperienza, che invece andrebbe ulteriormente indagata, compresa.

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1 commento
Ottimo articolo anche per ricordare l’utopia Jugoslava. Perchè non si è affermata quell’utopia? Dove sono stati gli errori? Potevano fare qualcosa di più i partiti comunisti dell’europa occidentale?