Se si va a una guerra, anche “solo” diplomatica, è buona cosa, concordano gli analisti e i sacri testi militari, avere chiaro in testa chi è il nemico e chi gli alleati. E quale è il vero obiettivo su cui si intende puntare. La risposta a tutti e tre i quesiti di scuola (o di accademia militare), alla luce della disfatta di Bruxelles, è per l’Italia deprimente: l’Europa come nemico, nessuno come (vero) alleato. Né a Nord né a Sud.
Quanto poi all’obiettivo da raggiungere, di certo non viene chiarito dalle stizzite quanto indecifrabili parole del premier Conte, che sarà pure l’avvocato degli Italiani, ma che svolta in sedi sovranazionali, questa avvocatura di risultati ne ha portati a casa molto pochi, ad essere ottimisti. Per non parlare poi delle “sparate” dei due vice premier, Salvini&Di Maio, le cui minacce, non diamo i venti miliardi all’Unione, a Bruxelles hanno prodotto solo sorrisi, battute al vetriolo. E nessuna paura.
In Europa, quella che il governo gialloverde sta recitando è la solitudine dei numeri zero. Che rischiassimo di inanellare figuracce a gogò il capo dello stato lo aveva più che intuito, tant’è da aver imposto al ministero degli esteri una persona, Enzo Moavero-Milanesi che oltre che sapere le lingue, conosce molto bene anche i corridoi di Bruxelles e gode della stima delle più influenti cancellerie europee.
Il titolare della Farnesina ci ha provato e riprovato a far capire ai due contraenti del “contratto di governo” che la “diplomazia sotterranea” è più incisiva delle bordate di Twitter, delle minacce spuntate, di alleanze millantate (con l’Ungheria di Orban o con l’Austria del giovane cancelliere Kurz) ma che alla verifica dei fatti non solo non hanno funzionato, ma gli immaginifici alleati “sovranisti” si sono rivelati dei terribili “fratelli-coltelli” quando si è trattato di farsi carico di migranti salvati da navi italiane, di ong o della guardia costiera.
Siamo nell’epoca della postt verità, lo sappiamo bene, dove la realtà e la percezione, ma certe bufale, tipo “siamo invasi” da moltitudini di migranti illegali, può funzionare all’interno ma quando si prova a portare questa narrazione fuori dai confini nazionali, chi ci ha provato ne è uscito con perdite o, nel migliore dei casi, con dichiarazioni benevole mai seguite dai fatti. La politica estera è una cosa terribilmente seria, che mal si presta a improvvisazioni. I toni si possono anche alzare, e in alcuni casi è giusto farlo, ma se vuoi strappare dei risultati con qualcuno devi pure mediare, cercando di portartelo nel tuo campo. Invece, siamo alla rissa continua.
Alla fine, per ragioni umanitarie, i disperati della Diciotti troveranno una sistemazione a terra, ma resta il fatto che, sul piano europeo, questa vicenda non avrà comunque un happy end. Perché la nostra credibilità è in picchiata peggio della lira turca, e nessuno dei leader che contano in Europa, in primis Merkel e Macron, ci danno più retta.
Non solo. Con uno di questi, l’inquilino dell’Eliseo, lo scontro è totale. Ed è uno scontro sostanziale, non di bon ton diplomatico spesso finito sepolto da “cinguettii” insultanti, perché mette in gioco interessi geopolitici ed economici di primaria importanza. È la “partita libica”. Una partita miliardaria, perché riguarda lo sfruttamento delle risorse petrolifere del caotico paese nordafricano, così come la sua ricostruzione.
L’Italia ha puntato sul cavallo perdente: un primo ministro, Fayez al-Serraj, che avrà pure il titolo di premier ma in Libia nessuno ne riconosce, di fatto, l’autorità e l’autorevolezza. Di contro, Parigi, in totale sintonia con l’Egitto dell’ambizioso al-Sisi, ha scelto da tempo di puntare sull’uomo forte della Cirenaica: il general Khalifa Haftar. Macron e Sisi hanno ribadito, solo pochi giorni fa, che le elezioni legislative e presidenziali si terranno, come concordato nella Conferenza di Parigi, entro la fine dell’anno.
Roma, e anche con ragioni fondate, pensa che visto il caos armato e istituzionale che vige in Libia – due governi, due parlamenti, oltre duecento e cinquanta tra milizie e tribù in armi, territori in mano ai trafficanti di esseri umani in combutta con milizie, anche jihadiste, e tribù locali – imponga quanto meno prudenza nel convocare elezioni che di libere e democratiche, alle condizioni attuali, avrebbero poco o niente.
Ma delle lamentele italiane, l’inquilino dell’Eliseo e il suo omologo del Cairo, se ne fanno un baffo, tanto sanno che quelle elezioni le vincerà a man bassa il loro candidato, Haftar, che dopo aver acquisito il sostegno di Bengasi e del “governo” di Tobruk, ha cominciato una campagna acquisti anche in Tripolitania, portando dalla sua parte milizie potenti e radicate, come quella di Misurata, e signori della guerra, camuffati da politici, che hanno girato le spalle al sempre più isolato Serraj.
Di questa situazione tutti, ma proprio tutti, a Bruxelles (intesa sia come Ue che come Nato), ne sono a conoscenza, anche nei dettagli. Che la Libia, compreso il “nostro” Serraj, non intende accollarsi altri migranti, dicendo chiaro e tondo che in Libia non ci sono porti sicuri, che la Libia non accetterà mai e poi mai la realizzazione di hotspot europei, sul proprio territorio, è cosa arcinota. Eppure, il titolare della Farnesina, continua a minacciare l’Europa che se non si fa carico dei “migranti illegali” della Diciotti, “saremo costretti a riportarli in Libia”.
E a riportarli dovrebbe essere una nave militare italiana che, senza permesso delle autorità di Tripoli, dovrebbe entrare nelle acque libiche: un atto che, ha già fatto sapere il generale Haftar, verrebbe considerata come una provocazione, un atto di guerra, una violazione della sovranità nazionale libica da parte dei neocolonialisti italiani, con le conseguenze adeguate a queste accuse. Insomma, un disastro. Al quale l’europeista Moavero ha provato a mettere una pezza, anche recandosi in missione in Libia, per poi essere puntualmente spiazzato dalle bordate dialettiche dei ben più potenti vice premier.
Di avere tra i piedi testimoni scomodi come quelli dell’Unchcr e dell’Oim, i Libici che gestiscono i centri-lager di detenzione non lo ammettono neanche come ipotesi, semmai l’Italia aumentasse i finanziamenti sottobanco a sindaci e milizie che spadroneggiano, spesso camuffati da guardie costiere o da secondini, nelle aree da dove partono le carrette el mare sulla rotta mediterranea, destinazione Italia.
Se poi aggiungiamo la sfiorata crisi diplomatica con Tunisi (“Esportano galeotti”, Salvini dixit), il fatto che al Cairo nessuno ci ama, né ci ascolta (vedi la vergogna del “caso Regeni), la frittata a sud è fatta.
Quanto poi all’internazionale europea dei sovranisti, siamo già ai titoli di coda. Perché magari ci saranno anche affinità ideologiche, tendenti al razzismo, tra il leader della Lega e gli ultranazionalisti duri e puri dell’Est allargato all’Austria, ma quando poi c’è da condividere scelte impegnative, fosse anche una battaglia comune per una riscrittura in senso sovranista del Regolamento di Dublino sul diritto di asilo, gli amici se ne vanno, non si presentano (come è avvenuto ieri a Bruxelles) e ti lasciano con il classico cerino acceso in mano.
E ad alleviare la solitudine dei numeri zero non basta certo il “Giuseppi” di Donald Trump. Perché cosa l’Italia in gialloverde sia diventata per l’America di The Donald, è ormai chiaro: la Bulgaria dell’Europa.

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