Furono 420.000 i giovani americani che riuscirono a disertare sottraendosi alla guerra in Vietnam, dal 1966 alla fine del 1972. Sfidando sanzioni severe. Oltre otto milioni furono in quel periodo i soldati di leva, allora obbligatoria, oltre due milioni dei quali in zona di combattimento.
Molti “war resisters” trovarono rifugio in Canada. E in Svezia. In Francia. In Gran Bretagna. Erano accolti da eroi. C’era una vasta rete di associazioni pacifiste che aiutavano i giovani a scappare. A non andare in guerra. Una guerra che lacerava l’America. Inorridiva il mondo – quattordici milioni di tonnellate di bombe, distruzione e morte provocate da napalm e agente Orange, due milioni di vietnamiti uccisi, 58.000 soldati americani che non sarebbero più tornati vivi, decine e decine di migliaia che avrebbero sofferto il resto della loro vita per le ferite fisiche e mentali subite.
Il Vietnam era già un inferno. I campus erano in rivolta e John McCain si sentiva un John Wayne. Figlio e nipote di ammiragli, s’arruolò nell’aviazione della marina. Dopo un periodo sulla Forrestal, costretta a rientrare, chiese di far parte della V-163 “Saints”. La squadra aerea che decollava dalla portaerei USS Orikskany era conosciuta per le sue missioni spericolate che picchiavano pesante sul Nord Vietnam. McCain si distinse con le sue incursioni distruttive, tanto da meritare la prestigiosa Navy Commendation Medal per le bombe eroicamente lanciate sui vietnamiti.
Ma il 26 ottobre 1967, mentre era impegnato nella sua ventitreesima missione, il suo aereo fu colpito da un Sa-2 di fabbricazione sovietica lanciato dall’antiaerea vietnamita. McCain si salvò miracolosamente, e qui inizia la vicenda della sua lunga e dura prigionia intorno alla quale è stata costruita la narrativa dell’eroe. Ulteriormente esaltata dalla contrapposizione alla vicenda di Donald Trump, che alla guerra del Vietnam si sottrasse.
In quanti fecero come l’attuale presidente? Ci fu chi sfidò il governo bruciando pubblicamente la cartolina di chiamata alle armi. E oltre a chi riparò all’estero, gran parte cercò di aggirare il servizio militare con espedienti. Fingendosi malato o disabile, come Trump, dicendo di far uso di LSD, di essere omosessuale, comunista, o dichiarando di voler diventare prete, pastore o rabbino, o procurandosi lesioni. Diversi riuscirono ad arruolarsi nella Guardia nazionale di uno stato (è il caso di Clinton e Bush) il che consentiva di non andare al fronte.
Era un vigliacco chi non voleva andare a uccidere e a farsi uccidere, come sembra affermare il sottotesto di chi pone Donald Trump come il furbo raccomandato in contrapposizione all’integerrimo McCain?
Perfino Gian Antonio Stella, che se non altro per generazione e per sensibilità dovrebbe avere ben presente cosa fu il Vietnam e quanto ancora pesi sulla coscienza dell’America, s’unisce volentieri al coro di chi ribalta il senso di quella guerra, attribuendo al pilota volontario (che bombardava i civili) la parte positiva e a chi vi si sottrasse la parte dello stolto, solo perché quest’ultimo si chiama Donald Trump, che gli nega il titolo di “eroe” nel messaggio di cordoglio.
McCain fu sicuramente eroico nel rifiutare di essere rilasciato dai vietnamiti decidendo di condividere con i suoi commilitoni i patimenti della dura prigionia nell’Hanoi Hilton, non per questo fu un eroe, qualsiasi sia la ragione, sicuramente non nobile, del diniego posto dal presidente.
Non si può riscrivere la storia del Vietnam – la guerra, chi vi prese parte e chi vi s’oppose o cercò di evitarla – ritagliandola intorno a queste due figure. Perché è questo che si sta facendo, se non si ricorda perché McCain (lo scrive Stella) era
finito con una gamba e le braccia fratturate in mezzo a una folla di vietnamiti furenti, fu massacrato di botte, rischiò il linciaggio e finì per cinque anni in una galera di Hanoi. Torturato. Affamato. In isolamento.
Già, perché era “finito” tra “vietnamiti furenti” quel giovane americano? Diamine, solo avessero saputo come un giorno l’avrebbero ricordato da eroe, gli avrebbero riservato ben altra accoglienza.
Dopo il Vietnam, l’Iraq, l’Afghanistan. Altri morti. Centinaia di migliaia. Altri caduti. Altre distruzioni. Sofferenze. Violenze. E tanti soldati americani che hanno disertato e disertano, pur essendosi arruolati volontariamente.
“Come ogni uomo di guerra aveva imparato a non invocarla”, scrive ancora Stella. Già, sarebbe stato logico e umano aspettarselo da uno con il suo vissuto. La verità è all’opposto: McCain è stato un convinto sostenitore di tutti i conflitti seguiti a quello del Vietnam. E altri ne avrebbe aperti, fosse stato eletto presidente. Altri ne avrebbe voluti, criticando Trump per non essere abbastanza pistolero come ha da essere un presidente americano.
Sì, McCain ha condannato con durezza Abu Ghraib. S’è opposto con fermezza al ricorso alla tortura. Perché aveva il rigore e il codice d’onore del militare perbene. Infatti era ed è stato fino in fondo e fino all’ultimo, appunto, un militare d’un pezzo, che credeva nel ricorso alla guerra. Che credeva a un’America che dovesse fare lo sceriffo del mondo. L’America che andò in Vietnam. Che non imparò la lezione, facendo altre guerre. E che idealizza oggi un giovane che non volle sfidare, come tanti suoi coetanei, loro sì, eroi, i fautori di una guerra mostruosa, ma l’abbracciò convintamente inseguendo la gloria con bombe su città e persone distanti migliaia di chilometri da casa sua. Meglio chi non lo fece, si chiami pure Donald.
il manifesto

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