Mário Rui de Oliveira. Portoghese di Roma. Poeta

Ha studiato e vive in Italia da undici anni. È un autore lusitano, la cui opera sboccia in terra italiana e che merita almeno il diritto alla cittadinanza onoraria nella Letteratura del nostro Paese
FRANCISCO DE ALMEIDA DIAS
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Le parole poeta e viaggiatore devono avere uno stesso etimo segreto che nessun filologo ha ancora ritrovato, perché entrambi vivono dell’aria trasportata dal movimento, del cuore stretto delle partenze e subito allargato degli arrivi. Sono innumerevoli i casi regalatici dalla Storia della Letteratura: poeti che arrivati in Italia rimasero affascinati dalla sua grandeur o inteneriti dai suoi provincialismi, autori che hanno messo in parole quello che i pittori hanno dipinto nelle loro tele – colore, luce, ombre violente. Un autore portoghese, la cui opera sboccia in terra italiana, non dovrebbe avere almeno il diritto alla cittadinanza onoraria nella Letteratura italiana? È in questo tempo in cui tanti e tanti italiani ottengono la loro pensione senza le detrazioni fiscali in terre lusitane, che ci piacerebbe parlare invece di un portoghese che ha studiato e che vive in Italia da undici anni: Mário Rui de Oliveira.

Il poeta nasce nel nord del Portogallo (Joane, Famalicão) all’indomani della rivoluzione che riportò nel Paese la democrazia. I primi studi li fa in terra lusitana, proseguendoli poi a Roma e affermando la sua vocazione religiosa. Vive in Italia stabilmente dal 2007, lavorando nell’ambito giuridico della propria formazione accademica. Del periodo antecedente l’emigrazione sono datati i suoi quattro lavori letterari dati alle stampe in un tempo breve e concentrato: due raccolte di poesia inedita e due importanti traduzione poetiche.

Tonino Guerra è l’autore che porta in Portogallo, pubblicato dalla prestigiosa Assírio&Alvim. Prima di  “Histórias para uma noite de calmaria” (“Il polverone: storie per una notte quieta”) nel 2002 e di “O mel” (“E’ mel”), in edizione bilingue portoghese-romagnolo nel 2004, lo scrittore e sceneggiatore italiano era stato tradotto soltanto una volta nella lingua di Camões, da José Colaço Barreiros per la stessa casa editrice nel 1997. La prima delle traduzioni di Mário Rui de Oliveira verrà utilizzata nelle grandi retrospettive nell’ambito del Festival “Sete Sóis, Sete Luas” nel 2003 (Cf. Tonino Guerra. “L’infanzia del mondo: Opere 1946-2012”, a cura di Luca Cesari, Bompiani, 2018).

Tra l’una e l’altra, “O Vento da Noite”, nell’aprile del 2002, sarà l’opera di esordio – “di un poeta maturo”, scriverà nella prefazione il grande Eugénio de Andrade, una delle voci maggiori della Poesia contemporanea portoghese, aggiungendo che si trattava di “piccoli testi in prosa; in realtà brevi poesie, con un ritmo preesistente, sicurissimo” – seguito, subito nel dicembre dell’anno successivo, da “Bairro Judaico, in cui la romanità di Mário Rui de Oliveira si dichiara senza indugi. La prima raccolta verrà recensita nel periodico referenziale delle lettere portoghesi, Colóquio Letras da José Ricardo Nunes (cf. n.º 161/162, Jul. 2002, p. 450-451); la seconda, invece, da una delle più grandi autrici lusofone attuali, Ana Teresa Pereira, in un articolo dal titolo “Gli Uomini, gli Animali e gli Angeli” nel giornale di grande tiratura Público (6 marzo 2004).

Dopo questo successo riconosciuto dai più grandi, il poeta Mário Rui de Oliveira scompare dalla scena letteraria portoghese. Soltanto due o tre volte in questo frattempo, in articoli o interviste che lo riconoscono come uno dei portoghesi influenti presso la Curia pontificia, viene citata en passant la sua vocazione poetica (anche nel recente articolo di Miguel Marujo nel Diário de Notícias del 28 giugno 2018), letta in chiave invariabilmente teologica. Ma che fa il poeta lusitano di Roma? 

Mário – senza accento è italiano puro, italiano tipico… Credi che nel tuo nome ci fosse già una predestinazione italica? Da dove vieni? Ti senti a casa nella città di Roma?
Mi dispiace deluderti ma non vedo alcuna predestinazione che, tra l’altro, è una parola che non mi piace. Preferisco la parola libertà, alla quale un amico amava brindare, dicendo “alla libertà, che è sempre poca”. Alla predestinazione preferisco quello che uno dei nostri maestri del sospetto, Vergílio Ferreira, diceva:

l’importante non è quello che la vita ha fatto di noi ma quello che noi abbiamo fatto con ciò che la vita ha fatto di noi.

Certamente è stata Roma a portarmi alla poesia. Amo pensare che la poesia e Roma mi hanno fatto così, proprio come sono. Un ragazzo di provincia, del nord del Portogallo, di un paese con il nome di un personaggio di Gil Vicente (“Joane”) e dove sono stato felice, ho sofferto e ho iniziato a trovare un senso. A Roma cammino sempre col cuore in mano, sfiorando le mura, cercando il vento della notte. Questa, perciò, è la mia casa.

La critica si ostina a vedere Dio in ogni tuo componimento poetico, anche quando la sua presenza non è direttamente evocata. A me piace invece la libertà di leggere i tuoi testi nella loro fragile e forte umanità, lasciare che Dio si manifesti solo se vuole – e a volte non compare proprio davanti a me. Cioè, non credo che sia necessaria una lettura teologica dei tuoi testi. Se dovessi parlare di te stesso – uomo di fede, uomo di poesia, semplicemente uomo – in che termini lo faresti? Quante volte ripeteresti, anche solo mentalmente, la parola “Dio”?
Pensi che sia una ostinazione? A me invece fa piacere quando parlano della mia scrittura e vi scoprono la presenza, anche se dissimulata o soltanto sussurrata, ma comunque viva, del trascendente. Sogno una poesia che possa popolare nuovamente l’abisso di stelle (colgo l’immagine di Walter Benjamin che nel suo “Charles Baudelaire” ha scritto che “l’abisso di Baudelaire non ha stelle. La sua lirica è, in verità, la prima nella quale non compaiono le stelle”). Penso che sarebbe ora di ridare le stelle a quel cielo baudelairiano che così dolorosamente le ha abbandonate. E se Dio ritornasse alla poesia e ciò fosse non una reazione ma la nuovissima rivoluzione? Il lusso della modernità è, senz’altro, poter leggere i testi e la realtà senza Dio, ma la notte senza stelle è meno bella e Dio non ha mai abbandonato la poesia, si è soltanto rivestito di fragilità e più umanità, si è vestito da mendicante, e ha colmato gli spazi in bianco che separano una parola dell’altra, illuminando le parole di un mistero ancora più profondo. La poesia è, ancora oggi, il modo meno indegno di parlare di Dio. È per questo che il grande teologo Hans Urs Von Balthasar ha scritto che la miglior teologia del XX secolo è stata scritta dai poeti. 

Parlare di me non mi piace, né del resto so farlo. Sono ancora un mistero molto grande per me stesso come poeta. Non so nemmeno perché continuo a scrivere e se ciò che scrivo può considerarsi poesia. Sono un uomo semplice che è stato forse visitato dalla poesia senza averla negata. Ma la santità è molto più importante e dovrebbe essere questa la più grande ambizione del poeta.

Tra le tue pubblicazioni – i tuoi due libri di poesia e le traduzioni portoghesi di Tonino Guerra – e oggi sono passati quattordici anni. Anni di fermento poetico? Cosa fa un poeta che non pubblica? È verosimile pensare che un poeta possa smettere di scrivere?
Rimbaud ha pubblicato pochissimo. Cristina Campo avrebbe voluto scrivere ancora meno di quanto ha fatto. Il processo della scrittura è un vero combattimento corpo a corpo con la mia mancanza di temerarietà nello scrivere. Non sono sicuro di nulla e tutto mi spaventa. Perciò facilmente cedo alla distrazione, e perfino alla superficialità. E poi c’è anche il ritmo della vita professionale che ti assorbe e ti allontana da ciò che è essenziale. Ma la poesia è una inabitazione, scorre nelle vene, intima dell’anima, e quando meno ci si aspetta lei ti sorprende come una visitazione.

Farti domande su dei libri pubblicati tanti anni fa non ha forse molto senso. Però una spiegazione da parte tua è ancora doverosa: il perché del “quartiere giudaico” nel titolo della tua seconda raccolta? Pensi che ci siano a Roma spazi che simbioticamente possano assorbire tutta la città, tale come un poeta la vive?
Il quartiere giudaico di Roma è una delle zone più simboliche e di grande complessità per la sua concentrazione di dolore e desiderio di ricostruire la vita dalle macerie. Oggi è un luogo di grande effervescenza culturale e gastronomica, ma da lì sono partite durante la Seconda Guerra mondiale migliaia di persone per la deportazione e la morte. Le nostre vite somigliano molto a delle città distrutte e in questo senso il “Bairro Judaico” è un invito a ridurre tutto all’essenziale. Quel quartiere è un ambiente concentrazionario, come la poesia. Quel quartiere è il mondo ed è il nostro cuore. Lì ha vissuto una donna, un’artista fotografa americana che amo molto, Francesca Woodman, che passava il tempo a farsi fotografie nuda in un ostinato atteggiamento di scomparsa. La poesia ha anche questa missione: esporre la nostra nudità, come una parola finale. Credo che si riferisse proprio a questo Novalis quando ha scritto “quanto più poetico più reale”, o Paul Celan quando ha detto “solo mani vere possono scrivere poesie vere”. La poesia è un cammino di verità.

Tonino Guerra: un Maestro che hai tradotto in portoghese e con cui hai convissuto un po’. Quale è, secondo te, il legato più importante che ha lasciato a questo mondo bisognoso di cultura? E cosa hai ricevuto, tu, in eredità?
Tonino Guerra era un artigiano delle parole, il più grande narratore e incantatore di storie. Tonino Guerra era Shahrazād redivivo, colui che fa dipendere la vita dal racconto incessante e infinito di una storia. Il legato di Tonino a questo mondo così carente di cultura sono l’urgenza e la possibilità della poesia. Lui ci ha mostrato il cammino: lo sguardo attento, dolce, affettuoso su quel mondo che abbandoniamo, ma da cui ancora oggi scaturisce un filino di luce dove può risiedere la salvezza. Le chiese abbandonate, gli orti e la frutta dei tempi dei nostri nonni che recuperano i colori e i sapori di allora, la luce crepuscolare di una sera d’estate che copre di ombre un corpo nudo sdraiato sulla sabbia, l’ultimo sguardo degli appassionati momenti prima di entrare in un convento, un folle che attraversa una piscina con una candela in mano implorando un miracolo, una vecchia che s’innamora del ticchettio di un orologio perché le fa ricordare un cuore, ecc. Tonino ha lasciato, soprattutto a chi gli si è avvicinato e ha ricevuto il grande dono della sua amicizia, una consapevolezza! Consapevolezza della necessità di incendiare il mondo di bellezza, amore e poesia, consapevolezza della poesia come una missione che vuole trasformare la società.

Infine, la tua nuova raccolta, che sarà pubblicata in Portogallo nella stessa prestigiosa casa editrice che ha dato alle stampe i tuoi precedenti lavori. Un “libro della consolazione” per chi? Per il poeta che lo scrive, o per chi lo legge? Credi che poeta e lettore possano coincidere miracolosamente in una frazione di tempo-spazio gnoseologico?
Credo che la poesia sappia di più del poeta. L’atto di pubblicare vale nella misura in cui la poesia è devoluta al poeta come un corpo estraneo dal quale lui può imparare in questo processo di straniamento. Il poeta non ha nulla da insegnare, ma ha tutto da imparare con l’alterità che viene dalla pubblicazione. Perciò è molto interessante leggere la critica e la risonanza delle poesia nell’altro. La poesia si fa in dialogo con un tu e, al limite, credo, con il Tu che è la pura alterità e la consolazione definitiva. Si scoprono cose straordinarie nella lettura devoluta dagli altri. Questo libro della consolazione può, in questo senso, essere una rivelazione. Sono passati molti anni dall’ultimo libro e da allora la morte è entrata nella mia vita, dolcemente o con violenza, in tante persone che ho conosciuto e amato, e questo bisogna che sia lavorato e abbracciato. Proprio per ciò, forse, ho scritto questo libro, perché “la nostra necessità di consolazione è impossibile da soddisfare” (Stig Dagerman).

Per fortuna – lo possiamo annunciare in anteprima ai lettori di ytali.com – il poeta di “O Vento da Noite” e “Bairro Judaico” sta per ritornare sulla scena letteraria, con la pubblicazione di “O Livro da Consolação, nel marzo del 2019, fedelmente affidato ai tipi della lisbonese Assírio&Alvim. Sempre nel 2019, nel volume “Nel Tempo e nella Vita: il Viaggio, Metafora e Realtà”, che sarà pubblicato dalla casa editrice SetteCittà nell’ambito delle commemorazioni dei 740 anni della morte di Pedro Hispano, illustre filosofo, medico e unico Papa portoghese, promossi dalla Cattedra che all’Università della Tuscia porta il suo nome, ci sarà un tentativo di rilettura dell’opera poetica e di traduttologia di Mário Rui de Oliveira, che avremo il piacere di condividere con voi a suo tempo. 

versione originale in portoghese

Mário Rui de Oliveira. Portoghese di Roma. Poeta ultima modifica: 2018-09-04T15:48:49+02:00 da FRANCISCO DE ALMEIDA DIAS
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