Teotihuacán è un grande centro urbano dove il segno appare come fenomenologia, manifestazione di un dialogo tra l’uomo e il territorio al quale viene riconosciuta una sapienza altra di cui sono depositari esseri superiori – le deità – che ne governano l’andamento. La città esprime morfologicamente la cerimonia, il rito della convivenza tra l’uomo e la deità secondo una gerarchia in cui l’uomo chiede, cerca la benevolenza, l’amicizia e i favori di chi è ritenuto padrone del territorio e si trova nella natura circostante, nello spazio aperto. I segni rimandano appunto a una società agricola che si avvaleva dei giacimenti di ossidiana della zona, a una cultura che si può interpretare solo attraverso i segni che ha lasciato: quelli della città in quanto tale, delle sue piramidi e del contesto urbano e quelli iconografici in verità non molto numerosi.
I segni di Teotihuacán tendono a celebrare lo spazio che è attraversato da un imponente asse centrale, il viale dei morti, uno spazio che misura più di duemila metri di lunghezza e largo quaranta, lungo il quale sono distribuite piattaforme scandite a intervalli regolari da numerosi altari in forma di piramide tronca, che si chiude con il corpo massiccio della piramide della luna. In un lato centrale del percorso si trova una zona abitativa e poco più avanti la grande piramide del sole, espressione del culto a una deità dello spazio, esterna. Il tutto è esposto a ovest per quel timore reverenziale degli abitanti verso l’astro cui chiedevano appunto di ritornare. In parte, all’inizio del percorso, c’è la cittadella, il luogo dove viveva la casta sacerdotale; sul fondo si trovano due piramidi dedicate a Quetzalcoatl, il Serpente piumato, la deità più importante del luogo. Secondo alcuni studiosi, nel massimo del suo splendore la città aveva una popolazione superiore ai duecentomila abitanti e un ruolo di grande rilievo nel Mesoamerica di cui si trova eco anche in alcuni insediamenti maya a Copan, in Honduras.
Si ignora la lingua della civiltà teotihuacana che va dal 200 a.C al 700 d.C. e il suo stesso nome che significa Città dove gli uomini diventano dei è opera degli aztechi/mexica che parlavano il nahuatl.
Tra i segni più significativi che dicono di Teotihuacán va annoverata una pittura murale che si trova presso il museo di antropologia di Città del Messico. Riproduce un singolare affresco denominato Tlalocan, il paradiso di Tlaloc (1), il cui originale, fortemente menomato dal tempo, dalle intemperie e da una cura giunta molto tardi, si trova a Teotihuacán. L’affresco raffigura una scena o più scene in sequenza i cui protagonisti – uomini, piante, fiori e frutti – si vedono accomunati e riuniti in quello che sembra un giardino e in un atteggiamento che suggerisce un’atmosfera festosa.
Su tutto domina Tlaloc, il dio della pioggia, riconoscibile per gli ampi occhi circolari e l’acqua che profonde in abbondanza. Egli accoglie o protegge o gratifica i personaggi che si muovono nel suo giardino, il Tlalocan, che si cibano delle piante – zucche, mais e fagioli, in prevalenza – che crescono nello stesso. La presenza simbolica di farfalle che riportano come in altre culture alla metamorfosi, sembra indicare un luogo in cui i morti si cibano delle piante che vi crescono e ritornano a nuova vita.
È la lettura che fa dell’affresco l’antropologo Alfonso Caso, che però un altro studioso delle civiltà precolombine del Messico, Eduardo Matos Moctezuma, non condivide, ritenendo che il mural voglia rappresentare una “festa specifica collegata alla raccolta di frutta” (2) e che tutta la scena sia un rituale vincolato alla semina e all’attività agricola in generale. Quale che sia la lettura dell’opera, le due interpretazioni convengono sul vincolo divino che collega la natura, l’uomo e l’alimentazione direttamente e benignamente alla divinità.
I segni dicono anche di ciò che non c’è, ossia di animali come i cavalli, le vacche o le pecore scomparsi nella regione fin dall’ottavo o settimo millennio, delle conseguenze sul sistema alimentare delle popolazioni native prevalentemente di natura vegetale e della corrispondente dominanza delle deità collegate ai prodotti agricoli. Secondo lo storico e antropologo Enrique Florescano (3),
L’associazione del dio del mais con l’origine del cosmo e con la nascita della civiltà esprime l’importanza che i popoli del Mesoamerica attribuirono alla domesticazione della pianta del mais,
la quale addirittura riunisce tre deità che corrispondono rispettivamente alla semina, alla crescita e alla produzione di pannocchie, fino al punto di essere la base di tutto il complesso olimpo delle deità delle culture olmeca, maya, tolteca, azteca, che con altre costituiscono la struttura del variegato mondo delle civiltà mesoamericane prima della Conquista.
I mexica/aztechi che della civiltà teotihuacana mutuarono conoscenze, credenze e cultura si insediarono intorno all’anno mille nella valle di Anahuac, un’area occupata da acque salate, in prevalenza, all’interno di una conca in cui la disponibilità di terre era alquanto limitata. La città di Tenochtitlan, fondata nel 1325, si trovava nel bel mezzo delle acque e la maggioranza della popolazione (4) era distribuita lungo le rive in altri centri urbani come Texcoco o Coyoacán o Iztapalapa, per nominarne alcuni fra i più importanti.
È attorno a questi fattori originari che pongono in primo piano il territorio e lo spazio che si va caratterizzando un atteggiamento, una visione del mondo, una cultura, una civiltà insomma dove la vita si realizza prevalentemente all’esterno, come si addice a un’economia basata sull’agricoltura che in assenza di altre risorse diventa decisiva. La piramide è la testimonianza di un rapporto con il divino che si realizza all’esterno, è un riferimento attorno al quale si forma la comunità, è il segno che esprime una presenza altra e rende divino lo spazio aperto oltre le morfologie dell’architettura, anch’esse sempre proposte come origine e non come conclusione.
Ed è in questo modo che i segni come le piramidi – le piramidi mesoamericane non hanno la stessa funzione di quelle egiziane – trasmettono un senso agli spazi aperti che diventano luogo cosmico dell’incontro, territorio dove l’uomo vive con i prodotti e il divino che a essi presiede. E non è di secondaria importanza il fatto che il percorso delle culture mesoamericane, interrotto dalla Conquista, rimanga così sullo sfondo come valore da recuperare nel momento in cui si porrà la questione della ricostruzione storica del paese. E ciò puntualmente avvenne dopo la rivoluzione messicana del 1910, quando gli artisti, chiamati a raccontare il paese, inventarono il muralismo: un fenomeno culturale tipicamente messicano, spaziale ed esterno.
Con lo spazio e l’esterno dovette fare i conti anche la Chiesa di Roma nella sua opera evangelizzatrice fin dai primi tempi della Conquista, creando l’atrio, lo spazio sacro davanti alla chiesa, con le sue stazioni di posa ai quattro angoli e con la cappella aperta dominante.
Come non pensare a questo contesto culturale guardando le torri realizzate da Luis Barragán con l’importante contributo dello scultore Mathías Goeritz e del pittore Jesús Reyes Ferreira? Le cinque torri colorate e a forma di prisma triangolare vennero realizzate tra il 1957 e il 1958 in uno spazio aperto. Oltre tutti i sensi che si possono loro attribuire, esse hanno la forza dello spazio di cui sono il segno, il luogo dell’incontro cosmico da cui tutto ha origine. In esse si sente l’eco della piramide per quella loro esteriorità che le trasforma in progetti dello spazio aperto e non del luogo chiuso e dello spazio di cui raccoglie l’aspetto qualificativo e i colori. E se sono segni dell’orientamento, non si riferiscono a quello urbano, ma a quello spaziale al quale si connettono per ribadire la loro stessa ragione.
l’articolo appare sul n. 20 di ArtApp
Venezia, 25 marzo 2018
Note
1 – Edmundo Matos Moctezuma, Teotihuacán, Editorial México, México, 2002, pagg. 64-65.
3 – . Enrique Florescano, Quetzalcóatl y los mitos fundadores de Mesoamérica, Taurus, México, 2004, p. 37.
4 – All’arrivo dei conquistadores, la popolazione stimata di Tenochtitlan – della parte lagunare e di quella lungo le rive del lago – propone dei numeri che vanno dai 200 mila abitanti ai 700 mila. Cortés parla di “più di sessantamila anime che comprano e vendono” solo nel mercato di Tlatelolco. Lo storico Clavijero ricorda che Juan di Torquemada aveva riferito di 120 mila case, mentre Herrera aveva limitato le case a 60 mila unità. La sua stima è di 200-250 mila abitanti. Francisco Javier Clavijero, Historia antigua de México, Porrúa, México, 2003, p. 477. Secondo dati di stima più recenti, la popolazione che abitava esclusivamente la zona interna del lago, non superava i cinquantamila abitanti.

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