Centosei giorni di serrata degli agrari, cinquanta giornate di sciopero dei braccianti, scontri drammatici tra esercito e lavoratori, diecine e diecine di feriti, ma alla fine i braccianti vinsero e ottennero un contratto più avanzato. Ma questo non fu loro perdonato: sessantasette lavoratori e sindacalisti mandati l’anno dopo a processo, in assise, dopo dieci mesi di galera. Ma la montatura non resse: assoluzione piena per tutti tra la furia e lo sgomento dei vertici della magistratura.
Tutto accadde 110 anni fa, a Parma prima e a Lucca poi. Che cosa fu e che cosa rappresentò quella lunga lotta nella primavera-estate del 1908 lo ha raccontato anche alle nuove generazioni l’affettuosa rievocazione che di quello sciopero ha fatto Bernardo Bertolucci in quel film-epopea che è “Novecento”.
Qui, ora, basterà ricordare che l’Agraria parmense era decisa a piegare un bracciantato forte – forte esso, ma non ugualmente un sindacato lacerato da profondi contrasti – e deciso a imporre un nuovo contratto in una delle zone agricole più ricche d’Italia. E allora prima i padroni proclamarono la serrata, lunga più di tre mesi; e quando, alla fine della serrata, i lavoratori risposero con lo sciopero, gli agrari fecero arrivare dalle vicine province lombarde e dai paesi dell’Appennino toscano centinaia di “crumiri” con l’evidente ma vano scopo di rompere la compattezza della lotta, anche a costo di creare incidenti.
E puntualmente gli incidenti si verificarono, nel pomeriggio del 19 giugno, nelle vicinanze della stazione ferroviaria occupata dai braccianti in sciopero per impedire l’arrivo di quanti dovevano sostituirli. Fu scatenato l’esercito, e ai lancieri a cavallo impegnati nelle cariche (ci sono immagini straordinarie nelle pagine della Domenica del Corriere del tempo) si aggiunse un gruppo di “lavoratori volontari” (testuale in una corrispondenza del Resto del Carlino) che cominciò a sparare. La sera, nell’Oltretorrente dov’erano state alzate anche barricate, fu proclamato lo sciopero “finché il diritto comune non venga ristabilito”.
E invece, l’indomani, avvennero gli incidenti più gravi, culminati nell’assalto alla sede della Camera del lavoro da parte di carabinieri e fanti che sparavano contro chiunque mentre, dai tetti delle case, scagliavano tegole e sassi. Molti, quasi cento, i feriti, ma uno solo tra i soldati; più di cento gli arresti e, di questi, sessantasette incriminati per così gravi reati (insurrezione armata, tentato omicidio, associazione per delinquere) che fu necessario processarli più tardi in Corte d’assise. Ne scamparono solo sette, riusciti a rifugiarsi a Lugano. Ma del processo parleremo dopo.
Conta ora segnalare che gli eventi di quei mesi avevano posto una serie di questioni, alcune delle quali sono ancora oggi al centro di discussioni tra gli storici del movimento operaio. Intanto e soprattutto i rapporti di forza. Gli agrari erano avvantaggiati dalle divisioni nel campo opposto e in particolare in una Camera del lavoro costretta a scontare gli effetti della mancata unità del movimento operaio, lacerato tra la componente che si richiamava all’esperienza anarchica e del sindacalismo rivoluzionario, e quelle moderato-riformiste che dirigevano Confederazione del lavoro e Partito socialista. E la Camera del lavoro di Parma era diretta dai rivoluzionari, isolati quindi e privi di quella “solidarietà politica e sindacale efficiente a decisa”, secondo l’opinione che avrebbe espresso nel 1958 Fernando Santi, della segreteria generale della Cgil, proprio a proposito dello sciopero generale di cinquant’anni prima.
L’Agraria quindi era potuta andare per le spicce, persino con i suoi stessi organizzati. Per premunirsi infatti dalle possibili defezioni dei proprietari associati, aveva fatto firmare a ciascuno di loro una cambiale pari al valore del proprio intero raccolto, che sarebbe stata messa in pagamento alla minima trasgressione ai vincoli e alle direttive. E tuttavia i rendiconti finanziari dell’agitazione testimoniarono come ben diverse fossero le solidarietà di classe.
Troppa poca ne hanno mostrato gli agricoltori nella causa comune della difesa del diritto di proprietà contro il sovversivismo,
ammetteva l’Agraria dando conto che la pubblica sottoscrizione lanciata con la serrata aveva fruttato “lire 67.880”. Mentre “non tardò a venire l’aiuto domandato al proletariato”: nelle stesse settimane la Camera del lavoro di Parla raccolse 156.899 lire, più del doppio dei padroni.
Ma tanta solidarietà non valse a impedire che gli incidenti di giugno sfociassero in un procedimento penale che l’Agraria parmense reclamava con tanta più forza quanto più evidente era la posta in gioco: liquidare una volta e per tutte un movimento organizzato nelle campagne che rappresentava una minaccia costante. Quando la montatura fu confezionata a modo, ben costruite le testimonianze d’accusa, perfettamente articolata una sentenza di rinvio a giudizio che fosse l’anticamera obbligata di severissime, esemplari condanne, allora si ritenne opportuno evitare che il processone si svolgesse a Parma dove gli animi erano ancora “assai eccitati e vieppiù eccitabili”. (D’ora in poi la ricostruzione si affida alle preziose ricerche dello storico Umberto Sereni, che al processo, agli inediti verbali e ai contraccolpi della vicenda giudiziaria, ha dedicato un corposo saggio pubblicato dall’Istituto Storico Lucchese nel 1979).
Sfruttando allora la classica norma della legittima suspicione, come sede del processone fu scelta la più quieta Lucca, in Toscana, dove “nessuno strilla, nessuno corre, nessuno protesta”, e dove la causa si aprì il 20 aprile dell’anno dopo davanti alla Corte d’assise. Il tempo dunque di incardinare la causa, di consentire al pubblico ministero di illustrare drammaticamente i pesanti capi di imputazione, di interrogare i braccianti in carcere da dieci mesi e ora in catene davanti ai giudici, ed ecco il momento-chiave: la verifica diretta delle deposizioni rese in istruttoria dai testimoni dell’accusa.
È la mattina del 27 aprile quando vengono interrogati i due testi su cui si fondavano le più pesanti imputazioni: il commissario di Pubblica sicurezza Enrico Cammarota e il delegato di polizia dell’Oltretorrente Giovanni Pinetti. “Insurrezione armata” e “fini insurrezionali” degli scioperanti?
Ritengo che questo scopo – disse il commissario, nel frattempo premiato con la nomina a questore – mancasse completamente e che l’agitazione avesse solo uno scopo economico.
E il comitato che guidava lo sciopero non era forse una forma di associazione per delinquere?
Vi poteva essere una associazione che istigasse ad atti di violenza ma non mai un’associazione a delinquere contro persone e proprietà.
Poi fu la volta del delegato Pinetti, cui il presidente della Corte contestò di aver definito quel comitato come un’associazione per delinquere. Risposta a verbale:
Io fui comandato a stendere quel verbale e lo feci. Del resto sarebbe un’esagerazione anche qualificare i fatti successi il 20 giugno come insurrezione armata contro i poteri dello Stato.
L’impressione è enorme, nell’aula e a Parma. Ma ancor più al vertice degli uffici giudiziari. Il procuratore generale del re di Lucca, De Arcayne, mette mano a penna e spedisce un “riservatissimo” rapporto al ministro (giolittiano) di grazia e giustizia, Vittorio Emanuele Orlando: con le loro deposizioni Cammarota e Pinetti “hanno addirittura distrutto l’accusa”, e il secondo ha persino
dato buone informazioni della moralità e della condotta degli accusati e segnatamente dei principali.
Poi l’allarme:
Come l’Eccellenza Vostra bene intende, l’accusa frana e farà deplorare un rumoroso procedimento che espone come vittime di oltre dieci mesi di ingiusta detenzione tanti cittadini, con grave iattura delle loro famiglie; e che ha offerto occasione ai sindacalisti di Parma di sedere in cattedra e fare in quest’aula un corso completo delle loro teorie rivoluzionarie.
Tre giorni dopo nuova lettera a Orlando e dai toni non meno inquieti. A molti degli arrestati nella sede della Camera del lavoro era stato fatto carico del mancato omicidio del soldato di fanteria Cucchiarelli.
Orbene questi stamane – scrive De Arcayne tra il desolato e l’incazzato – ha deposto di essere stato ferito alla testa mentre dirigevasi, ma prima di giungere, alla Camera del lavoro da un sasso o da un tegolo lanciatogli dal tetto di una casa che resta dalla parte opposta a quella nella quale è situato lo stabile della Camera del lavoro.
Così crolla anche l’accusa di tentato omicidio…
Né basta, perché l’8 maggio tocca al vice di De Arcayne, il cavalier Ferrante, scrivere al guardasigilli Orlando per annunciargli il colpo di grazia al castello delle accuse, inferto stavolta nientemeno che “dal già prefetto di Parma, commendatore Doneddu” il quale, dopo aver confermato le ottime informazioni sugli accusati e il carattere “esclusivamente economico” dell’agitazione,
disse di aver constatato come i dirigenti della Camera del lavoro di Parma eransi sempre mostrati arrendevoli e animati dal desiderio di addivenire ad un amichevole comportamento mentre uguali arrendevolezze e sentimenti non aveva riscontrato in quelli dell’Agraria.
Inevitabili a questo punto l’assoluzione generale da tutte le accuse, e di tutti i lavoratori. Pochi giorni dopo il bis processuale: ai capi dello sciopero che erano riparati a Lugano (Alceste De Ambri, Tullio Masotti e altri cinque) e ai quali s’imputava di essere i mandanti di tutte le imprese, a cominciare dalla famosa insurrezione armata. Anche loro completamente prosciolti.

Giovanni Giolitti nel 1905.
E allora ecco ancora una lettera “riservatissima”, stavolta partita non da Lucca ma da Parma. Era diretta anche questa al ministro Orlando e stavolta portava la firma del procuratore generale del re presso la Corte d’appello della città teatro delle violenze e della grossolana messinscena istruttoria. Era tutta un’autodifesa quella del cavaliere Enrico Mazza:
Voglio assicurare l’Eccellenza Vostra che per l’esito disastroso che ebbe la causa davanti l’Assise di Lucca non già responsabilità di sorta si poteva far risalire ai magistrati istruttori ma a quelle autorità che non esitarono in udienza a convertire l’accusa in glorificazione e falsarono i fatti. Fu così che tra motteggi e sarcasmi il processo finiva come ebbe a finire qualificando per inetta e insipiente la Magistratura parmense di cui mi onoro essere a capo.
Insomma, non solo controaccusa ma, in trasparenza, sollecitazione di una riparazione.
Non venne né l’una né l’altra, neppure sotto forma di processi di appello. Il “Corriere della Sera” chiamò in causa la responsabilità del presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, nelle versioni rivedute e corrette in radice che i funzionari di polizia avevano reso in aula a testimonianza che le deposizioni rese in istruttoria erano state “comandate”, insomma imposte:
Se non si sapesse quale passione della verità alberghi nel cuore di quei funzionari – fu notato con sarcasmo dal più importante quotidiano dell’epoca – ci sarebbe quasi da sospettare che sia giunta loro da più alto una parola d’ordina, la consegna non di russare ma di svegliarsi e di dichiarare d’aver sognato. Per fortuna una tale ipotesi in Italia appare facilmente inverosimile.

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