“Trovar pace a Venezia”. Parla Annik Susemihl

JOANN LOCKTOV
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Sei nata e vivi in Germania, il tuo primo viaggio a Venezia è nel dicembre 2015. Dopo averla tanto attesa, sei arrivata e hai avuto un’esperienza terribile! A quanto pare, quando te ne sei andata, non t’importava se saresti mai più tornata a visitare Venezia. Quando ti ha preso il virus “io-devo-tornarci” e in quali circostanze?
In effetti, pensavo che io e Venezia non saremmo state amiche. Amo l’Italia e mio marito conosce Venezia. Voleva mostrarmi la città che conosceva dalla gioventù. Non vedevo l’ora, volevo fare tantissime foto ed ero curiosa di Venezia. Sfortunatamente, durante l’intero periodo sono stata talmente male che non ho potuto godermela affatto. Con grande frustrazione di mio marito, perché voleva che mi piacesse la città tanto quanto piaceva a lui.

Qualche settimana dopo quella prima visita catastrofica, mi propose di fare un altro tentativo. Questa volta per il Carnevale di Venezia; solo io e la macchina fotografica per tre giorni. Sono arrivata a Venezia circa due mesi dopo la mia prima visita e questa volta si è acceso qualcosa tra noi. Oltre alla fretta e al trambusto della folla, cercavo deliberatamente angoli quieti e ho potuto conoscere una bellissima Venezia invernale. Questo avveniva nel febbraio del 2016. Da quel giorno in poi, sono infetta del virus di Venezia.

Venezia è rinomata per la sua tavolozza di colori sbiaditi dalla salsedine ma tu prediligi fotografare la città in bianco e nero. Che cosa conferisce qualità peculiari alla fotografia di Venezia in monocromo? È la città stessa a incoraggiare questa scelta, e come? In che modo determina la scelta del bianco e nero cosa, quando e dove fotografi a Venezia?
La mia prima visita “di successo” è avvenuta nel mese di febbraio, quindi in una stagione piuttosto mesta, eppure non priva di fascino. Calli mute e campi in cui, soprattutto la mattina presto o di notte, su tutto un velo di nebbia in sospensione. È un’atmosfera molto speciale, con gli antichi palazzi su cui le ingiurie del tempo hanno lasciato il loro segno, che mi ha ispirata a catturare questo umore in bianco e nero.

La fotografia in bianco e nero è un modo silenzioso per catturare gli spunti. M’irradia pace e serenità. Nulla distrae dall’umore del momento, non c’è una tavolozza di innumerevoli colori che facciano sussultare gli occhi. Ciò che registro non è mai né programmato né previsto. Spesso lascio che luoghi e momenti lavorino su di me per un po’, osservando ciò che accade intorno a me. Sono le situazioni in cui premo lo scatto. Non sono la fotografa che si pianifica i tour in anteprima. Lascio che la vita intorno a me decida cosa offrirmi.

Hai accennato al lavoro di Vivian Maier come fonte della tua ispirazione per via della sua abilità nel “raccontare una storia in piccoli momenti senza importanza”. Vedo questa caratteristica in “Daily Work” (lavoro quotidiano), la tua foto selezionata per “Dream of Venice in Black and White”. Con una sola occhiata nella vita degli squeraroli di San Trovaso, sei riuscita a offrirci una narrativa completa. Puoi spiegare la concezione della foto e cosa volevi che evocasse?
Per questa foto a San Trovaso, ho trascorso molto tempo seduta sui gradini accanto al canale, osservando quanto accadeva nello squero. E intanto pensavo alla “follia” d’ogni giorno nelle “attrazioni principali” di Venezia. Migliaia e migliaia di persone, s’affrettano da un punto all’altro della città, in continuo affanno per i tempi risicati del programma, fanno un selfie e non hanno nessun desiderio di scoprire la Venezia vera. E, come in molte altre situazioni nella città, mi sono resa conto che i gondolieri e i costruttori di gondole erano reali. Reali in quel senso, piuttosto che accessori folkloristici per il turista frenetico che fa un viaggio in gondola secondo un programma prestabilito di cose da fare.

Sono le loro mani, è il loro corpo che lavorano per dar da mangiare alle loro famiglie. Gli squeraroli e i gondolieri sono la condizione gli uni degli altri, a vicenda. L’uno non può esistere senza l’altro da centinaia di anni. Volevo catturare questa simbiosi con questa foto e allora ho atteso il momento giusto per registrare insieme entrambe le parti di questa unità. 

Vedo questo elemento anche nella tua serie “Jewish Life” (Vita ebraica) che hai scattato nel 2017 nel ghetto. Le immagini sono quasi timide nella loro riservatezza e ciò nonostante sembrano comunque rivelatrici. Puoi dirci della tua motivazione per questa serie premiata?
Credo che le foto mostrino anche un po’ chi sono io. Sono una persona timida, che preferisce stare dietro le quinte, piuttosto che farmi largo prepotentemente. È il caso della fotografia, soprattutto quando voglio catturare una situazione per strada. Cerco di mantenere una grande distanza e non voglio essere notata. Non appena una persona prende coscienza della macchina fotografica, anche se brevemente, cambia il suo comportamento, il suo linguaggio corporeo e i suoi movimenti. 

La serie nel Ghetto di Venezia è stata creata spontaneamente. In verità volevo solo aspettare mio marito che doveva ancora prendere qualcosa. Nel frattempo osservavo mentre la comunità ebraica metteva su un lungo tavolo nel campo per un pasto insieme. Gente andava e veniva e i bambini giocavano – solo vita normale. 

Volevo conservarla – i bambini giocano come tutti i bambini, gli adulti ridono e discutono, il padre fa roteare la sua figlia nell’aria e lei strilla felice. Soprattutto al giorno d’oggi, in cui vediamo che le altre culture e religioni sono osservate in maniera critica, volevo mostrare che alla fine siamo tutti una sola cosa – persone. E viviamo, ridiamo, discutiamo, amiamo e festeggiamo tutti ugualmente – a prescindere dalla religione o qualunque altra cosa. 

Dopo il tuo primo terribile viaggio a Venezia, sei tornata molte volte. Come è cambiata la tua fotografia di Venezia negli anni?
Sì, dopo la prima sfortunata visita, si sono aggiunti altri sette soggiorni a Venezia.

Ogni volta Venezia mi rallenta un po’ di più. Appena salgo sul vaporetto a piazzale Roma, giungo in un posto straordinario. Non importa quanto sia stato frenetico il viaggio o quanto sia stanca caso mai perché ho preso un volo alle sei di mattina.

Questa tranquillità s’è via via trasferita nel tempo nella mia fotografia. Mi prendo tutto il tempo del mondo per lasciare che un luogo mi colpisca, per aspettare una situazione speciale o per cambiare la luce. Presto molta più attenzione di prima a piccoli dettagli apparentemente irrilevanti. Potrebbe essere una minuscola immagine della Madonna su una facciata o un balcone ricolmo di piante o anche un gabbiano impettito o che s’abbevera a un nasone. Una speciale simmetria o asimmetria su una facciata, un’ombra particolare in una calle stretta o anche mani e visi tesi dalla durezza del lavoro. Senza questa pace, senza questo rilassamento che m’ha insegnato  Venezia, oggi sarebbe sicuramente diverso. Venezia mi ha aguzzato la vista ancor di più e sicuramente continuerà a farlo in futuro.

 

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“Trovar pace a Venezia”. Parla Annik Susemihl ultima modifica: 2018-09-14T08:21:46+02:00 da JOANN LOCKTOV
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