Chi sfogliasse “l’album del Mille” – galleria fotografica degli eroi dell’impresa garibaldina – al n. 338 troverebbe l’immagine di Rose Montmasson, l’unica donna che s’imbarcò alla volta della Sicilia travestita, raccontano, da fuciliere. Nata in Savoia da famiglia di umili origini, conobbe l’avvocato siciliano Francesco Crispi nel 1849 durante l’esilio piemontese, quando lei svolgeva le mansioni di lavandaia e stiratrice mentre lui era un giovane rivoluzionario, mazziniano e massone, rifugiatosi in Piemonte dopo il fallimento della rivoluzione siciliana del ’48. In seguito al soffocamento della cospirazione mazziniana a Milano, nel 1853 Crispi fu costretto a riparare a Malta. Rose lo seguì e i due là si sposarono per poi trasferirsi a Parigi dove vissero sino al 1858, quando furono espulsi dalla Francia (sospettati di complicità con Felice Orsini, che aveva invano tentato di assassinare Napoleone III) e forzati a raggiungere a Londra Giuseppe Mazzini.
Ebbene, di questa donna di grande coraggio e di assoluta fedeltà sino alla morte agli ideali repubblicani, Maria Attanasio – poetessa e autrice di parecchi studi storici – ha scritto un libro (“La ragazza di Marsiglia”, Sellerio ed. 2018, 15 euro) denso e importante. Importante anzitutto per restituire ai più l’immagine, la storia e le disgrazie, di una vera ma oggi misconosciuta eroina che non esitò, durante la spedizione del Mille, a curare diecine e diecina di feriti, a difendere anche con le armi i suoi compagni, a scontrarsi vis-à-vis coi borboni.
Eroina straordinaria, dunque, che tuttavia fu più tardi vittima delle forsennate ambizioni di un uomo, Crispi appunto, il quale non esitò a sbarazzarsi di Rosalìe (il nome che le dettero i garibaldini) dopo più di vent’anni, ottenendo con un pretesto, e solo grazie al suo potere di ministro prima e di presidente del Consiglio per quattro volte, l’annullamento del matrimonio per poter sposare un’altra, di nobile lignaggio che gli diede momentaneo lustro mondano.
Ma questo libro, più un saggio che un romanzo (anche se a tratti c’è qualche interpolazione di finzione) è importante anche e soprattutto per la descrizione, precisa e documentata, di un’atmosfera e di costumi politici e morali che – Crispi protagonista, in questa e in altre correlate vicende – vanno mutando, nell’arco di qualche decennio, dai nobili ideali risorgimentali al più sfacciato trasformismo: così che il mazziniano “Fransuà” (così lo chiamava Rosalìe) poté diventare “Don Ciccio” (per i suoi clienti), e da repubblicano si fece monarchico addirittura ribadendo in Parlamento la sua conversione con poche parole diventate vergognosamente celebri:
La monarchia ci unisce, la repubblica ci divide… Una decisione che prima o poi bisognava prendere.
e provocando così – sottolinea Maria Attanasio – una profonda scissione nella Sinistra tra monarchici e repubblicani e chiudendo per sempre ogni rapporto con Mazzini che mai gli perdonerà quel tradimento. Ma segnando anche la prima, drammatica frattura tra marito e moglie: Rosalìe contestò la scelta trasformistica di Crispi, rimase fieramente repubblicana, non mollò sugli ideali per i quali aveva affrontato una vita di sacrifici e di esaltanti momenti, continuò ad amare il suo uomo sino a quando non ne fu scacciata in malo modo.
Né fu l’unico tradimento degli ideali per i quali Crispi si era messo al fianco di Garibaldi nell’impresa che da Quarto portò i Mille a Marsala. Da ministro degli interni fu assoluto protagonista della repressione dei Fasci siciliani (dopo aver dato manforte, anni prima, alla guerra contro il ribellismo dei “briganti” che non accettavano la piemontesizzazione del Meridione); e da presidente del consiglio fu il teorico di un accanito e feroce colonialismo segnato dalla disfatta di Adua (’96) che siglò la fine della sua carriera politico-affaristica segnata infatti anche da qualche complicità nello scandalo della Banca Romana.
- Ribera (AG), monumento a Crispi
- Ribera: il monumento non dà indicazioni sulla donna al fianco di Crispi. Un cartello ne difende la memoria (gennaio 2012)
Ma torniamo a Rosalìe Montmasson. Di suo marito sopportò tutto, non solo il cinismo in politica. Via via che da semplice avvocato era diventato un notabile influente, Crispi sfruttò il suo crescente potere anche sulle donne: un perfetto “fimminaru” che non solo agganciò una donna dopo l’altra ma seminò almeno due figli (poi legittimati) da madri diverse. Sino a quando “don Ciccio” non incontrò una nobile siciliana, Lina Barbagallo, i cui modi raffinati (dietro i quali si celava un carattere intrigante e una ingordigia sessuale senza pari) ben si attagliavano alla nuova, prestigiosa figura del Crispi oramai uomo politico di primissimo piano. Inutili furono le raccomandazioni dei suoi migliori amici, ed in particolare di Agostino Bertani, deputato e fondatore della nuova Sinistra storica, che prese apertamente le difese di Montmasson in una aspra lettera:
Quella donna disgraziata e tormentata che, fra le più dure accuse, d’una sola si doleva e straziava anche pel ridicolo che le imponeva: quella di carnalità commessa (dalla Barbagallo, ndr) coi domestici e altri; e ricordava la fiducia tua nella sua libertà antica e nel suo selvaggio affetto, risentiva la sua gelosa gloria di non averti mai offeso quando la gioventù poteva offrirle occasioni e compiacenza…

La camicia dei garibaldini nella quale Rosalie Montmasson volle essere interrata [http://www.neldeliriononeromaisola.it/]
La schiettezza dell’amico rese Crispi furioso. Piuttosto che una resipiscenza, fu la goccia che fece traboccare il vaso: decisione di abbandonare Rosalìe (non esisteva il divorzio, e sarebbe passato ancora un secolo prima che fosse introdotto nel nostro ordinamento giuridico) e di sposare “Donna Lina”. Ne nacque uno scandalo. A tutti era noto il rapporto coniugale del ministro con Rosa; scattò dall’opposizione l’accusa di bigamia; inevitabile un processo. Che Crispi vinse ricorrendo – con mille complicità, in primo luogo della magistratura – ad un arzigogolo grottesco: il sacerdote che aveva celebrato le nozze a Malta non era abilitato alla bisogna, e quindi il matrimonio era nullo, anzi inesistente. (Chi voglia curiosare nelle pieghe del processo-impunità può leggere “Il ministro e le sue mogli”, saggio storico-giuridico di Enzo e Nicola Ciconte, Rubettino ed., 2010, 14 euro.) Finalmente libero, Crispi fece però fatica a introdurre la nuova consorte nel più alto giro del mondo politico e affaristico romano: ci vollero anni perché Lina (oramai) Crispi fosse ammessa a Corte. Tutti diffidavano di lei. Sintomatica una lettera di William Stillman al direttore della sezione esteri del Times:
Sospettosa, maligna, corrotta, la quale non fa che premere su di lui per i suoi interessi personali, i suoi confidenti, di suoi favoriti, è il suo attivo genio.
E quando, coinvolta nel 1894 insieme al marito nello scandalo della Banca Romana, arrivarono nelle mani della commissione d’inchiesta e sui giornali alcune focose lettere dirette da costei ai suoi amanti (molte al suo maggiordomo, con esplicite, particolari richieste sessuali), le chiacchiere divennero un baillamme che avviarono il completo discredito della coppia e in primo luogo dell’ex garibaldin-mazziniano.
Come visse Rosalìe queste infamie? Nel completo, persino inesplicabile silenzio. Si hanno prove documentali di una sua lettera al capo del governo Benedetto Cairoli, un reduce dei Mille che la conosceva bene, in cui chiedeva che le fosse consentito di aprire un botteghino del lotto. Cairoli non rispose mai. La missiva – scritta tre giorni dopo la sentenza che rendeva libero Crispi – fu riportata da Felice Cavallotti in un suo j’accuse, sull’onda dello scandalo della Banca Romana dell’anno prima:
L’uomo al quale mi sono completamente dedicata in tutte le vicissitudini della mia vita, oltre la mortale offesa che non starò qui a ricordare, mi intima di non firmare col nome col quale ho diritto peril sacramento del matrimonio e che ha portato per venticinque anni. Egli mi obbliga a lasciare Roma e non prendere residenza in tutti i luoghi in cui a lui piacerà abitare”. Con disperazione concludendo: “Preferisco lasciarmi morire di inazione”
Lei resistette alle pretese di “Fransuà”, restò sempre nella capitale, in un modesto appartamento in via Torino, dove trascorse i ventisei anni dalla separazione alla morte, avvenuta il 10 novembre del 1904 alla tarda età di 81 anni. Ne dettero notizia i giornali con brevi trafiletti. Più ampia (ma, attenzione!, senza il minimo accenno alle seconde nozze di Francesco Crispi) la parte “non ufficiale” in cui allora la Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia dava contezza di fatti in qualche modo rilevanti della vita sociale del paese:
Dopo lunga malattia, moriva ieri in Roma Rosalia Montmasson, un’eroina che legò il suo nome alla gloriosa tradizione garibaldina nella più fulgida affermazione, l’epopea dei Mille, e al periodo delle cospirazioni audaci per l’unità della patria. Conosciuto Francesco Crispi allorquando batteva la via dell’esilio, gli fu amorosa compagna per alcuni anni (alcuni? venticinque, ndr) e con lui compiè la campagna del Mille durante la quale, a Calatafimi, si segnalò per il valore nel combattimento e per carità gentile quale soccorritrice dei feriti. La missione patriottica e umanitaria della valorosa donna non compinciò sui campi dell’azione. Quando più ardite si ordivano le congiure, ella serviva efficacemente i cospiratori per la trasmissione ndella corrispondenza e rischiava seriamente la vita. Sul suo petto d’eroina fulgeva le Medaglia dei Mille e quella al valor militare.
Rosalìe volle essere sepolta vestita della camicia rossa che aveva indossato con gloria e soddisfazione mai sopita.

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