Nel suo show all’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha annunciato che, tempo quattro mesi, sarà pronto l’accordo del secolo: la pace fra israeliani e palestinesi. Sarà. Ma a proposito di mesi, stavolta trascorsi, e di bilanci, realtà non narrazione. E la realtà inchioda il duo Trump&Netanyahu a un clamoroso flop: quello della “campagna delle ambasciate”.
Stiamo parlando con diverse nazioni che stanno considerando seriamente di muovere le proprie ambasciate a Gerusalemme, di fare esattamente la stessa cosa che hanno deciso di fare gli Stati Uniti.
22 dicembre 2017. Un entusiasta Benjamin Netanyahu si lascia andare a questa profezia in un’intervista esclusiva alla Cnn, nella quale il premier d’Israele torna a congratularsi con il suo alleato e amico Donald Trump per la storica decisione di riconoscere Gerusalemme capitale dello stato d’Israele di conseguenza trasferirvi l’ambasciata Usa da Tel Aviv. L’evento si celebra il 15 maggio 2018, nel vivo della rivolta palestinese a Gaza.
Da quel giorno, sono passati quattro mesi.
Mesi di pressioni da parte americana e israeliana per dare attuazione, la più ampia possibile, alla “profezia di Bibi”. I risultati della “campagna acquisti”? Davvero miseri, molto, ma davvero tanto al di sotto, delle aspettative. A seguire la strada tracciata da The Donald sono in due, anzi uno. E, non ce ne vogliano i paesi in questione, neanche particolarmente pregnanti sullo scacchiere mondiale, di certo nulli su quello mediorientale: Guatemala e Paraguay.
Per Netanyahu e il suo governo è indubbiamente uno smacco politico-diplomatico. Bibi puntava molto, l’aveva esplicitato in un teso incontro a Bruxelles con i ministri degli esteri dell’Unione europea e in un duro scambio di valutazioni con la mai apprezzata (dai falchi di Tel Aviv) Federica Mogherini, Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, a una divisione tra i Ventotto. Niente da fare. Nonostante il comune afflato sovranista, neanche il nuovo, grande amico (!) d’Israele, il premier d’Ungheria Viktor Orbán, si è spinto fino al punto di ordinare il trasloco dell’ambasciata magiara da Tel Aviv a Gerusalemme.
Uno smacco accresciuto dopo il ripensamento del Paraguay che ha fatto marcia indietro, riportando la propria ambasciata in Israele da Gerusalemme a Tel Aviv. Una decisione arrivata pochi mesi dopo l’annuncio di voler seguire la traccia di The Donald. A seguire quella traccia, a maggio, era stato l’ex presidente Horacio Cartes.
Il Paraguay vuole contribuire a intensificare gli sforzi diplomatici regionali per raggiungere una pace ampia, equa e duratura in Medio Oriente,
ha affermato il ministro degli esteri Luis Alberto Castiglioni aggiungendo che la decisione dell’ex presidente Horacio Cartes era stata “viscerale e senza giustificazione”. Apriti cielo! In un’infuocata nota del premier Netanyahu si legge che “Israele considera molto seriamente la decisione del Paraguay” e che essa “danneggerà le relazioni tra i nostri paesi”. Cartes era arrivato in Israele per inaugurare la nuova ambasciata a maggio. Il suo successore Mario Abdo, anch’egli membro del partito conservatore, è entrato in carica il mese scorso. Dunque, quattro mesi dopo, lo storico trasloco statunitense, solo il Guatemala del presidente ed ex comico Jimmy Morales è stato reclutato. Da Trump più che da Netanyahu.
E qui cala una prima considerazione di carattere politico-diplomatico che riguarda l’irrisolto conflitto israelo-palestinese.
Una considerazione che coincide con l’anniversario, il 13 settembre, di quello che fu giustamente considerato da tutto il mondo come un evento storico: l’accordo di Oslo-Washington, suggellato sul prato della Casa Bianca, con un benedicente Bill Clinton ad ossequiare la cerimonia, da una storica (termine troppo spesso abusato, ma in questo caso no) stretta di mano tra Yitzhak Rabin e Yasser Arafat.
Da allora, sono passati venticinque anni: i protagonisti dell’evento (Rabin, Arafat e Shimon Peres) che doveva cambiare il corso della storia in Medio Oriente, sono scomparsi, uno dei tre (l’allora premier Rabin) assassinato da un giovane zelota dell’estrema destra Yigal Amir: un atto criminale, che ha probabilmente cambiato il corso della storia, maturato in un clima d’odio scatenato dalla destra israeliana, guidata da Netanyahu, contro il “traditore Rabin”.
Ma un quarto di secolo dopo, la questione-Gerusalemme resta aperta, nonostante la forzatura unilaterale di Trump e la costituzionalizzazione di Gerusalemme “capitale eterna” d’Israele sancita dalla contrastata legge approvata a maggioranza dalla Knesset, il parlamento israeliano, lo scorso luglio della legge “Israele, nazione del popolo ebraico”.
La forzatura, a livello internazionale, non ha funzionato, e la misera campagna acquisti nel “campionato delle ambasciate” lo sta a dimostrare.
Ma The Donald non si scoraggia. Ed anzi, rilancia. Come? Con il “piano del secolo”. Gran parte del quale si concentrerà sul rafforzamento dell’economia palestinese e dei suoi legami con Israele.
Diverse fonti al di fuori dell’amministrazione che hanno parlato con Haaretz nelle ultime settimane hanno confermato che la Casa Bianca sta attualmente “limando” un documento alquanto ponderoso, “molto più lungo di alcuni piani precedenti di questo tipo”, secondo una fonte diplomatica coinvolta nella stesura.
Il piano dell’amministrazione Trump comincia a prendere forma a metà del 2017, quando Jason Greenblatt, l’inviato speciale di The Donald per il processo di pace, fa il suo primo viaggio nella regione. Le fonti che sono state in contatto con Greenblatt durante questo periodo hanno detto ad Haaretz che il principale obiettivo del suo primo viaggio era lo stretto allineamento degli interessi tra Israele e il mondo arabo, che a suo avviso rappresentava una rara opportunità per una svolta nei negoziati.
È questo un punto nodale del “piano Trump”: coinvolgere quei paesi arabi che, nel quadro regionale, hanno interessi strategici convergenti con Israele. Una fonte governativa israeliana li elenca: Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania. Paesi del fronte sunnita che, con Israele, condividono la necessità di arginare la penetrazione iraniana in Medio Oriente, contrastando l’affermarsi della mezzaluna rossa sciita sulla direttrice Baghdad, Damasco, Beirut. E Gaza.
A questo è particolarmente interessato l’erede al trono saudita, il giovane (33 anni) e ambizioso principe Mohammad bin Salman Al-Sa’ud, fautore dell’avvicinamento, in funzione anti-iraniana, di Riyadh a Tel Aviv: per il futuro sovrano, e attuale Primo vice primo ministro e ministro della difesa saudita, togliere ai suoi nemici regionali la “carta palestinese” sarebbe un risultato rilevante, da far pesare nella definizione dei nuovi equilibri regionali.
Un approccio condiviso dalle petromonarchie del Golfo – dagli Emirati Arabi Uniti al Qatar – che hanno una potente arma di convinzione di massa: i miliardi da investire sulla ricostruzione di Gaza e il sostegno all’economia palestinese ormai sull’orlo del collasso. “È ovvio che la regione è cambiata rispetto a pochi anni fa”, dice ad Haaretz un funzionario dell’amministrazione Usa.
Il mondo arabo e Israele hanno molti interessi e obiettivi comuni, così come minacce comuni nelle attività destabilizzanti dell’Iran nella regione.
Greenblatt, insieme al consigliere e genero del presidente, Jared Kushner, e all’ambasciatore americano in Israele, David Friedman, si è concentrato sul tentativo di utilizzare questi interessi comuni per far progredire il piano.
Fonti esterne all’amministrazione coinvolte nelle discussioni sul piano hanno affermato al quotidiano di Tel Aviv che il gruppo mediorientale di Trump ritiene che il piano in fase di completamento potrebbe essere il primo a ricevere una risposta positiva sia da Israele che dai principali paesi arabi, indipendentemente dalla posizione palestinese.
Il cuore di questo piano, rivelano le fonti, sarà in Cisgiordania e a Gaza.
Vorremmo che il piano parlasse da solo – confida una fonte dell’amministrazione Usa al quotidiano di Tel Aviv -la gente capirà che dopo l’accordo staranno tutti meglio che senza: crediamo che le persone coinvolte siano interessate al loro futuro e al futuro dei loro figli. Questo piano darà molte più opportunità a tutti in futuro rispetto alla situazione che hanno ora.

In un video propagandistico, Gerusalemme accoglie il presidente del Guatemala Jimmy Morales per l’inaugurazione della nuova ambasciata nella città storica, maggio 2018
Le Nazioni Unite annunciano che entro il 2020 sarà praticamente impossibile vivere a Gaza per la mancanza di energia elettrica, il più alto tasso di disoccupazione al mondo e l’impossibilità per la popolazione di accedere anche a beni essenziali come cibo e, per l’appunto, acqua pulita.
Hamas sa bene di non poter reggere questa situazione. Così pure l’Anp di Abu Mazen.
E in questa chiave, di forte pressione sulla dirigenza palestinese, va letta la decisione americana di tagliare i finanziamenti all’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. A Ramallah gridano allo “strangolamento” della popolazione civile, all’ennesima, vergognosa punizione collettiva, ma fuori dall’ufficialità, dall’entourage di Abu Mazen emerge l’interpretazione politica: Trump vuole “imporre” la sua pace.
E il vecchio e sempre più marginalizzato presidente palestinese, ha provato ad alzare la voce dalla tribuna del Palazzo di Vetro: “Gerusalemme non è in vendita”, è il monito che ha rivolto a Usa e Israele:
Non bastano gli aiuti umanitari – ha aggiunto – serve una soluzione politica. Ed è insufficiente e inutile varare delle risoluzioni che poi nessuno fa rispettare.
Abu Mazen ha poi accusato Israele di aver approvato “leggi razziste mirate a creare uno stato in cui vige l’apartheid”. Ma questo j’accuse non ha smosso Trump e neanche convinto Hamas, che ha apertamente sfiduciato Abu Mazen definendolo pubblicamente un “presidente illegale”.
E come se non bastasse, il movimento islamico rincara la dose:
Abbas (Abu Mazen, ndr) approfondisce la spaccatura palestinese, spiana la strada all’occupazione israeliana per perpetrare altri crimini e uccisioni e facilita l’attuazione dell’Accordo del Secolo (quello evocato dal presidente Usa Donald Trump, ndr).
Quel discorso, sentenzia Hamas, è “una coltellata alle spalle dei palestinesi”.

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