Noi stiamo utilizzando, pigramente, quello che crearono i nostri nonni: e trascuriamo di creare quello che useranno i nostri nipoti (Beppe Severgnini, Corriere della Sera)
La tragedia di Genova è l’ennesima dimostrazione della complementarietà fra conservazione e innovazione, della necessità di progettare il presente e il futuro anche ai fini della salvaguardia di quanto il passato ci ha consegnato. Di tale tragedia è responsabile in primo luogo l’assenza più che trentennale di un’organica politica della mobilità, mirata a sviluppare sistematicamente la rete infrastrutturale del nostro paese.
Le immagini, che scorrono drammaticamente sotto i nostri occhi a partire dalla vigilia di Ferragosto, denunciano l’abbandono di un percorso di modernizzazione del nostro Paese rappresentato e celebrato al livello più alto dal viadotto genovese. Un abbandono che, ancor prima che nelle mancate azioni di manutenzione e adeguamento, si esprime in un pensiero mirato a mettere sotto accusa ogni approccio sperimentale alla progettazione – che della modernità è certamente cifra caratteristica – sollevando dubbi addirittura sulla competenza di Riccardo Morandi nella concezione dell’opera.
È allora importante precisare che il viadotto di Genova rappresenta a tutti gli effetti, oltreché testimonianza significativa di un’epoca feconda della nostra storia, un’indiscutibile eccellenza italiana da trattare con profondo rispetto. Pertanto, ove la campagna di indagini in corso non abbia a rivelarne l’impraticabilità, l’ipotesi di rinforzare le strutture ancora efficienti, adeguandole e collegandole con un nuovo ponte in acciaio sul Polcevera dalla forma chiaramente distinta, appare non solo l’unica soluzione realistica in tempi stretti, ma anche quella che meglio risponde ai più avanzati criteri di restauro e integrazione dei beni architettonici.
Al contrario la demolizione totale dell’opera – ove non strettamente necessaria sul piano tecnico – si presenterebbe assai problematica sul terreno operativo ed economico e risponderebbe a un approccio “giustizialistico” a forte valenza simbolica, alla ricerca di facili consensi dall’“esecuzione sommaria” dell’infrastruttura genovese, che non è “geneticamente sbagliata”, ma vittima di mancate manutenzioni e insufficienti adeguamenti.
Ciò non significa in nessun modo prendere partito contro la realizzazione della Gronda – o di un altro tracciato tangenziale all’aggregato urbano – che al contrario appare quanto mai opportuna e complementare – non alternativa – alla rimessa in funzione del viadotto. Anzi, quando e solo quando un nuovo tracciato autostradale sarà davvero disponibile – ci vorranno sicuramente alcuni anni – potrà essere valutata l’eventualità di riservare l’arteria attuale a una mobilità più urbana o addirittura di destinarla a straordinaria “passeggiata pensile” a scala metropolitana.
“Restauriamo il ponte Morandi invece di piangerne la morte”
Sullo stesso tema un articolo precedente di Luca Zevi su Il foglio

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