A Venezia tutto il genio di Tintoretto

Per i cinquecento anni dalla nascita, due esposizioni celebrano il pittore veneziano nella sua città natale. E a Washington la National Gallery of Art ospiterà dal 10 marzo 2019 un corposo nucleo di opere. Per la prima volta negli Stati Uniti.
ELSA DEZUANNI
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Capricciose invenzioni e strani ghiribizzi, così Giorgio Vasari nel 1568, scrivendo le Vite dei più eccellenti scultori, pittori e architetti, etichettava i dipinti del veneziano Jacopo Robusti (1519-1594), detto il Tintoretto perché figlio di un tintore di stoffe. Non si capacitava, il toscano, che questo pittore, all’epoca cinquantenne, il quale a suo parere “ha lavorato a caso e senza disegno”, seguitasse ad avere tante e importanti commesse, pur dovendolo infine lodare per alcune opere ai suoi occhi ben definite.

Pittore accademico col culto ossessivo del disegno, Vasari, che aveva già dimostrato scarsa comprensione della pittura veneziana, del Tintoretto non poteva cogliere la modernità degli arditi scorci di vigorose scene gremite, che sembrano dover cambiare all’improvviso, perché concepite su prospettive oblique generanti un movimento rotante in uno spazio chiaroscurale accresciuto da luci improvvise.

Tintoretto dipingeva con una sveltezza a quei giorni ineguagliata e anziché riconoscergli tale innata capacità anche la critica vicina a tempi più recenti ha trovato in ciò motivo di pregiudizio. Si pensi a Roberto Longhi, che nel Viatico del 1946 lo definì

Genio soffocato dalla facilità, né mai realizzatosi per difetto di quella meditazione morale che ha da intervenire tra la prima idea e il lungo e pratico fare.

Fortunatamente da allora gli studiosi indagano più a fondo la sua opera rilevandone i caratteri precipui.

Prima solo l’inglese John Ruskin, più volte a Venezia dal 1835 al 1888, aveva espresso con passione la propria ammirazione dopo aver visto i teleri della Scuola Grande di San Rocco:

La mente del Tintoretto, incomparabilmente più profonda e severa di quella di Tiziano, ammanta della solennità che gli è propria i temi religiosi e talvolta si lascia cogliere dalla devozione.

Di fatto nella seconda metà del XVI secolo, quando la pittura veneziana conquistava la scena internazionale, e in particolare negli anni in cui il Veronese, più giovane di dieci anni, s’imponeva in laguna, grazie alla protezione di patrizi veneti, mentre il cadorino Tiziano, pur anziano, continuava a essere il pittore egemone della Serenissima e osannato ovunque, il Tintoretto – che aveva cresciuto la sua arte senza tirocinio di bottega e senza alcun protettore – fu costretto a superare ostilità e, nonostante il temperamento impetuoso, a gestirsi con arguta pazienza.

Spinto certo da ambizione, uomo risoluto e instancabile, pur di procacciarsi commissioni Tintoretto iniziò l’attività chiedendo compensi modesti, quandanche non lavorasse gratuitamente. Questo i “colleghi” della Serenissima non glielo perdonavano e ciò comportò il suo isolamento dagli ambienti artistici. Dal 1548 cominciarono comunque a piovere le committenze, dopo la realizzazione del Miracolo dello schiavo per la Scuola Grande di San Marco, opera che destò enorme clamore provocando discordi commenti nell’intera Venezia, portando tuttavia notorietà al pittore. Il pieno successo arriverà nel 1564 con l’avvio del solenne ciclo di dipinti per la confraternita di San Rocco, cui si dedicherà per oltre vent’anni garantendosi nel frattempo una rendita di cento ducati l’anno. Divenuta incontestabile la sua perizia, alla morte di Tiziano, nel 1576, gli oligarchi della Repubblica lo nominarono primo pittore, affidandogli numerose commesse pubbliche tra Palazzo Ducale e le magistrature dipendenti dallo stato. Ed ebbe richieste da Filippo II di Spagna, dall’imperatore Rodolfo II, dal re d’Inghilterra, dal granduca di Toscana, dai Gonzaga.

Per i cinquecento anni dalla nascita la città natale gli dedica due esposizioni, aperte fino al 6 gennaio 2019, nate dalla collaborazione tra i Musei Civici veneziani, le Gallerie dell’Accademia di Venezia e la National Gallery of Art di Washington, che dal 10 marzo 2019 ospiterà un corposo nucleo di opere, presentando per la prima volta negli Stati Uniti la maestria del Tintoretto.

Entrambe le mostre si avvalgono di prestiti dalle maggiori collezioni museali e private, europee e americane. Porta il titolo Il giovane Tintoretto quella alle Gallerie – curata da Roberta Battaglia, Paola Marini e Vittoria Romani – che, con criterio cronologico, mette a confronto opere realizzate dai venti ai trent’anni con i lavori di interpreti che rappresentano il coevo contesto artistico e culturale. Tra essi Tiziano, Jacopo Bassano, l’elegante Francesco Salviati, a Venezia negli anni 1539-1541, e il gelido Vasari, che vi arrivò nel 1542, i quali due furono attivi introducendo la maniera toscana, cui Tintoretto a modo suo ha guardato.

Conversione di san Paolo, 1544 circa, olio su tela, 153 × 237 cm, Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection

Percorrendo le varie sezioni, catturano l’attenzione la Conversione di san Paolo (Washington, National Gallery) e il Miracolo dello schiavo (Venezia, Gallerie Accademia) annuncianti il Tintoretto a venire. Nella Conversione del 1544 un’energia mai vista prima esplode sia nel movimento centrifugo che scompiglia l’intera scena – da dove il cavallo in primo piano sembra voler scappare – sia nei convulsi atteggiamenti dei personaggi, in un’eccitazione generale orchestrata da guizzi di pennello con risalti di rossi violacei di bianchi argentei e di gialli dorati, in una luce surreale. Sono più sequenze in una stessa scena, per mostrare non il fatto avvenuto ma quanto sta accadendo. Perde dunque importanza il voler riscontrare in quest’opera – com’è stato fatto – possibili debiti verso altri pittori, perché con lui, ora, la pittura a Venezia si sta aprendo a nuovi orizzonti.

È realizzato a distanza di quattro anni, con linguaggio maturo, il Miracolo, un’opera rivoluzionaria per invenzione scenica e intensità espressiva, dove tutto si svolge come in un palcoscenico, con tanto di quinte e di fondale architettonici, accalcando i personaggi ognuno in una propria manifestazione di sconcerto per la comparsa di San Marco che piomba a capofitto sulla folla per salvare lo schiavo riverso a terra, fermando l’aguzzino. È la differente illuminazione delle figure e dei piani prospettici a infondere l’impressione che ognuno sia partecipe di quanto si sta compiendo. Peculiarità che caratterizza il suo stile, al contrario dei protagonisti accuratamente in posa nelle tele del Veronese.

Miracolo dello schiavo, 1548, olio su tela, 416 × 544 cm, Venezia, Gallerie dell’Accademia © Archivio fotografico G.A.VE

Diversa è la tensione nel Caino uccide Abele, del 1550/1553 (Venezia, Gallerie Accademia), di evidente modellato michelangiolesco nei corpi che si agitano nell’affanno dell’atto delittuoso, ma è di pari suggestione tintorettiana il racconto dei due fratelli appartati nel buio di una natura boschiva su cui pare brillare di luce propria il corpo della vittima, come a presagirne l’ascesa al Paradiso; scena impaginata con uno squilibrio delle masse, efficace però nell’accrescere la drammaticità dell’evento, quando l’occhio si sposta sul brano di un paesaggio pianeggiante e si vede il colpevole che si allontana, portando la narrazione su un altro registro. Questi sono solo tre esempi di un artista che andrà sempre più confermando la propria genialità.

Caino uccide Abele, 1550/1553, olio su tela, 149 × 196 cm, Venezia, Gallerie dell’Accademia (dalla Scuola della Trinità)

L’altra mostra, dal titolo Tintoretto 1519-1594, è in Palazzo Ducale, che del pittore conserva numerose opere tuttora nell’originaria sistemazione, eseguite tra il 1564 e il 1592, e da una certa data con il contributo del figlio Domenico e altri assistenti della bottega del Robusti; basti ricordare la decorazione nella Sala del Maggior Consiglio di cui fa parte il Paradiso, tela di 22 metri di lunghezza e oltre 7 di altezza. 

Allestita nell’appartamento del Doge e curata da Robert Echols e Frederick Ilchman, con la direzione scientifica di Gabriella Belli, la rassegna presenta 50 dipinti e 20 disegni autografi. In un allestimento impeccabile – che crea un’atmosfera quasi spirituale, con le sale illuminate solo dai fari perfettamente puntati sui dipinti che emergono dalle pareti grigio scuro – si susseguono, sala per sala, le opere datate dal 1550 fino alle ultime realizzazioni (18 restaurate per l’occasione dall’organizzazione non profit newyorchese Save Venice Inc, che dal 1966 si dedica alla tutela del patrimonio artistico veneziano).

Il percorso si apre con l’autoritratto, lui ventisettenne (Philadelphia Museum of Art), il volto ripreso di tre quarti che guarda verso l’astante lanciando un’occhiata fiera e tagliente come di sfida, e si chiude con il frontale autoritratto senile, sulla soglia dei settant’anni (Parigi, Louvre) dove egli mostra in minuzioso dettaglio i segni dell’età, con uno sguardo stanco che suona quasi come una resa al destino che verrà.

A sinistra: Autoritratto, 1546–1547, olio su tela, 45 x 38 cm, Philadelphia Museum of Art.
A destra: Autoritratto, 1588 c, olio su tela, 63 x 52 cm Parigi, Musée du Louvre

L’esposizione si snoda, tema per tema, ragionando sulle novità del suo linguaggio pittorico. Vediamo dapprima la michelangiolesca plasticità dei nudi maschili, che nei dipinti egli elabora però in nuovi sviluppi dinamici, e una serie di disegni che danno prova della sua conoscenza del corpo umano, da cui deriva la varietà delle posture dei personaggi che avrebbe poi dipinto con pennello veloce. A seguire, tra le scene della sezione “Intimità”, non si riesce a staccare gli occhi da quella di riferimento biblico a Susanna e i vecchioni (Vienna, Kunsthistorisches Museum) capolavoro assoluto per tecnica, impaginazione, originalità di interpretazione. Il nudo corpo femmineo appare in primo piano splendente di luce, atteggiato con eleganza tra innocenza e compiacimento della propria bellezza, quella che Susanna vede riflessa in uno specchio ed è esaltata dalla preziosità dei braccialetti ai suoi polsi, dalle ricche vesti lasciate cadere e dalle cose lussuose sparse a terra, e perfino dal roseto fiorito, dal quale sbuca lo sguardo lascivo del guardone che si affaccia strisciando per terra. L’altro vecchione spunta dalla parte opposta del roseto, oltre al quale, e con una fuga prospettica di profondo respiro, Tintoretto amplia la narrazione sullo scenario di un giardino attraversato da un corso d’acqua dove sguazzano le oche, mentre più a margine una cerva si abbevera e un cervo stanzia tra le verzure.

Susanna e i vecchioni, 1555 c, olio su tela, 147 x 194 cm, Vienna, Kunsthistorisches
Museum, Gemäldegalerie

Morto Tiziano, Tintoretto si rese conto di dover abbracciare anche il repertorio mitologico, forse a lui poco congeniale: nella tela con Tarquinio e Lucrezia (Chicago, The Art Institute), infatti, presa come esempio, non si ritrova l’intensità emotiva dei temi religiosi.

Tarquinio e Lucrezia, 1578 – 1580 c, olio su tela, 175 x 152 cm, The Art Institute of Chicago, Art Institute Purchase Fund

Nella sala dei ritratti, genere in cui dal 1560 egli andò perfezionandosi per soddisfare la grande richiesta, fino a diventare il ritrattista ufficiale di stato, si nota che le pennellate sferzanti si acquietano. Gli effigiati li ritrae in pose naturali, facendoli emergere da un fondo scuro sul quale per contrasto risaltano i volti molto luminosi, mirando così a offrire un’approfondita interpretazione psicologica dell’indole del personaggio attraverso l’espressione degli occhi, sempre rivolti verso l’osservatore. Tra quelli esposti è da citare almeno l’Uomo con catena d’oro (Madrid, Prado), che si ipotizza acquistato dal pittore Diego Velázquez, per conto di Filippo IV re di Spagna, durante un soggiorno in Italia. Il movimento è dato dalla torsione del busto; si vedono gli attributi dell’appartenenza sociale – la catena d’oro, il bianco merletto del colletto e dei polsini, i guanti – elaborati senza indulgere in vistosità per far sì che l’attenzione dell’osservatore si concentri sul viso, bene illuminato sulla sinistra e messo in ombra dall’altro lato, con gli occhi che ci guardano dando un senso di immediatezza allo sguardo vivace e penetrante del gentiluomo.

Ritratto di uomo con una catena d’oro, 1560 c, olio su tela, 104 x 77 cm, Madrid, Museo Nacional del Prado

Si entra appieno nei soggetti religiosi, infine, con la pala del Battesimo di Cristo (opera richiesta dalla corporazione dei barcaioli per l’altare di San Giovanni nella chiesa di San Silvestro, da dove proviene), la Flagellazione di Cristo che arriva da Praga e l’Apparizione della Vergine a San Girolamo dell’Ateneo Veneto veneziano, tre opere dell’ultimo Tintoretto, realizzate intorno al 1580, mirabilmente collocate in moderne edicole minimaliste color rosso pompeiano. Nello svolgimento del contenuto narrativo si avverte l’adesione del pittore ai dettami del rinnovamento religioso voluto dalla Controriforma, che richiedeva immagini avvincenti, pertinenti ai misteri cristiani, per coinvolgere emotivamente i credenti e richiamare l’invocazione ai santi. Indubbiamente egli sapeva accontentare i suoi committenti se fu tra i più prolifici nell’esecuzione di pale d’altare.

Tintoretto, Battesimo di Cristo, Chiesa di San Silvestro, Venezia

Esemplare per l’invito alla contemplazione e alla meditazione è questa pala del Battesimo, che a Venezia era un tema tradizionale. Sullo sfondo di un paesaggio fluviale, San Giovanni, quasi in penombra su un rialzo della sponda, battezza il Cristo, che con i piedi nell’acqua umile reclina il capo per ricever il sacramento mentre il suo corpo si ammanta di una luce radiosa cascante dall’alto, dalla celestiale visione dello Spirito Santo circondato da cherubini. In tale capolavoro la scena apparentemente essenziale è vivificata dal contrasto chiaroscurale sferzato da lumeggiature dei due corpi in primo piano, armoniosamente torniti e di raffaellesca eleganza nella gestualità. La pennellata spedita e quella vaga impressione di voluto non-finito, che fa vibrare la raffigurazione, echeggiano una spiritualità e un senso religioso che di certo dovevano derivare dall’intimo del pittore stesso. Com’è nelle sue pur brulicanti versioni dell’Ultima cena, con gli apostoli tutt’altro che idealizzati, solo religiosamente indicati dall’aureola, in una concezione che non privilegia la circostanza del tradimento bensì la solennità dell’istituzione dell’eucarestia.

Una ripresa della sala con il Battesimo di Cristo, Venezia, San Silvestro, e l’Apparizione della Vergine a San Girolamo, Venezia, Ateneo Veneto

Le due mostre ben introducono all’opera del Tintoretto, ma non bastano a cogliere tutta la genialità di questo maestro che imprimeva ritmo ovunque: in figure, natura e oggetti. Per questo gli organizzatori propongono, di concerto con la Curia Patriarcale di Venezia e varie istituzioni culturali in loco, una mappa con un percorso cittadino per visitare le tante chiese e i palazzi dove ammirare la “mostra permanente” di Tintoretto, iniziando da Palazzo Ducale e dagli imponenti cicli pittorici nella Scuola Grande di San Rocco.

Da considerare, inoltre, l’apporto scientifico dei contributi in catalogo che affrontano anche questioni ancora aperte sull’universo Tintoretto (scritti dei curatori Robert Echols e Frederick Ilchman, e di Mattia Biffis, Lorenzo Buonanno, Maria Agnese Chiari Moretto Wiel, Miguel Falomir, Peter Humfrey, Michiaki Koshikawa, Roland Krischel, Stefania Mason, Susannah Rutherglen, Giorgio Tagliaferro).

Tra gli eventi commemorativi collaterali ci sono le mostre La Venezia di Tintoretto a Palazzo Mocenigo – che racconta la città nel XVI secolo con manufatti, libri rari e abiti d’epoca – e alla Scuola Grande di San Marco Arte, fede e medicina nella Venezia di Tintoretto, che esplora le relazioni tra credo religioso e sapere scientifico nel complesso ambiente culturale in cui egli è vissuto, tramite documenti d’archivio, manoscritti e codici miniati, trattati illustrati di anatomia e chirurgia, incisioni, disegni e dipinti su carta, tela e pergamena, provenienti dai fondi di autorevoli organi cittadini.

A Venezia tutto il genio di Tintoretto ultima modifica: 2018-10-04T10:17:54+02:00 da ELSA DEZUANNI
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