[PARIGI]
Qualche tempo fa Sébastien Bras, lo chef del ristorante Le Suquet, nell’Aveyron, aveva chiesto di essere escluso dalla guida Michelin edizione 2018. Bras, tre stelle Michelin dal 1999, aveva dichiarato di voler aprire una nuova fase della sua vita professionale, dedicandosi alla sua passione: la cucina. Senza rinnegare le soddisfazioni che la storica guida francese gli aveva apportato ma segnalando l’enorme pressione che l’opprimeva. “Oggi voglio essere uno spirito più libero”, aveva dichiarato, per continuare serenamente, senza tensioni, a far vivere il suo ristorante. Si tratta della prima volta che uno chef domanda di non figurare più nella guida. E una scelta non facile da un punto di vista economico, visto che ogni stella Michelin pare porti tra il 20 e il 30 per cento in più alla cifra di affari (secondo altri soltanto tra il 10 e il 15 per cento).
La scelta di Sébastien Bras aveva suscitato enormi discussioni che sistematicamente accompagnano la pubblicazione della guida. Ma di anno in anno le critiche si fanno più intense e più dure, soprattutto in epoca di social. Tanto che molti hanno cominciato a chiedersi se la guida Michelin valga ancora qualcosa nell’epoca di TripAdvisor, LaFourchette (che dal 2014 di proprietà di TripAdvisor) e dei vari influencer e blogger.
La guida Michelin continua ovviamente a essere importante. Per molti ristoratori desiderosi di ottenere riconoscimento e fama la guida Michelin conta molto. Qualcuno però inizia a guardare ad altre forme di riconoscimento, più trasparenti. Come il francese Alain Fontaine, chef del ristorante Le Mesturet a Parigi, che alla guida Michelin preferisce l’etichetta di “maître restaurateur”, attribuita dallo stato francese. Una certificazione di buona cucina di fronte all’opacità di Michelin che non certifica nulla, “se non la presenza nella guida stessa”.
È un’inquietudine che investe il settore in molti altri campi. Molti cominciano a chiedersi se si possa ridurre il dibattito sulla qualità di un ristorante ad un dialogo tra il ristoratore e il suo critico. Altri cominciano a domandarsi se la Michelin faccia parte di un vecchio mondo che non tiene nemmeno più conto delle nuove abitudini dei consumatori. Le app di food delivery non si contano più e qualche conseguenza sulla fruizione nei ristoranti comincia ad affiorare (si pensi ai cosiddetti “ristoranti clandestini”, così di moda a Parigi). Il mondo infatti cambia e cambia pure il nostro modo di accedere al cibo.
Viviamo in epoca di turbolenze che fanno vacillare molti settori. E la ristorazione non n’è risparmiata.
La Michelin e il “populismo” culinario
Molte delle critiche che oggi vengono mosse alla guida Michelin – per molti una guida opaca nei criteri di assegnazione delle stelle ed elitaria – non sono molto diverse da quello che molti movimenti populisti attribuiscono ai partiti “novecenteschi”. E come i partiti politici del secolo scorso, profondamente legati al modello di società dei Trenta Gloriosi, anche la guida Michelin rimane ancorata al suo mito, che data agli anni Venti-Trenta e che ha raggiunto l’apice proprio durante la massima fase di espansione delle economie dei paesi occidentali.
In questa strana analogia tra politica e cucina, vi sono altri aspetti comuni. Secondo Louis Treussard direttore generale dell’Atelier BNP-Paribas, Michelin aveva tutte le caratteristiche per creare qualcosa di equivalente a TripAdvisor, ma ha deciso di non farlo poiché troppo legata a quella che riteneva essere la sua dimensione di sicurezza. Michelin non è stata in grado di sviluppare il proprio asset: nonostante la guida sia il prodotto di una delle principali aziende mondiali produttrici di pneumatici, l’internazionalizzazione della guida Michelin avviene molto tardi e soltanto nel 2007 quando si decide di aprire al alcune città degli Stati Uniti e del Giappone. E soprattutto Michelin non riconosce il valore che il digitale può apportarle: solo nel 2012 la guida avrà un suo specifico sito web.
Basta l’immagine storica della guida. È sufficiente la sua credibilità. Però come dice Warren Buffet:
La fiducia è una questione di reputazione costruita nel tempo, servono vent’anni per costruirla e cinque minuti per rovinarla.
E nel tempo le accuse di mancanza di trasparenza e l’assenza di risposta da Michelin (ad oggi non si sa nemmeno quanti siano i critici Michelin, né quanto vengano pagati) hanno generato una discussione sempre più accesa tra gli amanti del cibo, con polemiche internazionali (dal Belgio alla Corea del Sud), e qualche interrogativo sulla credibilità della guida. E quando si apre una breccia nella credibilità – anche se la guida continua ad essere uno degli strumenti migliori per la selezione dei ristoranti, poiché offre comunque un livello uniforme di comparazione – è difficile farvi fronte.
Sorda al “populismo” culinario, che pure cercava di correggere alcune distorsioni del sistema di classificazione, la guida Michelin pare oggi sia meno temuta di TripAdvisor. L’azienda americana, nata nel 2001, ha cambiato profondamente l’evoluzione del mercato dei viaggi e della ristorazione: dai quattro milioni di dollari investiti nel 2001 ai quattro miliardi che oggi la società vale. Un sito quello di TripAdvisor che attrae circa 456 milioni di visitatori ogni mese e che nel 2018 ha visto il sessanta per cento dei consumatori che hanno prenotato viaggi online utilizzare il sito di Stephen Kaufer.
Non che TripAdvisor non abbia problemi di credibilità. Anzi col tempo il sito internet ha visto aumentare problemi legati all’affidabilità e alla credibilità dei giudizi espressi dagli utenti. E che ha spinto il sito web ad attivare alcune risposte.
Il Foodtech alla conquista del mondo
Se cambia la credibilità degli strumenti di giudizio nell’ambito della ristorazione, cambia però anche il nostro modo di accedere al cibo. Le app stanno rivoluzionando il mondo e non solo i taxi ne sono interessati. Il settore della ristorazione sta diventando fonte di enormi guadagni per giganti come Uber, Google, Amazon o Alibaba. Il business dell’O2O (Online to Offline), il trait d’union tra l’economia fisica e digitale, attira sempre più investimenti e startup.
Uber ha per esempio lanciato la sua attività di food delivery sotto il nome di Uber Eats: l’idea è quella di consegnare il cibo in dieci minuti dall’ordinazione via app.
Nel 2016 è nata Amazon restaurant, per ora disponibile solo negli Stati Uniti e riservata solo ai membri premium. E tra poco dovrebbe arrivare in Europa.
Anche Google sta testando dei servizi di consegna di cibo negli Stati Uniti.
In Europa il mercato è in rapida espansione: secondo uno studio dell’incubatore di startup Rocket Internet, il mercato europeo delle consegne dei pasti a domicilio dovrebbe pesare attorno ai novanta miliardi di euro tra qualche anno. E sono già numerose le aziende europee nel settore: Delivery Hero è tra le più grandi ed è tedesca, così come Foodora; Deliveroo che è inglese; FoodChéri, AlloResto, ChronoResto, Livraison Resto e Resto-In sono tutte francesi. AlloResto è la più importante tra le francesi e raggruppa più di 3500 ristoratori.
Ed è un settore dove le startup non mancano. Come Digifood, un’app che si occupa di consegnare il cibo durante eventi sportivi o musicali. Altre, come Blue Apron, HelloFresh, Plated e Chef’d propongono il “kit” contenente tutto il necessario per prepararsi il piatto da soli. VizEat (che opera in Italia, Francia, Spagna, Gran Bretagna e Portogallo), Menu Next Door (a Parigi) e Feastly (a Los Angeles e San Francisco) sono app che invece mettono in contatto gli utenti con i turisti per organizzare delle autentiche cene locali che consentano al turista di godere della gastronomia della città che visitano e nel contempo di fare nuovi incontri.
E il cambiamento delle abitudini è notevole. Tra i ristoratori innanzitutto. Molti ad esempio hanno deciso di continuare a lavorare anche nel giorno di chiusura “fisica” del ristorante: lavorano solo su ordinazioni via app. Altri si sono adattati alla nuova realtà. A Tokyo lo chef stellato Michelin Daisuke Nomura si è accordato con Uber Eats per fornire un pasto a cinque dollari da ordinare via app.
Una trasformazione del settore che suscita molte polemiche. In Francia va di moda parlare di uberisation dell’economia per indicare i servizi digitali che da un lato hanno notevoli guadagni finanziari, evitando tutti i regolamenti e i vincoli legislativi della concorrenza classica, e dall’altro lato assicurano la quasi istantaneità, la mutualizzazione delle risorse e la quasi assenza di infrastrutture (come un ufficio ad esempio). La polemica più recente ha riguardato proprio i cosiddetti restaurants clandestins, nome con cui le associazioni dei ristoratori chiamano i servizi forniti da VizEat, Menu Next Door, Cookening, Voulezvousdiner, viensmangeralamaison.fr e Feastly: cuochi amatoriali che come abbiamo detto organizzano tramite app cene con i turisti per gustare del cibo locale fatto in casa. Secondo il sindacato dei ristoratori non verrebbero rispettate le norme in termini di igiene, di vendita di alcool e soprattutto fiscali che vengono richieste ai ristoranti tradizionali.
A Parigi c’è una vera e propria guerra per accaparrarsi il mercato dei servizi di consegna del cibo. Gli aspetti simbolici di questa guerra sono evidenti. In vari settori la Francia accetta sempre più una cultura anglo-americana che ha costantemente vissuto con un certo sospetto: oggi, dalle compagnie di food delivery alla doggy bag – anatema fino a qualche tempo fa nei ristoranti francesi – la tradizione culinaria francese è in trasformazione. È la cultura francese che si sente minacciata: il pasto francese è dal 2010 iscritto nella lista del patrimonio culturale dell’umanità, stilata dall’Unesco poiché:
[…] una pratica sociale e una consuetudine destinata a celebrare i momento più improntati della vita delle persone e dei gruppi […] si tratta di un pasto festoso dove convivono l’arte del mangiar bene e del buon vino. Il pasto gastronomico francese mette l’accento sullo stare assieme, sul piacere del gusto, sull’armonia tra l’essere umano e la produzione della natura […] e rafforza i legami sociali.
I legami sociali, appunto. Le app stanno cambiando le abitudini delle persone? O forse, in realtà, ci sono state delle evoluzioni sociali che hanno facilitato la creazione di un mercato per queste app. In Francia, la durata della pausa pranzo era di 22 minuti in media nel 2009: era di un’ora e mezza vent’anni fa. Il numero dei cosiddetti desk-side lunches, il pranzo consumato sulla scrivania del lavoro, è in aumento.
Non solo. I single in Francia sono almeno dieci milioni di persone e quando si è soli il tempo che si dedica alla preparazione del proprio pasto è minore. Sono aumentati i tempi di percorrenza casa-lavoro: significa ancora meno tempo voglia di cucinare una volta arrivati a casa. La curiosità di provare buoni piatti rimane (forse da qui il successo delle innumerevoli trasmissioni televisive che si occupano di buona cucina) ma molti preferiscono goderseli seduti a casa propria. E poi ci sono le nuove generazioni che con le app ci vivono da sempre.
Il lato chiaro della Forza (del Foodtech)
Se è vero che il settore del food delivery ha delle conseguenze profonde sul modo di accedere al cibo, ci sono degli aspetti positivi. Innanzitutto la ristorazione ottiene nuovi clienti. E questo è importante.
Ma sono rilevanti anche i miglioramenti tecnologici. Tutti i grandi attori del settore stanno facendo enormi investimenti che probabilmente avranno delle ricadute anche in altri ambiti: dalla geolocalizzazione all’ingegneria, alla scienza dei dati. Ad esempio, Google sta sperimentando la consegna del cibo via drone, dopo la prima esperienza di Domino, l’azienda leader della pizza a domicilio, nel 2016 in Nuova Zelanda. Uber ha testato un auto senza conducente qualche anno fa per consegnare della Budweiser a un utente.
E poi non si devono sottovalutare le potenzialità in termini di creazione di nuove relazioni sociali. In Francia, in occasione della prima giornata nazionale contro lo spreco alimentare, è stata lanciata l’applicazione OptiMiam, che punta a mettere in relazione utenti privati, commercianti di alimentari e ristoratori che rischiano di trovarsi con dei pasti invenduti. La geolocalizzazione permette agli utilizzatori dell’app di rintracciare questo cibo che sarà messo in vendita ad un prezzo ridotto.
Altre app, come monvoisincuisine.com, mettono in relazione gli abitanti di uno stesso quartiere che possono vendersi del cibo fatto in casa. Soochef ha sviluppato un prodotto simile. Mamie Régale invece mette in relazione persone anziane che hanno voglia di cucinare per gli altri, consentendo anche di combattere la solitudine.
E la Francia non è la sola. In India Million Kitchen aiuta e donne che vivono in condizione precarie di essere pagate per prepare dei pasti che saranno poi consegnati a domicilio.
Anche il settore del Foodtech sociale esiste e si sta sviluppando. Ed è una buona cosa.

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