Un Papa straniero. A Barcellona

La candidatura dell'ex premier francese Manuel Valls a sindaco della capitale catalana suscita controversie e spariglia le carte in tutte le aree politiche. Il ritratto di un personaggio che ha segnato la recente vita politica in Francia e che sembrava condannato all'oblio
ETTORE SINISCALCHI
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Voglio esprimere la mia riconoscenza innanzitutto al mio paese, alla Francia, un paese unico che dà la possibilità a qualcuno che non è nato qui, che ha scelto di essere francese a vent’anni, di avere un percorso politico, d’essere sindaco, deputato, ministro e primo ministro della Repubblica.

Così, Manuel Valls, si è congedato martedì scorso dall’Assemblée nationale, in un discorso accolto da ovazioni e proteste, come discussa è stata la sua esperienza da parlamentare – a cominciare dall’iniziale stop a saltare sul carro di Macron, nel cui gruppo è stato in seguito accolto, per arrivare alle continue assenze fatte nel corso del mandato. Parlando di sé in terza persona, Valls ha poi aggiunto:

Il barcellonese, il francese, il repubblicano e l’europeo è riconoscente ai francesi e non li dimenticherà mai, mai!.

Così Valls s’appresta a iniziare la sua nuova avventura politica, tornando nella terra d’origine come candidato sindaco della città di Barcellona per Ciudadanos (C’s). È il primo nome sicuro a sfidare la sindaca Ada Colau alle elezioni comunali del prossimo maggio, dato che quelli scelti finora da altre formazioni sembrano candidati provvisori di bandiera, in attesa che si ricomponga l’agitatissimo quadro politico del fronte nazionalista. Grandi tensioni attraversano infatti la coalizione che governa l’Autonomia, che sperava di riuscire a strappare la città ai Comuns, la formazione di Colau. Valls è un avversario che, di per sé, è in grado di sparigliare le carte, e infatti l’onda d’urto della sua candidatura si è già fatta sentire.

A cominciare dalle reazioni da parte dei partiti nazionalisti e del sistema della stampa “concertata”, cioè molto sensibile alle parole d’ordine della maggioranza politica, anche perché in diverse forme sovvenzionata dall’autonomia locale. Come dalla fitta rete di associazioni civiche e dal mondo intellettuale e universitario legato ai partiti nazionalisti, che costituiscono il sistema catalanista forgiato in trent’anni di dominio politico della Generalitat da parte del catalanista Jordi Pujol, una rete che in pochissimo tempo è stata riconvertita alla causa indipendentista.

Un jolly nella crisi del “Processismo”

È stato definito un bonapartista, un autoritario e un antidemocratico, quando non, dalla sinistra nazionalista, direttamente un facha, un fascista, un feixista in catalano. O anche un fallito in patria che tenta di riciclarsi. Un pesante fuoco di sbarramento che tradisce il timore verso una candidatura indubbiamente forte, nel panorama politico e sociale smembrato dalla crisi del Processismo. Cos’è il Processismo? Il catalanismo moderato ha per tutta la democrazia tenuto in piedi un’eterna trattativa coi governi di Madrid, con l’appoggio alla formazione di maggioranze nazionali in cambio di maggiori quote di autogoverno e di aumento del mantenimento nella regione dei prelievi fiscali.

L’innalzamento della posta della trattativa è stata la minaccia dell’indipendenza, che prendeva la forma di quello che l’ex presidente della Generalitat, Artur Mas, chiamò il “Processo verso l’Indipendenza” (con maiuscole adeguate, naturalmente). Cioè l’indipendenza non si fa ma si fa un “processo verso”, una trattativa eterna, nella quale si alza la posta bluffando. Insomma, si alza la posta bluffando, perché dell’impossibilità e non convenienza dell’obiettivo la cabina di regia del nazionalismo è sempre stata consapevole. Con l’escalation referendaria il Processismo è precipitato nella deriva della messa in scena di un’indipendenza – mai veramente dichiarata – e di una repubblica – mai veramente proclamata – che, nel combinato con l’azione del governo centrale che ha finto di credere al bluff invece di disinnescarlo, ha portato alle estreme conseguenze di uno scontro politico e istituzionale che ha frantumato la convivenza nella società catalana.

Chiusa la parentesi sul Processismo, torniamo a Valls, che fa paura perché, nello sfaldamento catalano, è in grado di rappresentare molte istanze, anche diverse tra loro, costituendo una brutta notizia pure per il Partito socialista catalano (Psc), che si preparava a recuperare voti perduti, se non alla sua sinistra, dove Ada Colau rappresenta per ora un solido rifugio, almeno di parte di quelli andati a C’s, anche grazie al traino del governo nazionale guidato da Pedro Sánchez.

Valls è certamente un opportunista, che cerca una nuova vita politica nel suo paese natale dopo che il suo percorso politico in Francia è entrato in un vicolo cieco; ha sicuramente rappresentato nella crisi del socialismo francese la sua espressione dirigista e autoritaria; ed è anche vero che il suo autoritarismo diventa, nel contesto catalano attuale, una candidatura definibile di destra. Ma potrebbe dare a molti dirigenti politici catalani lezioni di democrazia, per esempio sa cosa sia un referendum fatto con garanzie democratiche e quali i diritti parlamentari delle minoranze, e difficilmente si può dare del fallito a uno col suo curriculum politico. Conosce l’Europa, sa come si governa una città e un paese. Volendo pensare all’Europa come luogo comune, Manuel Carlos Valls i Galfetti, questo il nome completo, ne è certamente un rappresentante, con anche un po’ d’Italia, o meglio di Svizzera italiana, con la madre originaria del Canton Ticino.

Valls, dicevamo, spariglia. Potrebbe rappresentare benissimo l’establishment catalano finora rappresentato dal catalanismo moderato, ma il disfacimento di questo nella deriva referendaria e processista lo porta nelle braccia di C’s, partito ancora in cerca di un’identità. Sospeso tra origini progressiste – nasce per rappresentare quell’elettorato socialista che, soprattutto nella sua componente immigrata, era disorientato dalla svolta nazionalista del socialismo catalano – e un presente marcatamente di destra diluito nel centralismo spagnolista, il partito di Albert Rivera non raccoglie i favori della maggioranza della Catalogna che conta, nelle banche, nelle imprese e nelle finanziarie, né di molti elettori progressisti. Anche se alle ultime elezioni autonomiche è risultato il primo partito della regione non è in grado di tessere le alleanze che gli consentano di andare al governo.

Anche per Ciudadanos, Valls costituirà un punto di cesura, un prima e un dopo, nel terremoto che ha scosso la politica e i partiti spagnoli, costituendo un nuovo rimescolamento di carte in un panorama che, già nell’ultimo lustro profondamente mutato, s’appresta a nuovi sconvolgimenti. Una meteora il cui impatto potrebbe propagarsi anche oltre i confini catalani.

Per le vie de La Barceloneta

Un “papa straniero”? Sì e no. Un politico francese di catalanissime tradizioni famigliari

Valls non è un cosiddetto esponente della società civile, come in genere capita quando i partiti si rivolgono a candidati provenienti dal di fuori, ma un politico professionale. È francese, più straniero di così, ma ha solide origini catalane. È catalano ma non è catalanista e neanche un nazionalista centralista castiglianista. La sua figura può attirare votanti ostili al nazionalismo catalano ma anche settori nazionalisti moderati catalani. Il catalanismo si descrive, ed in parte è, perlomeno nella misura in cui lo sono le culture campanilistiche, includente. Questo vale naturalmente più a sinistra, che storicamente raccoglie il voto dell’immigrazione interna, ma in generale non è importante l’origine quanto la cittadinanza, stare in Catalogna adesso, e, soprattutto, condividere il seny, il senno, la ragionevolezza, quella virtù tenuta in gran considerazione e molto propagandata che mette insieme perbenismo, moderatismo, morale piccolo borghese, senso per gli affari e etica del lavoro. Eppure avere discendenza catalana, nella politica e nella società, conta, e non poco, per scalarne le gerarchie. Dà autorevolezza, allori, consente il richiamo a una “catalanità” solida. E Valls, pur essendo francese, non è straniero. Non solo ha ascendenze “catalanissime” ma sono anche nomi importanti, col loro piccolo e meno piccolo spazio nella storia catalana.

Il bisnonno è Josep María Valls i Vicens (morto nel 1907), avvocato che prosegue la tradizione familiare del padre banchiere (c’è anche un trisnonno che conta quindi) con la Banca Hijos de Magí Valls. Consigliere comunale di Barcellona, membro del direttivo della Camera di commercio, fu anche animatore intellettuale e scrittore, collaborando con riviste come La Renaixença, L’Esperit Català e La Ilustració Catalana, con lo pseudonimo di Josep Maria Bosch Gelabert, pubblicando libri in lingua e “spirito” nazionalista catalano. Siamo nelle élite economiche e imprenditoriali catalane, cattoliche, nazionaliste e conservatrici, impregnate però di qualche influenza illuministica, seppur molto alto borghese, proveniente dalla Francia. Gente sempre abituata a stare in alto, convinta del suo ruolo in una comunità che va guidata dall’alto, i cui interessi coincidono per forza con i propri.

Il nonno è Magí Valls. Poeta, giornalista, fondatore della banca Banca Ponsa i Valls. Fu anch’egli un animatore culturale, della Reinaxença, movimento culturale catalanista e conservatore, collaboratore di riviste come La Ilustració Catalana o D’ací i d’allà. Nel 1906 partecipa al primo Congresso della lingua e della letteratura catalana. Nel 1920, dopo il crollo della banca (che non aveva più in cassa i soldi dei correntisti) si dedica all’insegnamento e aderisce alla Associació Protectora de l’Ensenyança Catalana. Nel 1929 è tra i fondatori del quotidiano El Matí, conservatore e cattolico, voce dei possidenti terrieri e industriali terrorizzati dalle rivendicazioni operaie e contadine. La famiglia era legata anche a ambienti carlisti, vicini al primo catalanismo come al nazionalismo basco di destra, con figure come il vescovo Torras i Bages, che disse che “Catalogna sarà cristiana o non sarà”. Protettore di preti e monache, che riuscirà a nascondere salvandoli dalla furia della rivoluzione anarchica di Barcellona, verrà poi epurato dall’insegnamento nel franchismo. Le destre catalane, come le basche, alleate delle destre spagnole, videro nel franchismo la controrivoluzione di classe che avrebbe rimesso a posto sinistre, sindacati e, per i monarchici, avventurismi repubblicani, per ripristinare l’ordine sociale al cui vertice essi risiedevano. Un’illusione che si infranse nella “España, una, grande y libre”, la costruzione franchista di un clerico-fascismo castiglianista che non tollerava le differenze catalane e basche.

Nella Barcellona buia del dopo guerra civile, l’inizio degli anni Quaranta, il padre di Manuel, Xavier, fa il pittore figurativo. L’ambiente culturale è ristretto, ha ambiti di manovra solo una borghesia feroce, sottomessa a un regime che in parte odia ma nel quale agisce le sue rese dei conti, per un nonnulla si può finire ai margini, essere additati come nemici del regime, come “rossi”. Dopo la fine della seconda guerra mondiale decide di andare in Francia, dove vive non certo in agiatezza, alloggiando in una casa comunale di edilizia pubblica e dove conosce e sposa la svizzera di lingua italiana Luisangela Galfetti. Dovranno passare anni prima che riesca a trovare un minimo di stabilità, un poco di fama come pittore. Nel frattempo Barcellona comincia a essere sopportabile, almeno per i garantiti che non pongono problemi, e la sua figura d’artista, passata all’astrattismo e poi tornata al figurativo, comincia a essere rivalutata. Con l’arrivo di un poco di benessere la coppia compra una casa a Barcellona, dove passa le estati. In una di queste vacanze, il 13 agosto 1962, nasce Manuel. Che crescerà in Francia passando le estati a Barcellona. In Francia l’ambiente famigliare è più aperto, passano a volte spagnoli in fuga dalla dittatura, la famiglia a Barcellona è invece conservatrice e cattolica, frustrata nel suo nazionalismo catalano e dalla messa al margine da parte del regime.

Ricevimento al Círculo del Liceo

Un socialista francese sempre nella destra del partito

A diciannove anni Manuel s’iscrive al Partito socialista francese. È il 1981, il partito è dominato da Mitterrand e lui si colloca alla sua destra, nel liberalsocialismo di Michel Rocard. A vent’anni sceglie la cittadinanza francese e inizia la carriera nel partito. Quattro anni dopo diventa consigliere regionale nell’Île-de-France e continua, lentamente, la carriera interna, fino a dirigere la comunicazione del Psf. Dal ’97 al 2002 è il capo della comunicazione del gabinetto di Lionel Jospin. Ma il primo passo verso la notorietà politica avviene a Évry, di cui diviene sindaco nel 2001, l’anno successivo entrerà anche come deputato all’Assemblea nazionale. A Évry inizia a cavalcare i temi della sicurezza, mosca bianca fra i politici socialisti, facendosi conoscere in tutto il paese. Fa sue parole d’ordine del Front National e viene visto nel partito come la figura in grado di arginare la minaccia della destra lepeniana. Nel gabinetto di Jean-Marc Ayrault, nel 2012 con Hollande alla presidenza della repubblica, diventa ministro dell’Interno e inizia la sua campagna securitaria, distinguendosi in particolare nell’espulsione degli zingari senza residenza in Francia. Affronta l’offensiva jihadista, gli attentati di Tolosa e Mantabaun. Nel 2014, dopo una crisi di governo, diventa primo ministro. Comprende la centralità del tema dell’immigrazione, nella declinazione data dalle destre, continua le espulsioni degli zingari, propone una riforma del lavoro che suscita le ire di tutti i sindacati. Si trova a gestire il prosieguo dell’offensiva terrorista, da Charlie Hebdo al Bataclan, applicando, e secondo alcuni critici estendendo ai limiti consentiti da una democrazia, lo stato di emergenza. I primi abboccamenti con Ciudadanos sono già del 2015, quando partecipa ad alcune iniziative elettorali della nuova formazione suscitando il disappunto, se non le ire, dei socialisti catalani.

Nel 2016 si dimette e perde le primarie del Psf contro Benoît Hamon. Sembra avviato all’oblio; deputato semplice, salta sul carro macroniano, inizialmente respinto e poi tenuto ai margini.

Con un gruppo di residenti de La Barceloneta

Una candidatura che apre a Ciudadanos le porte dei salotti catalani che contano (con una storia d’amore a garanzia)

La candidatura di Valls è ben più della candidatura di Ciudadanos. Gli arancioni hanno fatto il gran colpo. Il partito antinazionalista catalano, con una dirigenza e quadri di poco spessore, spesso vicini a un nazionalismo centralista o a posizioni decisamente di destra, e un elettorato che, invece, in Catalogna, proviene per la gran parte da quello socialista e si considera ancora progressista (secondo quel che ci dicono le inchieste), è una costruzione di successo ma fragile, destinata a esser cambiata da questa candidatura. Quadri e dirigenti, infatti, non sempre hanno preso bene “la candidatura del francese”. Ma oramai il dado è tratto, l’impegno è preso e non si può tornare indietro. Rivera ha messo spalle al muro la sua dirigenza riottosa, ridimensionandola e compensandone i limiti. L’opzione arancione si rafforza così non solo in Catalogna, determinando le condizioni per uscire dal recinto dei contrari al sovranismo catalano, ma anche in prospettiva nazionale, dove le praterie battute sono quelle dell’elettorato dei popolari disgustati dalla tempesta delle inchieste di corruzione che stanno travolgendo il Pp, che fanno crescere il partito nei sondaggi sulle intenzioni di voto. Ma la sfida immediata è quella catalana e la “bomba Valls” ha già dispiegato i suoi effetti.

Il giorno della comunicazione della candidatura Valls ha postato su Twitter una foto con la sorella Giovanna, davanti alla casa di famiglia, mettendo così in scena la pace in famiglia. La sorella infatti, continuando la tradizione familiare, era vicina al processismo, si era pubblicamente schierata con le politiche dei partiti nazionalisti, col referendum, col teatro dell’indipendenza. Quando Valls appoggiò pubblicamente il governo spagnolo nell’applicazione dell’articolo 155 che commissariava la Generalitat, via Twitter evocò il nonno Magí perché ridesse il senno al fratello. Adesso chiede ai giornalisti, sempre via Twitter, di essere lasciata in pace e di «rispettare la sua vita e la sua salute». Perché è tutta una parte di quel mondo, banche, finanziare, imprese, finora parte fondante del catalanismo politico ma contrario alla svolta sovranista, che ha trovato con Valls un nuovo interlocutore, vedendo in lui quell’affidabilità che la contraddittoria compagine di Ciudadanos, di per sé, non garantiva. Un legame che passa anche per una relazione amorosa.

In agosto Paris Match svela la relazione tra Manuel Valls e Susana Gallardo, pubblicando le foto della coppia in vacanza a Maiorca, guadagnandosi una querela da parte di Valls.

Gallardo è la 26^ persona più ricca di Spagna. Possiede i laboratori farmaceutici Almirall, ereditati dalla famiglia, è stata nei Cda di Caixabank e Albertis, dirigeva con l’ex marito il colosso dell’abbigliamento nuziale Pronovias, poi venduto a un fondo d’investimento internazionale. Una donna capace e di potere, con un curriculum di tutto rispetto. Laureata in Politica e economia alla Oxford Brookes University, master in Banking and Finance al City of London Polytechnic, ha lavorato nel tavolo operativo della Banca centrale europea e in altre importanti entità finanziarie. Gallardo si è pubblicamente esposta contro il referendum indipendentista, celebre un video postato sul suo Instagram nel quale, avvolta in una bandiera spagnola, si recava a votare in un collegio elettorale e ne visitava altri polemizzando coi presenti. È stata dentro all’operazione di migrazione dalla Catalogna delle sedi di molte imprese catalane durante la crisi dello scorso anno e rappresenta perfettamente l’abbandono di parte dell’establishment economico e finanziario catalano dei vecchi referenti politici catalanisti lanciatisi nell’avventura sovranista.

Per Valls, Susana è una potente macchina di costruzione di relazioni e consenso nei luoghi che contano in Catalogna. Una garante per l’establishment catalano che ha sempre manifestato scetticismo nei confronti del partito arancione di Albert Rivera, considerato debole, inaffidabile, carente di figure all’altezza. Un partito buono per catturare gli elettori ex socialisti, per frenare il sovranismo catalano, per rafforzare il concetto del superamento delle differenze tra destra e sinistra, ma di scarsa garanzia per i propri interessi economici e imprenditoriali, considerati del tutto coincidenti (certe cose non cambiano mai) con quelli dei catalani.

Con la sorella Giovanna

L’onda d’urto che scuote la politica catalana. Cronaca di questi giorni e prospettive, a otto mesi dal voto

Manuel Valls arriva alla sfida, quindi, forte, in grado di rompere tradizioni consolidate, costituendo un fatto nuovo col quale tutti devono fare i conti. La sua candidatura piomba su un quadro estremamente incerto, senza finora nessun candidato di grande forza. I partiti nazionalisti, nel fallimento del bluff indipendentista, sono divisi su tutto, impegnati in una continua resa dei conti, scomposizione e ricomposizione, uniti solo nell’arrembaggio all’esperienza di governo cittadino dei Comuns di Ada Colau. Del resto, come ha detto il president della Generalitat, Quim Torra, Barcellona “è la capitale del paese”. Della Catalogna sovrana. I socialisti, incapaci di ritrovare una centralità, confidavano in un recupero di voti, che non è detto non riesca.

Adesso le cose sono cambiate e l’onda d’urto della candidatura si è fatta sentire già prima della sua ufficializzazione. Nel campo dove maggiore è la tensione, quello nazionalista.

A cominciare dalla sinistra, Esquerra republicana de Catalunya (Erc). Il 21 settembre il vincitore delle primarie di sette mesi prima, Alfred Bosch, ha comunicato all’assemblea del suo partito il ritiro dalla corsa. Prende anche atto dei nuovi equilibri interni, aprendo la strada a Ernest Maragall, fratello dello storico sindaco delle olimpiadi Pascual. Esponente di punta dell’ala nazionalista del socialismo catalano, uscito polemicamente dal partito per fondare col fratello un partito di sinistra sovranista ispirato all’esperienza del Partito democratico italiano – nel quale Pascual vide una via d’uscita dalla crisi del socialismo europeo – Ernest, ora approdato a Erc, ha una lunga esperienza nel governo della città, iniziata già con il franchismo ancora al potere.

L’incertezza regna nel nazionalismo di centrodestra, in quella che era l’antica Convergencia – ora Partito democratico europeo catalano (PDECat) – e nell’orbita dell’ex presidente della Generalitat in autoesilio, Carles Puigdemont, con la sua lista Junts pel Sì. I convergenti sono quelli più nel pallone. Orfani dei privilegiati rapporti con l’establishment, che ha rigettato la svolta sovranista, sono quelli che più hanno pagato la svolta e temono che le urne li ridimensionino pesantemente. Molti quadri stanno andando verso Puigdemont ma anche Valls, adesso, costituisce una nuova attrattiva. Certo, è un salto che richiede grande agilità e sarà alla portata solo di alcune figure, con un sistema personale di relazioni in grado di proteggerli nel cambio di fronte. Anche il PDECat ha una candidata scelta con primarie lo scorso maggio, Neus Munté, ma nessuno ha mai creduto che riuscirà alla fine a capeggiare nessuna lista. Nel campo di Puigdemont pure mancano figure di spicco, non avendo più il leader espatriato diritti politici. Conscio di questa debolezza l’ex president spinge per una lista unitaria: l’unità elettorale è evocata in continuazione dall’attuale president, Quim Torra. Un percorso non facile, che non convince Ernest Maragall, convinto che la lista unitaria non consenta a Erc di diventare finalmente il primo partito nazionalista, capitalizzando anche l’assurda permanenza in carcere del leader del partito, Oriol Junqueras, dietro le sbarre dallo scorso novembre.

Ada Colau è in fondo la meno toccata dalla candidatura di Valls, per i Comuns sarà anzi facile presentarlo come candidato dell’eterno establishment catalano, che prima appoggiava il sistema corrotto del catalanismo moderato e ora è pronto a cambiare cavallo puntando sull’autoritarismo. Il suo bilancio di governo non è negativo. Carente di grandi progetti per la città è riuscita però a essere vicina alle istanze della cittadinanza, soprattutto la più colpita dalla crisi economica. Certo, la sua maggioranza si è indebolita, sull’articolo 155 si è consumata la rottura coi socialisti ma entrambi, socialisti e Colau, sanno di aver maggiori ambiti di manovra per una trattativa. Il Psc, sempre tramite primarie, ha un suo candidato, Jaume Collboni. Una figura secondaria, spendibile in una corsa senza chance di vittoria, che punta tutto a un piazzamento tale da consentire di rientrare nei giochi per la formazione di una maggioranza. Pur nel ridimensionamento elettorale, possono essere ago della bilancia. A patto che la forza attrattiva di Valls non faccia breccia nell’elettorato socialista che mai avrebbe votato Ciudadanos.

Che vinca o che perda, in Catalogna è iniziata l’era Valls. Col suo arrivo molto non sarà più come prima. Non per questo il voto del prossimo maggio sarà meno incerto.

Un Papa straniero. A Barcellona ultima modifica: 2018-10-07T17:29:40+02:00 da ETTORE SINISCALCHI
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