Quando si parla di immigrazione dal continente africano bisogna sfuggire allo scontro tra fegato e cuore ed essere razionali. Il problema esiste, così come esiste un modo per affrontarlo in maniera seria. Quelli che fanno appello solo al cuore finiscono per essere i migliori alleati di Salvini.
A parlare così è Mario Raffaelli, una vita politica dedicata alle relazioni con l’Africa, alla conoscenza e alla soluzione dei problemi – e all’individuazione dei punti di forza – del continente africano, che è di fronte al nostro, molto vicino al nostro, e che pure appare molto distante da noi e, comunque, sconosciuto ai più, nel nostro paese e in Europa. Anche per via di un’informazione del tutto inadeguata e spesso deformante.
Sottosegretario agli affari esteri con delega all’Africa dal 1983 al 1989, rappresentante del governo italiano nelle trattative che hanno portato agli accordi di pace in Mozambico nel 1992, inviato speciale del governo per il Corno d’Africa dal 2003 al 2008, presidente di Amref Italia dal 2010 e presidente del Centro per la formazione alla solidarietà internazionale di Trento dal 2017: nel corso degli anni Raffaelli ha partecipato in varie vesti alle vicende che hanno segnato la storia del continente africano.
Quella di Raffaelli per l’Africa è una passione sbocciata però un po’ per caso. Tutto comincia nel 1983, quando l’allora giovane deputato socialista, di origini trentine, è nominato sottosegretario agli affari esteri nel primo governo Craxi.
La mia nomina arrivò in maniera del tutto inaspettata. Avrei dovuto seguire all’industria il ministro Renato Altissimo, con il quale ero già stato sottosegretario alla sanità, ma, per una circostanza del tutto imprevista, fui nominato agli esteri. Mi telefonarono per comunicarmelo a mezzanotte. La situazione mi preoccupava non poco: non sapevo molto di esteri e il ministro era allora Giulio Andreotti.
Ma con Andreotti i rapporti furono da subito ottimi.
Lo incontrai il giorno successivo in Transatlantico e si mostrò felice per la mia nomina. “Che bello che viene un giovane’”disse “un giovane nato quando ero già sottosegretario alla presidenza del consiglio (nel 1946, ndr). Sei di maggio, vero?'”
Fu lo stesso Andreotti a consigliare a Raffaelli di scegliere la delega all’Africa.
Prima di accettare feci un rapido ragionamento. Secondo la mia breve esperienza alla sanità, un sottosegretario contava in base al suo rapporto con il ministro. Il ministro avrebbe con ogni probabilità tenuto per sé Europa, Stati Uniti e America Latina. In Africa avrei avuto probabilmente più spazio di manovra.
Fu così.
Andreotti mi lasciò veramente mano libera. In sei anni non mi chiese mai di fare una cosa che fosse men che commendevole.
L’incontro con l’Africa è casuale, ma è subito un colpo di fulmine.
Nominato il 3 agosto, Raffaelli passa tutta l’estate a prepararsi leggendo libri e documenti. Il primo viaggio è in Tanzania.
Avevo incontrato a casa del mio amico Aldo Aiello il consigliere economico del presidente tanzaniano Julius Nyerere. Questi mi supplicò di aiutarlo. “Abbiamo sbagliato tutto sulla politica economica, siamo in difficoltà, non siamo allineati, abbiamo bisogno di essere aiutati”, mi disse. Quest’uomo che mi chiedeva aiuto mi toccò. La Tanzania non era nelle priorità della cooperazione italiana. Ci feci comunque una missione e lanciai un grande programma di cooperazione.
Raffaelli ricorda ancora bene l’incontro con Nyerere.
Un uomo straordinario. Lo incontrai a casa sua: una dimora semplice, con un solo poliziotto di guardia. Fu una lezione incredibile. Era una persona che aveva sbagliato tante cose ma che aveva saputo cercare una strada originale per l’Africa. Io gli spiegai che volevo concentrare la mia politica in Africa australe, perché lì l’intervento italiano poteva avere una duplice valenza, di sostegno economico e di supporto alla lotta contro l’apartheid. Lui mi incoraggiò ad aiutare questi paesi senza chiedere loro di entrare nel campo occidentale. “Se li aiutate entreranno nel vostro campo”, diceva. “E poi cosa volete: cosa sono in russi? Americani senza soldi”. Un modo per sottolineare l’atteggiamento imperialista, un po’ razzista, che caratterizzava le due superpotenze.
La fine dello scontro globale tra Stati Uniti e Russia apre una fase di grandi speranze per il continente africano.

Accordi di pace in Mozambico (Roma 1992). Raffaelli tra Joaquim Chissano (a destra) e Afonso Dhlakama (a sinistra)
Sono anche gli anni della sua esperienza di rappresentante del governo italiano nel processo di pace in Mozambico. Li ricorda così, Raffaelli:
Abbiamo potuto fare la pace perché tutti i fattori che giocavano a favore della guerra sono venuti meno. Lo scontro tra ovest ed est non esisteva più. Per porre fine a un conflitto è necessario trovare una risposta anche ai problemi di contesto, regionali, che ci sono sempre. Io ho due esperienze di conflict resolution. Il Mozambico, di successo, e la Somalia. In Somalia le cose vanno ancora malissimo proprio perché non esiste la possibilità di fare la pace in un solo paese, ma bisogna sempre intervenire anche sul contesto.
La caduta del muro di Berlino significa la fine dell’obbligo di schierarsi e porta all’avvio di processi di democratizzazione, seppur parziali, e a un reale sviluppo. Un processo che in alcune aree si interrompe dopo l’11 settembre. Alla reazione americana, con la guerra globale al terrorismo, segue lo sviluppo di focolai di estremismo islamico.
Delle conseguenze della lotta globale al terrorismo, Raffaelli fa esperienza durante il suo incarico di inviato speciale del governo italiano nel Corno d’Africa, tra il 2003 e il 2008.
Io conosco l’esempio della Somalia, che è paradigmatico per gli altri paesi. Nel 1991 lo stato cadde e gli unici a portare supporto alla popolazione in termini di sanità ed educazione furono le charities islamiche. Questo creò un consenso sociale a favore dell’islam politico. Di lì a poco nacquero le corti islamiche, perché, come in fisica, anche in politica i vuoti vengono riempiti.
C’è bisogno di un ordine locale.
La popolazione accettò le corti non per la religione ma perché portarono legge e ordine, riunificando Mogadiscio e riconnettendo il tessuto clanico.
Viene così a crearsi una corte islamica per ognuno degli undici clan somali, con una forza armata incaricata di portare ordine nell’area di competenza. Di fronte a questo sforzo di coordinamento, gli americani armano i signori della guerra locali contro le corti, perché in queste ci sono degli elementi di Al Qaida.
Ma si tratta di un elemento marginale. Quando Raffaelli arriva, primo europeo, a Mogadiscio, dopo la presa delle corti, si trova di fronte un panorama composito: le corti avevano associato donne, businessmen e la diaspora tornata per investire.
Lottai per far capire nel mondo occidentale che l’evoluzione di questo fenomeno sarebbe dipesa dal modo in cui avremmo interloquito con loro. La parte moderata avrebbe potuto prevalere. Ma aver trattato la questione in termini di sicurezza ha permesso invece ai terroristi di imporsi. È una storia che si ripete in tutto il continente: si pensi al Mali o ancora a Boko Haram, che inizialmente nacque per difendere i musulmani emarginati e solo dopo diventò militare in un contesto di escalation violenta.
La narrazione dei media italiani e internazionali, nella maggior parte dei casi, non è in grado di cogliere la complessità della situazione africana attuale.
Mentre per un periodo è prevalsa una narrazione dell’Africa come continente povero, spesso accompagnata da un senso di colpa occidentale, che si traduceva a volte in un atteggiamento caritatevole – un modo di raccontare le cose che non mi è mai piaciuto – ora ci troviamo di fronte a una lettura opposta, con l’Africa che è identificata come fonte di guai come terrorismo, immigrazione incontrollata e traffico di droghe,
lamenta Raffaelli, facendo appello a un racconto più obiettivo, in grado di cogliere le varie sfaccettature.
L’Africa è una terra ricca di opportunità, non solo in termini di risorse minerarie, riserve d’acqua non utilizzate e terreni agricoli ancora da sfruttare, ma costituisce anche un grande mercato per il futuro. Per non parlare poi del grande fattore demografico: mentre in Italia la popolazione invecchia e decresce, in Africa la popolazione giovane cresce, fuori controllo sì, ma si tratta di un enorme capitale umano.
Un continente al bivio.
Le condizioni per lo sviluppo economico ci sono.
Per esempio, da qualche anno gli investimenti diretti dall’estero e quelli della diaspora superano i cosiddetti aiuti allo sviluppo. In particolare, gli investimenti della diaspora, tre volte superiori agli aiuti allo sviluppo, giocano un ruolo decisivo per far avanzare il continente africano.
Esiste ormai una classe media africana. A fronte di a una popolazione di più di un miliardo di persone, di queste ben trecentomila sono classe media. Il che significa che esiste il potenziale per un mercato interno.
Non c’è sviluppo senza mercato interno – sostiene Raffaelli – Ci sono stati africani che crescono dell’8, 10 per cento all’anno. Ma il vero salto l’Africa lo farà solo quando si creeranno mercati subregionali e poi, infine, un mercato continentale. Questa cosa è stata capita, tanto che da poco l’Unione africana ha deciso di creare un mercato comune continentale. È un processo che richiede tempo. Ci si sta ispirando anche al modello del mercato comune dell’Unione europea.
La chiave di volta sono le infrastrutture.
Perché le imprese delocalizzano, ad esempio, in Romania e non in Africa, dove il costo del lavoro è più basso? Perché mancano le infrastrutture. Al continente servono porti, strade, reti di comunicazione. Ovvero tutto ciò che può rendere possibile un mercato unico africano e porre le basi per la moltiplicazione degli investimenti,
Chi può aiutare l’Africa fornendole i capitali necessari per realizzare la rete infrastrutturale di cui ha bisogno?
Gli Stati Uniti no di sicuro, perché guardano all’Africa solo in termini di lotta al terrorismo.
La Cina è l’attore decisivo.
Secondo Raffaelli,
noi siamo abituati a pensare alla Cina come una potenza che va in Africa per estrarre le materie prime, petrolio in testa, per sostenere i propri tassi di sviluppo. Ma non è più così. La Cina fa ormai progetti integrati. Sono loro, ad esempio, che hanno investito per riabilitare la ferrovia che collega Addis Abeba a Gibuti, aprendo il porto a Gibuti e mettendoci la loro prima base militare in Africa. In Etiopia, ancora, hanno portato l’esperienza delle zone economiche speciali, motore dello sviluppo cinese vent’anni fa. Ci sono ormai ben diciannove zone economiche speciali fatte dal governo etiopico insieme ai cinesi.
I cinesi stanno creando posti di lavoro locali, non solo in settori temporanei, come le costruzioni, ma – restando sul caso etiope – stanno costruendo imprese che lavorano nel tessile, nel campo delle pelli, delle scarpe e dell’assemblaggio di parti delle macchine.
Pescano nelle varie scuole di formazione che si vanno creando o li formano loro. Su quattrocento dipendenti di ognuna di queste fabbriche, ci sono trenta tecnici cinesi espatriati, mentre il resto è manodopera locale.
C’è una condizionalità per quanto riguarda i diritti umani?
Assolutamente no. Questo, oltre alla minore burocrazia, rende appetibile per i governi locali fare accordi con i cinesi e non con gli europei. Anche se, però, quando si passa a cose “più raffinate”, come le zone economiche speciali, cominciano a formarsi elementi di organizzazione sindacale. Anche in Europa fu così all’inizio della rivoluzione industriale.
Spostando il discorso al tema della cooperazione, Raffaelli spiega che
il salto di qualità si fa quando lo sviluppo è autopromosso.
Fa l’esempio di Amref, organizzazione sanitaria non profit in Africa, per la quale è presidente della sezione italiana da otto anni.
Amref mi piace perché i progetti li sceglie e li implementa la popolazione locale. Le Amref europee raccolgono fondi, monitorano i progetti, ma l’implementazione è fatta dagli africani. Questo assicura che i progetti sono voluti dalle popolazioni locali, contribuisce a formare la classe dirigente e, soprattutto, crea valore aggiunto, perché dà al personale locale una capacità tecnica ma anche una formazione che permette di sentirsi cittadini e quindi soggetti politici.
C’è una frase nel discorso politico sull’immigrazione che provoca profonda irritazione nel mondo di sinistra o, almeno, in una parte di esso. È “aiutiamoli a casa loro”, cavallo di battaglia dell’attuale ministro dell’Interno, ma anche mantra del centrosinistra di governo. Perché questa formula scatena strali di indignazione? Non è quello che l’Italia ha sempre fatto in anni di cooperazione allo sviluppo?
Raffaelli racconta che
pochi sanno che aiutiamoli a casa loro è uno slogan che abbiamo inventato noi, uno slogan di Amref di sette anni fa. Aiutiamoli a casa loro si può interpretare in diversi modi. L’emigrazione deve diventare una possibilità, non un obbligo o una forzatura.
I toni nei confronti del mondo della sinistra e umanitario sono critici.
Sono due anni che dico che la sinistra e il mondo umanitario sbagliano a focalizzare tutto sul salvataggio in mare. È una cosa eticamente doverosa, ma se ci si concentra solo su questo si dimentica il prima e il dopo, ovvero sul perché la gente arriva e cosa farne quando sono qui. Non sono d’accordo con i vari Padre Alex Zanotelli e Gino Strada che dicono che il centrosinistra ha aperto la strada alla destra. Minniti aveva impostato la cosa in modo giusto, andava incalzato.
Come?
Minniti ha fatto bene a chiedere alle ong di accettare il controllo della polizia, ma anche la guardia costiera doveva essere controllata nello stesso modo. L’accordo con i libici era giusto, ma ci voleva anche la possibilità di entrare nei campi. E in questa direzione si stava andando, sebbene in maniera ancora imprecisa, con le Nazioni Unite che cominciavano a entrare in venti campi su trentasette. Campi che sono sempre esistiti ma per i quali prima non si indignava nessuno.
E poi, ancora,
bisognava incalzare sull’accoglienza fatta in Italia, perché se c’è ancora la Bossi-Fini la colpa è anche di chi nella sinistra non ha fatto nulla per impegnarsi a cambiarla.
Il vero problema di cui il ministro Salvini non ha ancora cominciato a occuparsi sono i cinquecentomila irregolari presenti sul nostro territorio, che non possono essere mandati a casa.
Raffaelli insiste che
quando arriva qualcuno che riesce a parlare alla pancia della gente in maniera efficace, non si può parlare solo al cuore. Bisogna parlare al cuore e al cervello, all’elemento umanitario e a quello razionale. Questo messaggio non passa perché finora il fenomeno migratorio è stato gestito in maniera sbagliata. L’immigrazione incontrollata devasta prima di tutto l’Africa: pensi che ci sono più medici del Botswana a Londra che in Botswana! Vanno creati canali legali per chi vuole venire, come un visto di nove mesi per venire a cercare il lavoro. E se dopo nove mesi uno lo trova, lo si riaccompagna a casa. Ma il tutto deve accadere in maniera legale. Chi è qui deve fare lavori socialmente utili finché la sua situazione non si è chiarita o deve essere integrato in processi di formazione per le imprese che sono disposti a inserirlo.
La vergogna di Salvini è che capitalizza sullo scontro tra gli ultimi e i penultimi della società. A Roma, per esempio, ci sono 370 mila immigrati, concentrarti nei quartieri dove vive un totale di un milione di romani. Quartieri disagiati, dove mancano i servizi sociali, e dove il rapporto effettivo tra italiani e migranti è di uno a tre.
Ultimi e penultimi non vanno messi in competizione, ma vanno date risposte differenziate e adeguate a entrambi. Sugli alloggi, ad esempio, bisogna fare in modo che gli ultimi non occupino le case dei penultimi. Andrebbe introdotta un’agenzia per gestire queste politiche, che sono complessive,
conclude Raffaelli.
Mercoledì 17 ottobre, alle ore 18
MARIO RAFFAELLI sarà ospite di MAC, Micromega Arte e Cultura
intervistato dai giornalisti Guido Moltedo e Mario Gazzeri
sui temi affrontati in questa conversazione
San Marco 2758
Campo San Maurizio
Venezia, Italia 30124

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1 commento
bravo matteo, lettura molto utile, la faccio girare in fbk ed anche tra tesserati e simpatizzanti nonesi del PD