Gli effetti sociali ed economici della crisi di questi anni hanno brutalmente spazzato via l’illusione che ha accompagnato il dire e il fare delle forze politiche che in vario modo in Europa e nel mondo hanno inteso porsi, in questi dieci e più anni, come punto di riferimento e rappresentanza del lavoro: la convinzione che, magari con qualche correttivo, la globalizzazione e in genere il progresso tecnologico avrebbero comunque generato una condizione migliore per tutti.
Il venir meno di tale assunto ha intaccato in modo profondo il rapporto tra tali forze e il mondo del lavoro stesso, che non solo non si sente rappresentato, ma nemmeno tutelato nei diritti essenziali.
Le prospettive future, in cui è prevedibile che la globalizzazione e le tecnologie saranno sempre più il motore di profonde e inedite trasformazioni, impongono di cambiare radicalmente pagina.
Non solo non c’è stato beneficio per tutti, ma le disuguaglianze sono aumentate in maniera intollerabile. Abbiamo assistito all’espulsione dal sistema produttivo di una parte consistente di lavoratori, via via privati di ogni tutela fino alla soglia – e oltre – dell’indigenza. Il cosiddetto lavoro povero, con sempre meno diritti e regole, ha generato dei poveri veri. Il “futuro dei giovani” è diventato sempre più una beffarda frase fatta di fronte a un presente precario e un avvenire – pensionistico e di vita in generale – rispetto al quale i giovani cominciano a dire “meglio non pensarci”. Infine, sono aumentati gli anziani soli e non autosufficienti.
Quello che ci consegnano questi anni di crisi è una società in cui insicurezza, precarietà e impossibilità di programmare la propria vita tendono a diventare la norma.
In questa situazione s’innesta la presenza dei migranti: non l’emergenza, che non c’è, ma che rischia di essere percepita e fomentata come ricerca del nemico responsabile di mali le cui cause sono, però, altrove e più complesse. Ma in chi sopporta quei mali la voglia di discorsi complessi è venuta meno.
Nel mercato del lavoro i migranti sono indubbiamente, e da più parti lo si dice da tempo, una presenza indispensabile in una serie di lavori in cui l’offerta non trova risposta, per quantità e qualità, nei “vecchi” italiani: agricoltura, edilizia, oltre al fenomeno diffuso ormai da molti anni del badantato.
La cronaca di questi mesi ci ha mostrato le condizioni di vero e proprio schiavismo in cui, soprattutto in agricoltura ma non solo, i lavoratori stranieri lavorano e muoiono. Ci ha anche mostrato episodi di razzismo e di violenza motivati dal grido “ci portano via risorse e lavoro”. Quando l’assenza di regole e di tutele diventa la norma, anche l’illegalità – il caporalato, i furgoni stipati di nuovi schiavi – può aspirare a diventare norma e fomentare la guerra tra poveri. Un salario minimo dignitoso, orari e condizioni di lavoro più umane, diritti per nuovi e vecchi italiani: è questa l’unica strada per fermare questa orribile guerra, per contrastare gli avversari, quelli veri.
Anche il lavoro più qualificato, d’altra parte, non ha trovato in questi anni risposte soddisfacenti a domande che le trasformazioni in atto rendevano sempre più urgenti e che chiedevano più qualità, più partecipazione, più conoscenze e controllo sui processi di innovazione. Chiedevano, anche, di mettere più in valore la persona nel processo lavorativo, a partire dell’uso del tempo.
Tali processi economici, sociali e politici hanno indebolito le rappresentanze sociali, che si trovano ora di fronte al difficile compito di costruire e avviare iniziative unificanti in una situazione in cui la politica, ormai da troppi anni, colpisce il loro ruolo e toglie loro legittimità. Questo, per quanto riguarda il centrosinistra, è stato in parte il frutto delle illusioni sui processi di globalizzazione, che non facevano vedere la forbice delle disuguaglianze che questi processi aprivano e che rendevano le rappresentanze sociali non un ostacolo al nuovo, ma una presenza indispensabile. E ha significato, purtroppo, segare il ramo su cui si era seduti.
Tra le proposte di questi anni per contrastare le tendenze in atto attraverso nuovi strumenti, il reddito di cittadinanza ha avuto e ha molto spazio e rilievo.
La proposta ha diverse origini e diverse declinazioni. A partire da quella che considera che una parte di cittadini, anche a seguito dell’impatto dello sviluppo tecnologico sul mercato del lavoro nel futuro, andrà sempre e comunque assistita con questo istituto, per arrivare a quella che vuole individuare una serie di strumenti diversi e in parte complementari per avviare e accompagnare l’uscita dalla situazione di indigenza.
Le prime forme di sperimentazione del reddito di inserimento si muovono in questa seconda direzione ed è sicuramente necessario che siano approfondite ed elaborate dalle rappresentanze sindacali, fino a farle diventare una propria proposta.
C’è, nel merito, un punto importante, direi dirimente, che rimanda alla concezione stessa del lavoro e della dignità del cittadino. Il problema non è tanto la durata del contributo, totale o parziale, dello Stato al cittadino. Il contributo può essere a tempo breve o anche avere una durata lunga, ma occorre che corrisponda a un servizio alla comunità. Tale servizio potrà avvenire sotto l’aspetto di percorsi formativi ma anche di veri e propri lavori come, ad esempio, i lavori di manutenzione delle città che diversi sindaci propongono.
Esiste, ne sono consapevole, la facile obiezione che riguarda l’esperienza non positiva dei lavori socialmente utili negli anni ’90. Che però era segnata sin dall’inizio da situazioni e necessità particolari e, soprattutto, calata dall’alto. Se pensiamo alla stagione precedente dei primi anni ’80 si può individuare un altro segno (pensiamo alla riconversione di una parte del settore chimico) e non si può archiviarla come mero assistenzialismo.
In ogni caso la situazione attuale, molto diversa, vede una domanda che proviene da larghi strati della società: una domanda che va ascoltata, interpretata e che richiede una risposta incisiva. E una risposta incisiva, per essere tale nella situazione data, deve essere frutto di un programma complesso di lungo respiro. È questa la grande sfida. Occorre allora valutare tutti gli strumenti da usare e sapere che è necessario intervenire in più direzioni.
La credibilità di tale proposta si misura però, in primo luogo, con la questione delle risorse disponibili. Se non può essere (come non può essere) una misura episodica ma strutturale, strutturale dev’essere lo strumento per reperire le risorse adeguate. E, se uno strumento è strutturale, non può essere neutro. Non può esserlo mai, ma a maggior ragione nell’attuale situazione sociale, caratterizzata, oltre che da un aumento dell’indigenza e della povertà, da una divaricazione crescente delle diseguaglianze e da un indebolimento del reddito di molta parte dei cosiddetti ceti produttivi e del ceto medio, tra cui il lavoro dipendente.
Senza entrare nel pericolosamente confuso dibattito politico su questi temi, è evidente che una misura credibile di reddito di inclusione o di cittadinanza si intreccia in primo luogo con le politiche fiscali. Molte sono state le proposte in questi mesi, ma mi pare si parli di tutto meno che di forme efficaci di lotta all’evasione fiscale e della necessità di prendere almeno in esame lo strumento della patrimoniale.
Per quanto riguarda la lotta all’evasione, è vero che proporre la copertura finanziaria di qualsiasi provvedimento solo attraverso di essa rischia ormai di apparire irrealistico, anche per la questione dei tempi di cui avrebbero bisogno le risorse necessarie per entrare nelle casse dello stato. Vero. Ma tra questo e dare segnali contrari (quando va bene pare che il contrasto all’evasione non sia una priorità) c’è una bella differenza. Una proposta sul reddito di cittadinanza o di inclusione che comprendesse anche, al punto delle risorse, non un generico richiamo, ma un piano circostanziato su evasione ed elusione fiscale, sarebbe un segnale molto importante per questo paese.
Per quanto riguarda la patrimoniale, parola che ormai appare impronunciabile, credo occorra, da parte di chi pensa che le diseguaglianze siano ormai intollerabili e che occorra intervenire anche sulla base del rafforzamento del principio costituzionale della progressività della tassazione, costruire una proposta equilibrata. Una proposta che non sia la vendetta sui ricchi – o una parte di essi, che qualcuno sembra voler “dare in pasto” a una rabbia che, come dicevo, ha ragioni forti e complesse che è molto pericoloso voler rendere semplici – ma una chiamata di responsabilità e solidarietà. Quale terreno migliore per riprendere il tema della coesione sociale – che credo sia evidente è urgente riprendere – di quello del reddito di inclusione o di cittadinanza?
Un altro tema che le trasformazioni indotte dalla globalizzazione e, ancor più, dai processi di innovazione tecnologica rendono urgente affrontare attiene alla qualità del lavoro e alla centralità della persona che lavora. Per questo occorre fare della formazione permanente un elemento stabile di realizzazione della persona per la lavoratrice e il lavoratore, e uno strumento efficace nella competizione internazionale per l’impresa. Un secondo punto, collegato a questo e non meno importante, è come consentire e favorire la gestione del lavoro da parte di chi lavora, a partire dai tempi e dall’orario.
Non solo l’impresa, ma anche lavoratrici e lavoratori sono portatori di una loro domanda di flessibilità: è un punto decisivo delle politiche del lavoro nel futuro. Ci sono su questi temi atti recenti e importanti: pensiamo all’accordo sull’orario realizzato alcuni mesi fa in Germania, la cui estensione potrebbe dare significative risposte; pensiamo al tema, che è per la prima volta centrale e inequivocabile nell’accordo Cgil Cisl Uil Confindustria, della partecipazione o – meglio e più chiaro – della codeterminazione. Se si avrà la forza e la convinzione di applicarlo potrà dare molto al ruolo della persona che lavora, nel sistema produttivo e nella società.
È chiaro che questa nuova strada si può percorrere se si abbandona in modo netto quella che ha visto troppo spesso le trasformazioni del mondo del lavoro accompagnate da caduta di certezze su diritti e tutele, producendo zone d’ombra che hanno sempre più frammentato e svalorizzato il lavoro, “povero” e qualificato. La carta dei Diritti della Cgil questo vuole contrastare, attraverso proposte per una soglia di diritti uguali per tutti che si confronta con le trasformazioni di questi anni. Significa, certo, anche affrontare il tema delicato delle tutele crescenti: si pensi alla questione dell’estensione dell’articolo 18 a termine, eventualmente, di un percorso definito e concordato. Che le tutele siano estese a tutti e crescenti, però. Non, com’è stato fatto con risultati devastanti dal governo Renzi, tutele calanti.
Per sostenere questa non facile battaglia, in questa fase politica difficile per le forze sociali, dove si moltiplicano i tentativi di eliminare ogni luogo di intermediazione, si avverte ancora di più la necessità di una legge di rappresentanza che recepisca l’accordo Cgil Cisl Uil Confindustria. È importante per i sindacati (anche noi siamo eletti nelle Rsu) e lo è forse ancor di più per le parti datoriali, in evidente crisi di identità.
Il tempo per una nuova piattaforma e per nuove regole non è molto.

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