Non è un macabro giallo. Un reality dell’orrore. È molto di più. È l’avvisaglia di una crisi interna al Regno Sa’ūd che sembrava essere stata risolta con la scelta del giovane e ambizioso, fin troppo, Mohammed bin Salman a erede al trono. Un caso politico. Le cui ricadute potrebbero determinare inimmaginabili, fino a qualche tempo fa, cambiamenti interni a regimi dinastici che sembravano, come quello saudita, inattaccabili, inossidabili. Ma che la vicenda Khashoggi definisce come irriformabili.
Che il cinquantanovenne giornalista e dissidente saudita sia stato assassinato, ormai è cosa certa. Che il delitto sia stato commesso all’interno del consolato saudita a Istanbul, anch’esso è ormai una realtà difficilmente contestabile. Troppi gli indizi, tali da mettere in imbarazzo la stessa amministrazione Trump che ha fatto dell’alleanza con Riad un perno della sua politica mediorientale.
La domanda da porsi è un’altra. Ed essa rimanda alla reale situazione interna al regno saudita, alle dinamiche conflittuali che imperversano a palazzo e, soprattutto, ai segnali che giungono, nonostante la ferrea censura imposta dal Regno, dalla società civile saudita. Una società in fermento, tanto da spingere, diplomatici avveduti, a evocare una possibile “primavera saudita”. Ed è per questo che Jamal Khashoggi faceva paura. Non solo per quel che scriveva, ma per ciò che poteva rappresentare: un simbolo di libertà.
Khashoggi, noto tra l’altro per aver intervistato Osama bin Laden, ha lasciato lo scorso anno l’Arabia Saudita e vissuto in esilio volontario negli Stati Uniti. A maggio, dopo l’arresto nella monarchia del Golfo di un gruppo di attivisti, ha denunciato un “giro di vite che ha lasciato di stucco anche i più forti difensori del governo”. Ha criticato l’intervento saudita in Yemen, come le tensioni diplomatiche tra Riad e Ottawa.
Khashoggi aveva più volte denunciato intimidazioni, arresti e attacchi subiti da giornalisti, intellettuali e leader religiosi non allineati con la casa reale saudita. Una delle pochissime voci critiche da un paese quasi impenetrabile, in cui arresti e repressioni spesso passano in silenzio e che Jamal aveva invece sempre denunciato con coraggio.
La vicenda rischia peraltro di incrinare ulteriormente le già non ottimali relazioni tra Turchia e Arabia Saudita. Riad è sospettosa nei confronti delle mosse di Ankara, dalla cooperazione con il “nemico” Iran sul dossier siriano al sostegno all’islam politico.
In particolare, i rapporti tra Arabia Saudita e Turchia sono tesi dal giugno dello scorso anno quando è scattato il boicottaggio della monarchia del Golfo, di Bahrain, Emirati ed Egitto nei confronti del Qatar, accusato di sostenere e finanziare il terrorismo.
Le notizie dell’arrivo dall’Arabia Saudita di un apposito team per eseguire un omicidio pianificato nel consolato saudita di Istanbul sono motivo di estremo allarme, dato che Khashoggi è scomparso da quando, il 2 ottobre, è entrato all’interno di quell’edificio
dichiara la direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International Lynn Maalouf. E avverte:
Se ciò fosse vero ci troveremmo di fronte a un fatto senza precedenti. Un assassinio all’interno del consolato, che è territorio sotto la giurisdizione dell’Arabia Saudita, costituirebbe un’esecuzione extragiudiziale e seminerebbe il panico tra i difensori dei diritti umani e i dissidenti sauditi ovunque nel mondo, rendendo privo di significato il concetto della ricerca di protezione all’estero.
Maaolouf ricorda ai tanti smemorati per interesse, che
le autorità saudite usano regolarmente leggi drastiche per reprimere il dissenso all’interno del paese e in passato hanno anche arrestato dissidenti all’estero. Ma la sparizione forzata, e ora il sospetto assassinio, di un loro connazionale che aveva cercato asilo all’estero dovrebbe far suonare un campanello d’allarme. Evidentemente le autorità saudite sono disposte persino a saltare le loro profondamente carenti procedure giudiziarie pur di punire chi osa criticarle in modo pacifico.
Conclude la responsabile di Amnesty International:
La comunità internazionale deve cessare di essere così silente nei confronti della repressione della libertà d’espressione in Arabia Saudita e pretendere immediate spiegazioni dalle autorità saudite su cosa è accaduto a Jamal Khashoggi. Se le notizie risulteranno vere dovrà essere avviata subito un’indagine indipendente e i responsabili, a prescindere dal loro rango, dovranno essere portati di fronte alla giustizia.
Il caso rischia di provocare una crisi diplomatica e timori di ripercussioni economiche. Il principe ereditario, Mohammed bin Salman, deve fare i conti con aziende e media occidentali che hanno appoggiato le sue riforme ma che oggi sono fortemente preoccupati per ciò che sta emergendo sul caso Khashoggi. La Future Investment Initiative che organizza a Riad per il 23-25 ottobre una sontuosa conferenza economica, ha visto una serie di cancellazioni da parte di nomi importanti che hanno deciso che è meglio non essere associati all’Arabia Saudita in questo momento.
Ieri il fondatore del Virgin Group, sir Richard Branson ha annunciato la sospensione di due progetti in ambito turistico in Arabia Saudita e l’interruzione delle consultazioni con le autorità locali circa investimenti in progetti spaziali. Pur esprimendo “grandi speranze” per l’Arabia Saudita, Branson ha affermato che se le affermazioni sulla scomparsa di Khashoggi fossero vere
cambierebbe chiaramente la capacità di ognuno di noi in Occidente di fare affari con il governo saudita.
La società di trasporti Uber, con il suo amministratore delegato Dara Khosrowshahi, ha annunciato che non parteciperà più all’evento a meno che “non emerga una serie di fatti sostanzialmente diversi”, spiegando che è “molto turbato dalle notizie” sul caso. L’assenza di Uber sarà enormemente simbolica poiché il gigantesco fondo sovrano saudita, il Public Investment Fund (Pif), ha investito 3,5 miliardi di dollari in Uber nel 2016.
Anche i media che hanno avuto un ruolo importante nel sostenere e amplificare in comunicazione le riforme di Mohammed bin Salman stanno abbandonando l’evento di Riad. Il New York Times che faceva da promotore e il ceo di Viacom International Media Networks Bob Bakish hanno annullato la loro partecipazione. Anche celebri giornalisti invitati per l’evento non ci saranno. L’editorialista del New York Times, Andrew Ross Sorkin, ha scritto su Twitter che non sarebbe stato presente dopo essere stato
terribilmente angosciato dalla scomparsa del giornalista Jamal Khashoggi e dalle notizie sul suo omicidio.
Al centro della scena c’è Mohammed bin Salman, Mbs per la stampa internazionale. Ragiona in grande, Mbs, sia per quanto riguarda una drastica riforma economica con piani miliardari di sviluppo, sia per quanto riguarda le mire di potenza che si proiettano sull’intero quadrante mediorientale.
Da ministro della Difesa, Mohammed bin Salman ha spinto per l’intervento militare in Yemen, la linea dura nei confronti dell’Iran e il blocco nei confronti del Qatar, sospettato di finanziare i movimenti jihadisti legati ai Fratelli musulmani. Il cambiamento dà al principe Mohammed maggiore autorità nel mettere a punto il suo piano, “Vision 2030”, per ridurre la dipendenza del regno saudita dal petrolio.
Il piano prevede fra le prime mosse importanti la vendita di una partecipazione del gigante petrolifero Saudi Aramco e l’inclusione di altre attività sotto il controllo del fondo sovrano nazionale. L’obiettivo è più che ambizioso: cambiare totalmente il volto della nazione più importante del mondo arabo nei prossimi tredici anni. Cambiarlo quanto meno sul piano economico se non nell’introduzione di riforme politiche e di costume (in particolare sul ruolo delle donne nella vita pubblica e nella sfera familiare).
Lo scontro in atto, evidenziato e drammatizzato dalla brutale eliminazione di Khashoggi, ha come prospettiva strategica, per il trentaduenne erede al trono, quella di riuscire a coniugare, nella terra dell’integralismo più integralista, il wahabismo, modernità e tradizione, assumendo un profilo riformatore che non si limiti solo alla sfera dell’economia e della finanza (Mbs si è espresso per il diritto delle donne a guidare l’auto senza l’obbligo di avere un parente uomo al proprio fianco).
In questo scenario, la decisione di eliminare il giornalista dissidente sembrerebbe un atto ostile a Mbs e alla sua spinta riformatrice. Ma c’è chi contesta decisamente questa lettura.
Consentire alle donne di guidare rientra nel progetto del principe ereditario Mohammed bin Salman finalizzato alla conquista del sostegno popolare attraverso la modernizzazione di alcuni aspetti della vita quotidiana. Dare l’impressione di arrendersi alle pressioni popolari di sicuro non rientra nel suo programma. Il cambiamento deve sembrare piuttosto una concessione elargita, non un cedimento di fronte alle proteste. L’idea che Mohammed bin Salman stia aprendo il sistema saudita è una fantasia. Dopo aver messo da parte in modo spietato tutti i pretendenti al trono – suo padre, re Salman, ha 82 anni ed è malato – ha centralizzato il potere come mai in passato. L’Arabia Saudita era una monarchia tradizionale, profondamente conservatrice che ha sempre garantito alle élite la possibilità di esprimersi. Adesso è una dittatura.
rimarca su Internazionale Gwynne Dyer.
Una dittatura che potrebbe implodere dall’interno, in una faida che Mbs non ha risolto totalmente, o essere messa in discussione da un movimento, modello “onda verde” iraniana, che reclama diritti civili, politici e di costume, dei quali Jamal Khashoggi si era fatto “megafono” internazionale, divenendo molto più di un testimone scomodo: un simbolo. Da abbattere, a ogni costo.

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