Identità e cultura nella “società stadio”

"Un tema serio su cui riflettere in tempi confusi come i nostri in cui il ricorso da destra, sinistra o dal centro a definizioni approssimative e a effetto ci colloca in un’atmosfera da tifoserie con i conseguenti schieramenti di parte, irrazionali perché privi di analisi e ponderazione"
FRANCO AVICOLLI
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1Diventa ciò che sei.  L’identità è un tema insidioso per i passaggi qualificanti, necessariamente sommari, che poi finiscono per diventare luoghi comuni e retorica se usati fuori contesto. Credo, tuttavia, che sia un tema serio su cui riflettere in tempi confusi come i nostri in cui il ricorso da destra, sinistra o dal centro a definizioni approssimative e ad effetto ci colloca in un’atmosfera da stadio con i conseguenti schieramenti di parte irrazionali perché privi di analisi e ponderazione. Nazionalismo, populismo, sovranismo suonano e risuonano come a evocare fantasmi e paure, quasi a impedire la riflessione o semplicemente a nascondere problematiche e cause di cui nessuno intende prendersi la responsabilità. 

Pare opportuno, allora, recuperare l’onestà intellettuale necessaria per guardare le cose in faccia e non solo in quella forma “concreta” troppo circoscritta all’economia e alle regole “oggettive” del mercato, o a una qualche “legge dell’Europa” condizionante e fantomatica, ma anche in quel senso che riporta alla dignità mortificata, alla sete di giustizia, alla frustrazione che toglie forza all’idea di futuro. Il disagio è un dato complesso che richiede analisi più attente e un atteggiamento visionario perché la conoscenza e la cultura, intesa come messaggio laico della speranza, possano aprire un varco per uscire dalla “società stadio”.

Ed è proprio in questa prospettiva che sarebbe opportuno capire se a un certo punto del cammino ci sia stata qualche deviazione o se sia stata effettuata qualche scelta reattiva e circostanziale dal respiro corto o con contenuti difficili da gestire o addirittura impropri se messi a confronto con specificità storiche che rivelano atteggiamenti e qualità che, per diventare altro ed entrare nel grande mare della sfida globale, devono poter esprimere la loro forza e avere la maturità necessaria per non trasformarsi in semplici testimoni di decisioni e modalità di credere alla vita di altri che tolgono la soggettività che presiede a ogni libera scelta.

Vanno perciò ricercati i principi e le condizioni in cui, come dice Kant, la ragione possa operare in modo appropriato e dotarsi di regole adeguate. Si tratta di un compito enorme nel quale le élite della conoscenza e le università possono svolgere il ruolo fondamentale di entità per costruire il futuro e non solo per emettere certificati che autorizzino l’esercizio di qualche professione. E per svolgere tale compito è necessario rivisitare la storia proprio per poter disporre degli strumenti per ricostruire il “territorio”, nel senso anche figurato di spazio, di “biotopo culturale”, nel quale si possa definire un’ipotesi di futuro in cui realizzare la convivenza. 

Sarebbe utile, perciò, uno sforzo per fare chiarezza almeno per se stessi e avere l’idea di una propria appartenenza anche e solo nel chiuso del personale e che il prenderne coscienza sia un passaggio necessario per dare corpo a un qualsiasi progetto che ci porti fuori da questo magma appiccicoso e confuso. Che cosa voglio e perché, quali sono le basi in cui la mia intelligenza può operare o perché posso essere affidabile, su che cosa poggiano i miei riferimenti o anche quali sono le mie credenziali, quali i miei simili, o perché voglio questa o quest’altra cosa, sono domande che hanno a che vedere con l’identità supposta o reale, storica e futura e sono questioni che hanno bisogno di un supporto referenziale per essere degli argomenti intelligibili e credibili. 

Ognuno porta con sé la storia personale e quella del gruppo sociale e culturale di riferimento. La storia è una grande biblioteca e, insieme, una galleria di volti che definiscono e suggeriscono appartenenze dalle quali si può anche decidere di distaccarsi. L’identità ha una sua componente evocatrice, è fatta di simboli, è qualcosa che riporta a una lingua, al cibo che può essere una ragione di guerra, ma è anche un elemento fondamentale dello stare assieme e in pace, di costruire attività di lavoro e di scambio, un sistema di relazioni che trasmette forza, sicurezza, orgoglio dell’appartenenza, ma che può anche essere causa di incertezze o debolezze, di frustrazioni e di umiliazioni, e addirittura di contrapposizioni artificiose, se negato.

 La questione dell’identità è molto sentita in paesi come l’Argentina dove i suoi abitanti “discendono dalle navi” e poco negli Usa, per esempio, che si identificano con il “paese senza frontiere”, che però pare una teoria buona per  andare dovunque senza chiedere permesso. La storia conta molto per definire l’identità ed è ben diversa la sua considerazione se se ne è protagonisti, come accade per l’Europa che a torto o a ragione si considera l’origine e il centro del mondo, o oggetto come nei territori del colonialismo o per gli Usa che,  impegnati a stabilire l’ordine presente e futuro del mondo, non hanno nessun interesse a dare peso al passato dando perciò poca importanza all’identità di una storia di cui non sono protagonisti. 

Esiste un’identità culturale o anche ciò che si definisce genius loci?  Credo di sì, per la semplice ragione che è difficile separare l’identità dalla cultura, la cultura dal territorio e questo dalla sua storia. Ed è un problema di vaste aree del mondo dove milioni di donne, uomini e bambini cercano un riconoscimento per essere membri dell’umanità e di un mondo le cui gerarchie sono definite con eventi di cui sono stati incolpevole oggetto. I loro segni di riconoscimento sono “deboli”, sono la lingua, le abitudini, l’assenza di futuro e la fame che li costringono a essere migranti, popoli senza diritto. Appartengono a terre il cui destino è stato deciso da altri che hanno distrutto affinità e specificità su cui erano stati costruiti sistemi di relazione, di coesione e convivenza, e vivono nella condizione difficile “dei vinti”, uno stato di disorientamento totale in cui risulta chiaro che “l’identità logora chi non ce l’ha”, parafrasando il dire di un personaggio italiano dalla dubbia fama.

Esiste un’identità culturale italiana o francese o cinese o europea o asiatica o americana? Sicuramente sì, ma ciò non significa molto senza parametri di riferimento che definiscano una qualità specifica, distintiva nella condizione generale dello stare assieme, rappresentato in modo decisivo dalla città che dà e riceve identità. Come non tener conto, ad esempio, di questo dato in senso positivo e costruttivo? Lasciato all’uso strumentale di piccoli interessi demagogici il dato è stato usato per innalzare muri e per creare contrapposizioni, da una parte, mentre dall’altra si operava per un centralismo più vicino agli interessi partitocratrici che delle realtà territoriali.    

Il tema è oggetto di acute osservazioni di Antonio Gramsci ed è di interesse primario per gli storici impegnati a definire il filo conduttore dei processi di formazione delle comunità e dei popoli. Fra tutte, ricordo l’opera di Alberto Asor Rosa e il suo Genius italicum che scava nelle questioni che caratterizzano l’identità letteraria italiana e il suo sistema di valori che, ovviamente, va oltre la letteratura.

L’identità è una qualità dell’essere, ma è soprattutto una qualità dello stare assieme, è un valore collettivo proprio perché appartiene a un qualche progetto che finisce per costruire un sistema di convivenza fatto di convergenze e affinità, di strumenti simbolici e di comunicazione che hanno una  fondamentale origine territoriale. Non esiste un’identità originaria, ma c’è  l’origine di un progetto di convivenza che crea identità e, insieme, uno stato di pace. Questa condizione è ciò che conferma la distinzione dell’uomo tra le specie viventi, e si tratta di un atto volontario che appartiene alla possibilità della scelta e al libero arbitrio non tanto come esercizio discrezionale, ma come condizione stessa dell’essere uomo che non può però esaurirsi in un surrogato normativo.

C’è una profonda differenza tra legge e giustizia, tra medicina e salute e le norme stabiliscono in quale modo la medicina può assicurare la salute e la legge può essere giustizia. Il principio della libertà è una conquista che caratterizza l’essere uomo, nel senso che senza tale principio l’uomo non c’è, ed è questa la ragione per la quale non è possibile circoscriverlo a uno status territoriale, che in ogni caso deve rimanere uno spazio che favorisce i processi di coesione e di convivenza. L’identità non è lo stato sociale, ma un valore storico che è nello stesso tempo condizione ed effetto della convivenza e della creazione di gruppi sociali, è la kantiana ragione che permette all’intelligenza di operare. Orbene, ciò dà peso alla necessità di conoscere i contenuti e gli strumenti che tracciano il percorso che ha portato alle comunità positivamente costituite e al loro ampliamento spesso caratterizzato da conflitti, perché siano quel valore che riporta al principio di libertà che è la vera forza del suo portatore. “Diventa ciò che sei” dice acutamente all’uomo Nietzsche, parlando alla sua coscienza.

2 I popoli testimoni.  È appunto nel contesto della libertà che è possibile verificare il valore dell’identità e della sua importanza. Qual è la vera dimensione della libertà? Credo che il lapidario “Diventa ciò che sei” di Nietzsche sia un’indicazione utile per avvicinarsi al valore positivo della libertà, che è tale se è anche espressione del dialogo necessario tra il luogo e il tempo, tra la domanda che pone il luogo anche in senso figurato e il dato conoscitivo consegnato dal tempo, dalla storia in tutti i suoi sensi. La libertà è una condizione, ma è anche una domanda che riporta alle categorie della scelta e del libero arbitrio e perciò la risposta non è mai definitiva, né rassicurante. È un rischio che ha a che vedere con quello che chiede all’oracolo Liriope, la madre di Narciso, volendo sapere se il figlio sarebbe diventato vecchio. “Se non conoscerà se stesso”, è la risposta, che dice molto di quanto possano essere pericolose la coscienza e la conoscenza.

L’identità è anche dinamica perché mette in moto un meccanismo che opera nella molteplicità ontologica, in un sistema di relazioni che definisce la qualità dell’appartenere tra differenze e similitudini crescenti che possono confermare o negare l’appartenenza stessa o metterla in discussione. E ciò pone in evidenza che l’identità deve essere chiara e forte per essere nello stesso tempo volontà e espressione di libertà. Lo stare assieme suppone la libertà di deciderlo e non può nascere da un atto costrittivo o dalla diffidenza o dal timore reciproco e non può essere effetto dell’indeterminatezza. Per produrre forza, deve essere un atto di maturità, di conoscenza, di chiarezza di limiti e intenti, che sono le condizioni che permettono alla volontà e all’intelligenza di operare. 

“Diventa ciò che sei” è una proposta che invita a scavare in se stessi e in una qualche possibile origine che riporta all’appartenenza e al territorio. L’azione è tutt’altro che semplice ed è in molti casi causa di nazionalismi e di fondamentalismi fuorvianti e indotti da mestatori che agitano le acque proprio perché le cause non siano chiare, che puntano alla comunità chiusa che si forma dietro un muro. È un po’ quello che accade in Italia e in Europa in questa epoca di caduta di un sistema di convivenza che ha perduto le ragioni dello stare assieme, che la demagogia crea con i nemici “funzionali” che possono chiamarsi “Europa” o migranti che vengono a rubare lavoro e spazio e che, contemporaneamente, nascondono sicari di forze occulte che vanno combattute. E tutto ciò senza che ci sia realmente un pensiero altro che sostenga realmente percorsi alternativi che non siano quelli che ci hanno portato nella situazione in cui ci si trova. Non intendo in alcun modo sottovalutare i problemi reali, ma la strumentalizzazione superficiale e di parte di fenomeni che hanno cause profonde non solo non permetterà di trovare un qualche uscita, ma finirà per ampliare il campo del conflitto all’interno delle comunità e dei paesi che affrontano quei problemi reali con soluzioni rabberciate, senza fondamento e dal respiro corto.

I problemi della fame, dell’assenza di prospettive, della violenza e del sopruso, di condizioni anche elementari di vita sono assolutamente reali in un mondo in cui i tre quarti della popolazione hanno un accesso limitato o nessun accesso a ciò che rende la vita umana. Molti di quei problemi hanno origini lontane e su territori dove altre culture e popolazioni hanno effettuato un vero e proprio esproprio storico non solo del territorio, ma della lingua, della religione e, di conseguenza, dei modi dello stare assieme. Si tratta di tragedie che hanno lasciato il segno ma che, per quanto segnate dalla violenza, forse avrebbero potuto prendere un altro corso se incanalate in un cammino di integrazione e di convivenza.

Di ciò soffrono in grado diverso molte regioni del mondo e fra queste l’America Latina, per la quale l’antropologo Darcy Ribeiro ha coniato la locuzione dei “popoli testimoni”. La quale trova posto in tutta la narrativa latinoamericana da Cent’anni di solitudine di García Máquez a Pedro Páramo di Juan Rulfo o Rulli di tamburo per Rancas e Storia di Garabombo l’invisibile di Manuel Scorza, per citare qualche titolo. Ed è un dato storico purtroppo incontrovertibile rafforzato dalla “Dottrina Monroe”, che è stato un grande strumento degli Usa per portare avanti in tempi moderni la  colonizzazione latinoamericana ricorrendo allo spauracchio del “nemico esterno” e del comunismo. In questo modo è stata condotta un’azione indifferente alle questioni collegate all’identità che, frustrate, hanno dato ampio spazio operativo alle rivendicazioni nazionalistiche che nella maggioranza dei casi producono conflitti interni sanguinosi che calpestano il diritto alla libertà.

Le Americhe e la civiltà ripercorre appunto le fasi del processo che ha creato i “popoli testimoni”,  che sono tali perché spettatori di una storia che si realizza nel territorio nativo dove l’invasore ha portato la sua lingua, le sue credenze e i suoi progetti, con la distruzione dei segni di riconoscimento che toglie al nativo ogni possibilità di “guardarsi indietro” e di riconoscere i suoi simili. L’antropologo, che fu anche ministro e vice governatore dello Stato di Rio de Janeiro, definisce i popoli nativi dell’America “popoli testimoni”, cioè abitanti di un territorio dove i luoghi, le loro morfologie, le credenze, i simboli, i valori coesivi sono rappresentati e chiamati con una lingua che non è la loro. Ed è molto significativo che il primo passaggio dell’espropriazione sia segnato con il nome delle cose. 

Il fenomeno non è purtroppo esclusivo del passato e delle Americhe, ma è sempre più generalizzato e definito su gerarchie di mercato decise con parametri di riferimento che fanno capo alla finanza e alla lingua inglese. Per esigenze di mercato si verifica così l’avanzamento progressivo della lingua inglese sull’italiano anche nella pratica formativa delle università, cosa che indebolisce alla fonte la possibilità di raccontarsi riconoscendosi nel rapporto con un mondo che diventa impercettibilmente sempre più estraneo. Parlare l’inglese o l’italiano non è lo stesso che esprimersi in inglese o in italiano. La lingua è uno dei fattori basilari per la costruzione del modo di vivere e dello stare assieme, per scrivere la storia che è la narrazione della coscienza di sé e la sua perdita come strumento della costruzione del mondo è un passaggio che indebolisce la cultura con effetti decisivi sull’identità come valenza dello stare assieme.

Ciò accade in quella che viene definita l’epoca della tecnica in cui la funzione centrale dell’uomo è fortemente indebolita. Il tema ha occupato la riflessione di Heidegger e del suo allievo Günther Anders, poi marito di Hannah Arendt,  che in opposizione al maestro ripropose la forza della scelta e della volontà per contrastare un processo che sembrerebbe negare all’uomo il ruolo storico di faber che, ritengo, non è possibile separare dalla costruzione di un apparato culturale e identitario che è anche rassicurante per una qualche ipotesi di futuro.  

Venezia, maggio-ottobre 2018

Identità e cultura nella “società stadio” ultima modifica: 2018-10-17T15:02:53+02:00 da FRANCO AVICOLLI
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