Due introduzioni, di Federico Moro e di Carlo Rubini, precedono le testimonianze di persone che abitano a Mestre, che abitano a Venezia, o che passano il proprio tempo a spostarsi da un luogo all’altro, che frequentano l’intero spazio metropolitano. Hanno tutte in comune la percezione della città insulare e di terraferma come un corpo unico, pieno di relazioni. A cominciare dal legame di vita, di nascita e crescita, avvenute in uno dei due luoghi e continuate nell’altro.
È questo il filo che unisce le singole testimonianze, al di là dei diversi caratteri, più saggistici alcuni, più personali altri. Ma sempre espressivi di un proprio legame con la materia assunta a oggetto, una partecipazione appassionata ai luoghi e alla loro storia. Come dice Carlo Rubini in una delle due introduzioni (l’altra, di Federico Moro come si è detto, è storica), “risultano veri proprio per questo” e confermano in modo credibile e convincente la loro risposta identitaria alla geografia urbana della strana “città-arcipelago” che ne risulta.
Viene da pensare che anche chi vuole abbandonare Venezia (il referendum separatista) lo faccia per una sorta di amore a contrario. Una vendetta verso l’amante che ti ha deluso, che non ti ha corrisposto, che ti ha reso dura la vita, che non ti ha offerto un futuro.
Uno di questi soggetti in carne (poca) e ossa c’è nel libro. Non perché sia separatista (non lo è), ma disilluso sì. Disilluso in quanto veneziano e metropolitano insieme. Non a caso il suo scritto si chiama “Disillusione di un veneziano metropolitano”.
Venezia – dice – vive in una bolla, dove vi è un senso di oppressione e inadeguatezza. Manca soltanto che sia cinta da un muro fortezza (le dighe) che la isoli dal “fuori”, l’oltre, con cui non sa dialogare. Una bolla in cui vivono i veneziani, “incattiviti, delusi, sterili”. I veneziani che un tempo dialogavano con la modernità, ora non più. Ora litigano furiosamente tra di loro su tutto ciò che riguarda Venezia.
Meglio così, dice Saccà, poiché un confronto con i grandi veneziani del passato, capaci di immaginare e realizzare una “città-mondo”, sarebbe un peso impossibile da sopportare per molti di noi. Più innamorato di così. Non può neppure risolvere il suo problema con la separazione (sempre più difficile peraltro da raggiungere dopo la sentenza del Tar Veneto), essendo insieme un abitante della laguna e un terrafermicolo. Un uomo metropolitano.
C’è chi invece in questo tessuto di terra e acqua, che comprende oltre al centro storico insulare l’abitato di Mestre, il parco di San Giuliano, Campalto, Bazzera e tanto altro, ci sguazza con grande gusto perché vi incontra mille situazioni diverse; alcune interessanti, altre dolenti, altre buffe o inconsuete, sempre grazie ai mezzi pubblici che uniscono la terraferma alle isole di gronda.
Per Elisabetta Ticcò è proprio dal tram che, grazie alla discesa dal cavalcavia di San Giuliano, si spalanca generosamente davanti agli occhi attraverso le grandi finestre una immagine di laguna sui due fronti del Ponte della Libertà.
Immagine di grandissimo respiro, colle sue prime bricole, le garzette in piedi sull’acqua bassa, le barche a remi, le isole in fondo a sinistra, e, nelle giornate più limpide, la cresta delle montagne come cornice.
I mezzi pubblici (il pezzo si chiama infatti “Mezzi”), hanno permesso all’autrice una particolare percezione di un territorio che, in pochi chilometri, può contenere paesaggi, realtà, colori, gente la più diversa, accomunata da tale peculiare diversità.
Diversità minore in passato, se è vero, come ci ricorda Giorgio Crovato, che Mestre era anch’essa un po’ più città d’acqua e che in pochi anni nella prima parte dello scorso secolo perde questa sua caratteristica: vengono ridotti i canali e bonificati i corsi fluviali.
Il territorio contiene le sue storie: una festa tipicamente veneziana insulare come il Redentore celebrata a Marghera (Fabio Amadi); i ricordi del basket di Lorenzo Colovini, che finiscono con il riconoscimento della Reyer come emblema dell’unità vasta e composita di tutto un territorio, di terra e di acqua. Un esempio perfetto di assunzione identitaria unificante e metropolitana (perché la passione orogranata oltrepassa di molto i confini del Comune di Venezia). I ricordi di Franco Vianello Moro delle due (ex) società cittadine che dal 1987 si trovano insieme a sostenere le sorti di una sola formazione calcistica, il Venezia Football Club, comunità calcistica. Dei tifosi che ancor oggi nei loro cori inneggiano alla “Unione”, e al “VeneziaMestre”, nella più forte delle allusioni unitarie di una squadra, dei suoi colori, della sua storia.
Le storie di chi, come Leopoldo Pietragnoli (a cui si deve il titolo della raccolta) ha da sempre usato Mestre,
per il dentista, per Gente Veneta, per il Candiani, per il Centro Le Barche, per il Gazzettino e per il Municipio; per quegli incontri (personali o collettivi) per i quali Mestre è luogo ideale di convergenza per lagunari e terrafermieri.
Tutt’altra storia i ricordi familiari di Guido Zucconi: “Al cinema a Mestre? Ma sei diventato matto?”.
Le storie di Marina Dragotto, che conduce qui la sua formazione civile, culturale e professionale, in una città plurale in cui, se ti distrai una attimo, rischi di perderti nel dedalo di attori economici, culturali e sociali che da ogni angolo della regione, della nazione e del mondo vogliono dire la loro su come governare i grandi e piccoli temi della città (porto, aeroporto, Porto Marghera, turismo, salvaguardia).
Grande è la confusione sotto il cielo di questa città, grande il divertimento di vedere dove porterà il prossimo giro di giostra.
Le storie di Michele Mognato – qui ha imparato la politica – che vuole Venezia accolta nel novero delle città-mondo, perché da sempre si è concepita come spazio geopolitico in cui le diverse culture, tradizioni e religioni hanno dato luogo a inedite ibridazioni.
Le storie di Giovanni Montanaro, degli adolescenti di Venezia e di quelli di Mestre, che erano un po’ diversi, ma poi non tanto, e qualche scambio c’era, tra chi era di Mestre ma a scuola a Venezia, e chi era di Venezia ma studiava a Mestre, e poi il tema comune, le ragazze.
Per alcuni i muri non esistono proprio, per altri (Navarro Dina) sono da abbattere.
Chiede, Navarro Dina, giustamente, di trovare formule che consentano a tutti di partecipare a un progetto condiviso su questioni centrali: porto e grandi navi; residenza e socialità; cultura e innovazione. Un nuovo orizzonte: una “Grande Venezia” che racchiuda
una galassia di territori che possono avere anche un certo grado di indipendenza e di autonomia, ma proiettati verso un progetto idealmente unificante e per nulla divisorio.
Se è vero che, come dice Carlo Rubini nell’introduzione, il non aver dato continuità con trasporti adeguati alle due comunità ha fatto sì che gli insediamenti storici mantenessero una loro definita autonomia insediativa, dando la sensazione di essere qualcosa d’altro (Mestre in particolare) e che in qualche misura come “qualcosa d’altro” sono anche cresciuti e si sono costituiti, è anche vero che il tema principale oggi è quello della grande Venezia: un progetto unificante che nello stesso tempo conservi un certo grado di autonomia dei singoli territori. Le sensibilità espresse in questa raccolta sono una buona base per incoraggiare questa prospettiva.

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