[SHANGHAI]
Ventimila auto immatricolate ogni anno a Pechino, solo settemila a Shanghai. La differenza, nonostante la capacità economica media di Shanghai sia superiore a quella della capitale, è data dal costo della targa. In Cina infatti per comprare un’auto bisogna essere titolare di un numero di targa, che s’acquista separatamente, la prima volta che si compra il veicolo. A Pechino la tassa statale è di 400 yuan, circa cinquanta euro, invece a Shanghai siamo all’equivalente di 13.000 euro. Più del doppio del costo di un’auto di marca nazionale. Questo differenziale fa intendere come si governa oggi il paese: quasi esclusivamente attraverso la leva fiscale, dosando incentivi e pedaggi, per seguire la direzione voluta.
La capitale, con il suo record di inquinamento e di traffico paralizzato, nonostante un efficientissimo e ramificato servizio metropolitano, continua a essere lisciata e riverita. La perla dell’Asia, com’è soprannominata Shanghai, con già il cinquanta per cento del parco auto elettrico, è munta invece senza pietà.
Spiegano gli osservatori politici, ormai esplicitamente, che questa è anche la conseguenza del fatto che Shanghai, direttamente o indirettamente, ha espresso gli ultimi tre lìder maximi del paese – Jiang Zemin, Hu Jintao, e l’attuale Xi Jinping. Nelle pieghe dei rituali che governano i delicatissimi meccanismi del potere dell’impero di mezzo, questo strapotere va equilibrato in qualche modo. Anche perché, nel tradizionale antagonismo che divide le due megalopoli del paese, ormai stanno intromettendosi regioni e città che hanno
dimensioni e risorse per non fare più i questuanti, da Shenzhen a Guangzhou (Canton) alle aree centrali del paese, che stanno ormai rivaleggiando con le zone costiere.
Significativo è il segnale del turismo interno, ormai più che raddoppiato negli ultimi anni: sono duecento milioni i cinesi che negli ultimi due anni si sono aggiunti ai duecento milioni che viaggiano nel paese. E sempre più le mete si stanno diversificando: i calendari canonici, legati alle festività politiche e religiose, spingono ancora masse di contadini dal nord verso la capitale, ma l’ambizione individualista che sta rompendo le fila organizzate dalle strutture del partito per gli strati meno evoluti, porta più gente verso città ancora non note al grande pubblico occidentale, come appunto la fascia costiera orientale, come Qingdao e Nantong, oppure le città del Tibet cinese o le regioni interne a ridosso del mitico Hunan.
La gente vota con i piedi, si dice; per rimarcare una certa sempre maggiore insofferenza delle campagne rispetto alle città, avrebbe detto il presidente Mao. E forse un certo ritorno della sua leggenda, che è colta nel clima politico culturale cinese anche da parte di un visitatore superficiale, è proprio dovuto a questa rivalsa, a un’affiorare di un nuovo allarme per la corrente del fiume del capitalismo cinese.
Qualcosa sembra inquietare i ceti che ancora non hanno scollinato i limiti dell’agiatezza metropolitana. Questi strati, ancora disorientati dai primi processi di transizione dalle certezze manifatturiere alle sempre maggiori tendenze di terziarizzazione del mastodonte cinese, si chiedono ad esempio quale forma di assistenza sanitaria avranno se non è più la fabbrica la loro assicurazione sulla vita, o quali chance potranno dare ai loro figli, se le tasse scolastiche aumentano vertiginosamente. Sono questi gli effetti fiscali di una politica che deve compensare un certo rallentamento del mitico incremento annuale del Pil del paese, che ormai viaggia sotto la fatidica soglia del sette per cento.
Una conferma di questa insofferenza che pervade la classe medio-bassa, che è proprio la pancia del partito, e che il presidente segretario Xi Jinping cerca di imbrigliare rilanciando la retorica dell’umiltà cinese data dalla rivoluzione proletaria, la rintracciamo nell’amore – non piegato dall’assenza nell’iconografia del regime – della figura di Deng Xiaoping, il piccolo grande uomo che è il vero padre della nuova Cina.
La malefica bottiglietta, come i ragazzi di Tienanmen del 1989 chiamavano l’allora deus ex machina della città proibita, giocando sulla radice del fonema Deng che in cinese è appunto piccola bottiglia, non si ritrova nelle sequenze liturgiche che accolgono turisti e visitatori, con gli scioglilingua delle guide o i gadget rievocativi che ti inseguono in ogni negozio. Il rosario dei padri che vengono snocciolati raramente comprendono il vero riformatore della Cina Rossa. Si va da Mao a Xi Jinping, passando per Chou En-Lai, e a volte Jiang Zemin.
Ma il vero regista delle svolte del ’79 e del ’92 che diede una bussola univoca al gigante che dormiva, come Napoleone chiamava l’impero giallo, non è frequentemente ricordato o immortalato su magliette o calendari. Xi, come abbiamo ricordato, si è già sintonizzato su questa percezione popolare, usandola per dare una fisionomia separata alla sua leadership rispetto ai predecessori.
Ma pare di capire che non è questa questione risolvibile con campagne di propaganda. Il vero nodo riguarda la natura e qualità del welfare del sistema. Più ancora la domanda di base: chi paga l’eventuale rallentamento del miracolo cinese? E questa domanda indica come la lastra di ghiaccio su cui sta pattinando il padrone del paese, il presidente di tutto, come è indicato il leader senza scadenza, forse è meno spessa e liscia di quanto possa sembrare.

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