Due musei trevigiani – Santa Caterina (Sala Ipogea e Ala Foffano) e Ca’ Robegan – e un ambiente privato – la sede dell’Associazione TRA-Treviso Ricerca Arte a Ca’ dei Ricchi – ospitano dal 27 ottobre al 10 febbraio 2019 la mostra Re-use. Scarti, oggetti, ecologia nell’arte contemporanea, dedicata a un tipo di arte che, nell’ultimo secolo, rinnegando tutte le tecniche e le teorie precedenti, si è sviluppata, sotto diverse insegne, impiegando materiale di produzione industriale o no (in gran parte ridotto in pezzi) e rifiuti recuperati. Curata dal critico Valerio Dehò, è stata progettata e organizzata da TRA in collaborazione con il Comune di Treviso e i Musei civici, con il patrocinio di Regione Veneto e Ministero per i Beni e le Attività culturali e il sostegno di GPA Group, Penta Light Group, F/Art e Casa di cura Giovanni XXIII.
Come ci si è arrivati
Nel 1913 il pittore e scultore francese Marcel Duchamp, che allora aveva lo studio a Neuilly (in quel tempo tranquillo e aristocratico sobborgo di Parigi), in un momento di noia per la pittura fin lì praticata (meno di cinquanta dipinti) tolse dalla bicicletta la ruota anteriore, con relativa forcella, e la montò a rovescio su uno sgabello da cucina.
L’anno precedente il suo celebre Nu descendant un escalier, ispirato dalla cronofotografia e presentato all’Armory Show di New York, aveva suscitato uno scandalo peraltro da lui auspicato. Screditato dai cubisti, fu accolto con favore dai futuristi e diventò il simbolo delle nuove ricerche europee. Per lui, ventiseienne, quel suo primo assemblaggio era stato una deviazione ludica (almeno così ne parlò tempo dopo: “Mi divertivo a guardar la ruota girare, proprio come mi divertivo a guardare le fiamme che danzavano nel camino”). Ma il suo latente anarchismo lo spinse ad andare avanti; e quattro anni dopo prese un altro oggetto che non aveva alcunché a che fare con l’arte, un comune orinatoio, e lo propose alla mostra inaugurale della Society of Independent Artists di New York (della quale era uno dei fondatori), come opera intitolata Fountain, firmata con lo pseudonimo R. Mutt. La commissione di accettazione gliela rifiutò e lui, gelido, si dimise lì per lì. Ne scrisse però sulla rivista The Blind Man (edita da lui stesso) prendendo la difesa di Mr Mutt (quindi di se stesso) argomentando sulla scarsa importanza che l’avesse fatto o no con le proprie mani: contava invece che l’avesse “scelto” per l’esposizione, investendolo di una funzione ben diversa dall’originale e trasformandolo così in opera d’arte.
Le caratteristiche di quella “cosa”, che in operazioni simili future sarebbe stata ripetutamente presa come esempio, portarono a coniare il termine “ready-made”, che non fu più dimenticato.
Ne produsse diversi altri, in gran parte spariti e non pochi rifatti, anche postumi; ma uno in particolare ha toccato la fama mondiale, arrivando a entrare nella collezione privata di Yves Saint-Laurent e a essere venduto all’asta da Christie’s per 8,9 milioni di euro. È la bottiglietta di profumo Eau de violette di Rigaud, “rettificata”, cioè riadattata a funzioni diverse, nel 1921, con un’etichetta in cui compariva il suo ritratto in versione femminile, fotografato da Man Ray, con le scritte Belle Haleine – Eau de Voilette (“Voilette” da “Toilette”) e la sigla “RS” (la R rovesciata specularmente), fatta delle iniziali di “Rrose Sélavy”, altro suo memorabile e destabilizzante pseudonimo.

Il ready-made Belle Haleine Eau de Violette, 1921, e l’etichetta in una fotografia di Man Ray del 1940 (esposta)
Il “ready made” portava un rivolgimento che avrebbe reso i seguaci di quella tendenza – già vaccinati per le ridondanze dell’ondata futurista – a essere disponibili a non sentirsi più autori, bensì artefici di eventi. Trasformazione in linea con le fantasmagorie del movimento Dada (esploso a Zurigo nel 1916, in una neutralità elvetica che, stretta tra nazioni demenzialmente impegnate a distruggersi l’una con l’altra, sembrava un assurdo paradosso), e poi del Surrealismo. E nel secondo dopoguerra, con lo sviluppo di New Dada, Fluxus, Concettualismo, Body art, Land art, Pop art, Arte povera, ricerche neo-consumistiche, pseudo-filosofie pronte a confondere il bene morale con il piacere, fino alla fulminea estensione della digital art.
Nell’accezione di pura creatività, improvvisazione e niente regole, e attraverso successive evoluzioni, dal ready-made deriva la Trash art fatta di qualsiasi “cosa” utilizzabile per comporre un insieme da non classificare negativamente perché capace di interagire. Datosi che – scrive Dehò – il riuso “è una forma di rianimazione della materia” mirata ad affrontare il problema “della società del troppo di cui si occupano i sociologici, ma a indicare anche una strada in cui la creatività faccia diventare lo scarto qualcosa di positivo”. E la normalità sta nel convivere in scala universale con i criteri di illogico, impuro, libero, spontaneo, anarchico e contraddittorio, nonché nel mantenere sia i ponti tagliati con la tradizione, sia una coscienza critica sempre in guardia nei confronti della società.
Quanto pesa tutto ciò nella storia dell’arte contemporanea? Si è categoricamente proclamato che è ormai impensabile non considerarla divisa tra il prima e il dopo Duchamp; e che ciò riguarda in particolare il ruolo dell’artista, nel contesto del suo lavoro e nei rapporti con l’altrui.
Una constatazione simile, in tutta la storia, ha un precedente unico: Giotto.
La mostra
Delle ottantasette opere, per un quarto sono “courtesy” degli artisti, per il dieci per cento circa prestiti di gallerie d’arte (Studio La Città di Verona e L’Elefante di Treviso, che in contemporanea con l’evento presenta nei propri ambienti una mostra con esso coerente, sul tema della materia trasformata) e di un’associazione culturale (AGI VERONA), e la gran parte (sessantacinque per cento) proviene da collezioni private del Nord Italia.
Cinquantotto autori, nati tra il 1887 e il 1987, molti dei quali tuttora attivi e metà dei quali stranieri: francesi, britannici, tedeschi, svizzeri, nord e sud americani; solo uno proviene da ciascuno di questi paesi: Albania, Bulgaria, Cechia, Romania, Thailandia e Zimbabwe.
Quanto alle tecniche impiegate, prevalgono ovviamente gli oggetti e i materiali da recupero, poche le foto con o senza aggiunte di componenti d’altra natura, e isolato il disegno con l’aggiunta di materiali vari.
Dei grandi nomi (“inventeurs” li avrebbe definiti Duchamp) compaiono lavori minori ma di notevole interesse, e le loro inclusioni, in uno spiegamento di realtà storiche pertinenti a un panorama internazionale, danno costrutto alla rassegna.
Tre le sezioni in cui è suddivisa, intitolate Dal ready-made alla coscienza ecologica (Museo di Santa Caterina), Il riuso tra etica e memoria collettiva (Museo Ca’ Robegan) e Confluenze: arte attuale tra oggetti e merci (Ca’ dei Ricchi) e corrispondenti ai periodi in attinenza con il progredire socio-tecnologico.
Il percorso prende l’avvio dal Museo di Santa Caterina, con opere della generazione fine Ottocento inizio Novecento: Duchamp, Schwitters, Man Ray, Bellmer.

Marcel Duchamp, 1920 (rif. 1973), Frames from projected stereoscopic film, collez. Campiani, Brescia; Kurt Schwitters, 1926, Untitled, (Verba, Suisse), collage, collez. La Gala, Busca (Cuneo); Man Ray, 1921, Cadeau, Object, collez. La Gala, Busca (Cuneo)
Seguono quelle dei nati sul finire degli anni Dieci: Burri, Rotella (al quale, in contemporanea a questa mostra, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma dedica, per il centenario della nascita, una personale annunciata come “la più completa ricognizione scientifica sulla sua produzione”) e Scarpitta.

Alberto Burri, 1953-’54, Sacco, olio e vinavil su tela, collez. privata, Treviso; Mimmo Rotella, 1968, Collage, décollage su lamiera e legno, collez. Forin, Parma; Salvatore Scarpitta, 1958, Ammiraglio, tecnica mista (bende e olio), collez. privata
Diverse le mentalità degli europei del terzo decennio – Bianco, Mauri, César, Chopin, Tinguely, Hains e Arman – maturati nel clima di fiducia post-bellica per il “miracolo economico” e quelle degli americani – Rauschenberg e Kienholz – che nutriti dell’atmosfera retorica tipica in chi la guerra l’aveva vinta, se ne sentivano partecipi, pur non avendoci preso parte per l’età.

Remo Bianco, 1966, Impronta, gesso e resine su tavola, collez. Gavagnin, Torino; César, 1980, Compression, pentole di rame, collez. Forin, Parma; Arman, Beton musical, 1974, strumenti musicali e cemento, collez. Forin, Parma
Quelli dei Trenta – Manzoni, Pistoletto, Vautier, Pane, Kounellis, Christo, Spoerri – che del primo conflitto mondiale avevano percepito l’orrore, ma di seconda mano, erano già consapevoli dell’approssimarsi di una saturazione dei beni di consumo dagli esiti imprevedibili. Tra i figli dei Quaranta invece – Costa, Penone, Boltanski, Baltz, McCarthy, Lüthi – serpeggiava una certa attenzione per quel “troppo pieno” destinato a farsi comune tra gli appartenenti alle “classi” dei Cinquanta – di cui qui c’è solo Hirschhorn – e Sessanta. Non però in Muniz, la cui pittura “cromogenica” a base di caviale è simbolo sì di dovizia, ma non ostentata: né nei gioielli di gusto raffinato, ricavati da bottiglie di plastica plasmate e deformate (ma pure integre, come nella fastosa Regina inserita in apertura) di Enrica Borghi nota per le sue creazioni fashion.

Jannis Kounellis, 1983, Senza titolo, assemblage, collez. La Gala, Busca (Cuneo); Daniel Spoerri, Restaurant Spoerri 27 marzo, 1972, assemblage in teca di plexiglass, collez. Forin, Parma; Vik Muniz, Majakovsky, 2015, pittura chromogenica con caviale, collez. Forin, Parma; Arcangelo Sassolino, I.U.B.P., 2015, ruote di camion e pressa d’acciaio, collez. Forin, Parma
Non poteva mancare l’esempio di un intransigentemente fedele alle proprie formule come Damien Hirst, rappresentato da una sequenza allineata in teca di mozziconi di sigaretta, una delle tante metafore della sua ossessione della morte, che dalle sue parti sarebbe reato non applaudire.

Giovanni Albanese, 2018, Uno che fa buchi nell’acqua, ferro, trapano, acqua, courtesy dell’artista; Francesco Bocchini, 2017, L’impero dei sensi e degli applauditori sempre ciechi, meccanismo a parete, olio su lamiera di ferro, courtesy dell’artista
A Ca’ Robegan dieci artisti italiani e sette stranieri (tra i quali l’unica africana, Margaret Majo, dello Zwimbabwe) nati tra il 1950 e l’81 (anno dell’argentina Alek O). Prevale l’interesse per i residui del riciclaggio industriale e per i materiali destinati a discariche. Manipolati con la fantasia per l’assurdo della struttura su carrello con ruota singola di Giovanni Albanese (munita di maniglia, asta di guida e strumento elettrico di controllo, ma con i fili di alimentazione tagliati), concepita per manovrare un trapano destinato a fare buchi nell’acqua; o con la divertita incongruità di un “impero dei sensi e degli applauditori sempre ciechi” di Francesco Bocchini, al quale il ritratto di Elvis Presley conferisce una sacralità tanto inattaccabile da farlo scegliere come logo della mostra.

Enrica Borghi, 1996, Gioielleria, plastica plasmata e deformata, courtesy dell’artista; Damien Hirst, Dead End Jobs. 1883 (particolare), collez. La Gala-Busca (Cuneo)
Una propensione per la serialità la esprime Margaret Majo, il cui impegno nel dipingere con minuziosa cura centinaia di tappi a corona, schierandoli poi a quadrato su tavola, rivela ataviche devozioni per consuetudini della terra sudafricana cui appartiene; dove l’iterazione dà un senso di serenità, e l’abbondanza anche di nonnulla occidentali rappresenta un rassicurante sintomo di prosperità. Piuttosto neutro, al contrario, è Stuart Arends, che intervenendo creativamente su elementi di packaging si richiama alla Pop art.
Altri lavorano sul ricordo, non trascurando gli effetti, ricercati ma non sempre attraenti, impressi dal fluire del tempo sulle tracce dei residui.
Negli esterni delle sedi espositive, l’iperrealismo pop di Cracking art (movimento artistico fondato a Biella nel 1993), con i suoi coloratissimi animali di plastica riciclata, porta l’attenzione del pubblico sull’impegno sociale del gruppo per la salvaguardia della natura, presente da oltre vent’anni ovunque in Italia – piazze, enti pubblici, Biennali d’arte veneziane, musei – e di recente in ambito internazionale (Usa, Inghilterra, Francia, Cina).
Nell’insieme, prolificano le pulsioni avverse alla crescita su vasta scala di tendenze autolesive che i governi sono incapaci non di stroncare ma nemmeno contenere.
A Ca’ dei Ricchi, infine, delle suddette confluenze tra “oggetti e merci” argomentano con le loro creazioni dieci artisti nati tra il 1953 e l’87 (dei quali il più lontano arriva dalla Thailandia e due lavorano in coppia dal 2012). Per il periodo in cui s’inseriscono – l’ultimo decennio – l’eredità in base alla quale hanno modellato le loro mentalità per non sentirsi obsoleti è stata la coscienza ecologica connessa alle ricerche scientifico-tecnologiche e filosofiche, con le difficoltà di una crisi economico-finanziaria mai sanata, dei disastri dovuti al riscaldamento globale, dell’eccessiva produzione di beni d’ogni genere (metà della quale sprecata, perché mai consumata), della marea di immagini digitali scattate da sempre più tecnicamente avanzati cellulari, degli oceani stracolmi di plastica, nell’atarassia della classe politica.
Le interpretazioni di tale apparente coacervo sono varie ma in prevalenza relazionate con la memoria. The Cool Couple (Niccolò Benetton e Simone Santilli) si serve di stampa inkjet per combinare accorti artifizi fotografici a realtà storiche, con l’uso di agglomerati di plastiche e composti organici. Alek O pratica interventi artigianali su prodotti d’uso per generare installazioni aniconiche che ne cancellano l’aspetto industriale in quanto fatte plasmare dal tempo. Di Marco Bolognesi è l’installazione paesaggistica ispirata a una città immaginaria, costruita con aggeggi di plastica, legno e rete, che allude all’invecchiamento precoce di quanto si lega al progresso. Il trevigiano Marco Andrighetto, non dimentico di esperienze adolescenziali da street-artist, elabora manifesti stradali facendo emergere per sottrazione le sedimentazioni sottostanti, con esiti suggestivamente pittorici. L’inglese Jonathan Monk gioca sull’ipotesi irrealizzabile di un invito con la regina fissato per il 2039, imprimendolo su tutte le tazzine di un servizio da tè. E il thailandese Pratchaya Phinthong si presenta con un’opera perennemente riutilizzabile in allestimenti diversi, formata da un ammasso disordinato di guaine di cavetti elettrici e, raccolte in una scatola divisa in settori, dalle viti ricavate dal rame tolto dai conduttori.

Marco Andrighetto, 2018 Stele blé, cutter su carta di manifesto, courtesy dell’artista; Pratchayas Phingthong, 2012, Senza titolo, cavetti elettrici, scatola con viti di rame, collez. Agiverona; The Cool Couple, 2018, Karma Fails, Meditation Rocks, Earth, inkjet su carta fine art, courtesy dell’artista
Sufficit?
Allora, last but not least, due parole per il catalogo. Curato da Valerio Dehò ed edito da Silvana Editoriale, è stato stampato, in coerenza con la filosofia della mostra, su una carta della Cartotecnica Favini di Rossano Veneto ottenuta da un processo di riuso di sottoprodotti del cuoio che costituiscono il 25 per cento del totale nella speciale cellulosa proveniente da foreste la cui corretta gestione, con relativa tracciabilità dei prodotti derivati, è certificata da una ONG internazionale senza scopi di lucro, il Forest Stewardship Council.
Più di così…
GLI ARTISTI (PER SEZIONE)
MUSEO DI SANTA CATERINA
Alberto Burri (1915-1995), Mimmo Rotella (1918-2006), Remo Bianco (1922-1988), Fabio Mauri (1926-2009), Piero Manzoni (1933-1963), Michelangelo Pistoletto (1933), Claudio Costa (1942-1995), Giuseppe Penone (1947), Enrica Borghi (1966) e i francesi, Marcel Duchamp (1887-1968), César (1921-1998), Henri Chopin (1922-2008), Jean Tinguely (1925-1991), Raymond Hains (1926-2005), Arman (1928-2005), Ben Vautier (1935), Gina Pane (1939-1990), gli statunitensi Man Ray (1890-1976), Salvatore Scarpitta (1919-2007), Robert Rauschenberg (1925-2008), Edward Kienholz (1927-1994), Lewis Baltz (1945-2014), Paul McCarthy (1945), i tedeschi Kurt Schwitters (1887-1948) e Hans Bellmer (1902-1975), il greco Jannis Kounellis (1936-2017), i britannici Tony Cragg (1949) e Damien Hirst (1965), gli svizzeri Urs Lüthi (1947) e Thomas Hirschhorn (1957), il bulgaro Christo (1935), il romeno Daniel Spoerri (1930) e il brasiliano Vik Muniz (1961).
MUSEO CA’ ROBEGAN
Giovanni Albanese (1955), Silvano Tessarollo (1956), Antonio Riello (1958), Flavio Favelli (1967), Arcangelo Sassolino (1967), Francesco Bocchini (1969), Matteo Attruia (1973), Marco Bolognesi (1974), Craking Art (fond. 1993), il britannico Stuart Arends (1950), gli svizzeri del duo Fischli & Weiss-CE (1952 e 1946-2012), la tedesca Julia Franck (1970), l’albanese Armando Lulaj (1980), l’argentina Alek O. (1981) e, proveniente dallo Zimbabwe, Margaret Majo (1956).
CA’ DEI RICCHI
Con gli italiani Giovanni Morbin (1956), Luca Vitone (1964), Giuseppe La Spada (1974), Marco Andrighetto (1979), Michele Bazzana (1979) e il collettivo The Cool Couple (composto da Niccolò Benetton, 1986, e Simone Santilli, 1987, attivo dal 2012), il ceco Jiri Kovanda (1953), il britannico Jonathan Monk (1969), il thai Pratchaya Phitong (1974).
Nell’immagine d’apertura Enrica Borghi, Regina, 1999, bottiglie di plastica incolore, collezione Di Gennaro spa (Caivano, Napoli), azienda leader nel recupero e valorizzazione di materiale plastico.

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