C’è un curioso punto di tangenza tra il dibattito congressuale che si sta sviluppando nel Pd e le tesi con cui Matteo Salvini sta giustificando le scelte del proprio governo e con cui ha avviato con amplissimo anticipo la campagna elettorale per le elezioni europee di fine maggio 2019: si tratta della lettura della globalizzazione, benché il fronte sovranista e la sinistra propongano ricette antitetiche. Ricette entrambe sbagliate, perché sbagliata è la lettura della realtà.
Salvini ha avviato la campagna elettorale il 28 agosto scorso con un incontro con Viktor Orbán, premier ungherese e antesignano del sovranismo. Successivamente, il leader della Lega ha incontrato Marine Le Pen l’8 ottobre, e dieci giorni dopo ha lanciato la propria candidatura alla guida della Commissione Europea come spitzenkanditat di un fronte sovranista da costruire, ricevendo il giorno successivo l’assenso dell’estrema destra tedesca di Afd.
La tesi di fondo dei sovranisti mette sul banco degli imputati la globalizzazione, con una narrazione demagogica nei termini: la globalizzazione ha messo l’economia reale in mano alla finanza mondiale, che è solo speculativa, ed è guidata da Soros e altri personaggi del genere. Questa cupola internazionale è “mondialista” e vuole soggiogare i popoli sia sul piano economico, attraverso l’ulteriore finanziarizzazione dell’economia e la longa manu delle banche; sia sul piano culturale, imponendo il “pensiero unico”, attraverso il “politicamente corretto”, e cioè un allargamento dei diritti civili a categorie finora escluse: omosessuali, donne, minoranze di qualsiasi tipo, comprese quelle etniche, linguistiche e culturali. I nemici quindi sono sia i fondi di investimento, sia le banche, sia chi si batte per i diritti delle minoranze. Sono tutti mondialisti.

Salvini potrebbe essere il candidato alla guida della Commissione Europea per un fronte sovranista europeo nelle elezioni di maggio 2019.
Molti punti di questa narrazione hanno presa sulle fasce della popolazione più deboli economicamente e culturalmente. Spesso infatti la fragilità economica e le carenze culturali si sovrappongono nei gruppi sociali più esposti delle nostre società post ideologiche, in cui non ci sono più partiti, sindacati, corpi intermedi capaci di promuovere una crescita culturale dei propri associati. Un operaio la cui fabbrica ha chiuso durante la terribile crisi 2008-2012, piombato nella precarietà o nella povertà, vive come una concorrenza la presenza nel suo stesso quartiere delle minoranze etniche degli immigrati, ed è quindi soddisfatto se si nega a tale minoranza l’acquisto di nuovi diritti (dallo ius soli al reddito di cittadinanza). Non c’è più un partito che gli dica che il suo “nemico di classe” reale è il ricco, favorito dall’attuale sistema fiscale, né un sindacato che spieghi che è l’evasore a togliergli le risorse del welfare. Anche l’idea delle barriere doganali in chiave anti-mondialista appare coerente con questa narrazione, perché la barriera dà l’idea di proteggere da ciò che entra nel nostro paese (merci, immigrati e idee mondialiste) e non dà l’idea di impedire che esca dal nostro paese ciò che produciamo (come accade oggi all’Italia che è il quinto esportatore a livello globale).
Se dunque la globalizzazione è il male, che si incarna nella finanziarizzazione dell’economia e nella mondializzazione, ha una sua coerenza la ricetta di Salvini, Orbán e Le Pen di disarticolare sia le sedi multilaterali sia l’Unione europea e l’Euro (tralascio qui i sospetti di chi sostiene che i Salvini d’Europa siano banalmente finanziati da Putin e rispondano a Mosca, un po’ come il Pci negli anni Cinquanta). Per certi versi è la stessa illusione restauratrice che portò nel 1815 i sovrani europei riunitisi a Vienna nel celebre Congresso: tornare all’assolutismo precedente alla Rivoluzione francese, fingendo che la borghesia non fosse la classe trainante in quasi tutte le nazioni dell’epoca. Un’illusione, appunto, all’insegna del pensiero magico, assai simile a quello che oggi stanno vivendo ampie fasce della popolazione europea.
Le ricette della sinistra e anche quelle che stanno emergendo dal dibattito congressuale del Pd sono antitetiche, a cominciare dall’esigenza di rafforzare l’Unione Europea, semmai spingendo verso una maggiore integrazione nell’area Euro, nelle politiche fiscali e del welfare. Eppure in buona parte è uguale la lettura della globalizzazione. Cito tre recenti interventi del segretario del Pd, Maurizio Martina, del candidato al congresso Dem Nicola Zingaretti e di Massimo D’Alema, in un suo interessante contributo il 20 ottobre su Huffington Post.
Martina, il 28 settembre scorso ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, ha sostenuto che il centrosinistra ha perso le elezioni perché negli ultimi vent’anni ha avuto “troppa fiducia verso la globalizzazione”, sperando che essa, con le liberalizzazioni, avrebbe allargato il benessere. Invece essa ha portato nelle nostre società “un aumento delle diseguaglianze”.

Per Nicola Zingaretti “la globalizzazione non ha fatto altro che allargare le diseguaglianze della nostra società”.
La lettura data da Nicola Zingaretti il 14 ottobre, all’iniziativa “Piazza Grande” per lanciare la propria candidatura, è stata identica:
la globalizzazione non ha fatto altro che allargare le diseguaglianze della nostra società [il che dimostra che la] subalternità della sinistra negli ultimi vent’anni al liberismo [è stata sbagliata].
La sua ricetta, sintetizzata con il sintagma di “economia giusta” si basa su due assi: “crescere, e avere l’ossessione per il superamento delle diseguaglianze”, attraverso la redistribuzione.
Il 20 ottobre, Massimo D’Alema (apprezzabile il suo sforzo costruttivo, evitando polemiche col Pd e con Renzi) ha espresso idee simili: le forze progressiste europee e Usa hanno cercato di “temperare” il liberismo, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti:
la crisi finanziaria e poi economica non è stata solo l’effetto del fallimento della pretesa autoregolazione dei mercati, ma il punto di arrivo di un processo sociale segnato dalla crescita delle diseguaglianze, dall’impoverimento delle classi medie, dalla precarizzazione e svalorizzazione del lavoro, mentre la ricchezza finanziaria si concentrava in gruppi sempre più ristretti. L’enorme disparità di ricchezza e opportunità finisce per logorare non solo la coesione sociale ma la base stessa della democrazia. Noi viviamo, a partire dal 2008, una lunga e logorante crisi. La crisi della globalizzazione neoliberista e dell’egemonia della cultura dominante che ha segnato questo periodo, senza che riesca ad affermarsi una nuova visione del mondo e dello sviluppo.
Siamo sicuri che sia corretta questa analisi? Davvero assistiamo alla “crisi della globalizzazione”? In molti paesi d’Europa e in Nord America la maggior parte della popolazione risponderebbe forse di sì, ma nel resto del mondo la risposta sarebbe negativa. Dal 1999 (l’anno del vertice di Seattle che ha dato vita al Wto e alla globalizzazione) a oggi il 25 per cento del pil mondiale (cioè della ricchezza prodotta) si è trasferito dai paesi del G7 ai paesi emergenti, specie asiatici, Cina, India e Corea del Sud in testa; ma anche in Brasile, Sudafrica, Messico e in misura minore in altri paesi, dal Cile al Ghana. In questi paesi la classe media non si è impoverita, anzi si sta formando e sta crescendo numericamente, economicamente e culturalmente: in Cina si parla di trecento milioni di persone appartenenti all’emergente classe media, e altrettanti in India. Anche nelle altre “Tigri asiatiche” vale questo discorso, e perfino in paesi come Vietnam e Bangladesh il fenomeno è rilevante. Le diseguaglianze non aumentano, ma semmai si assottigliano.
Questo crescente spostamento di produzione manufatturiera dai vecchi paesi industrializzati a quelli emergenti è un passo ulteriore del lungo processo di decolonizzazione iniziato con le guerre d’indipendenza negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Se non capiamo che la globalizzazione non riguarda solo noi ma tutto il mondo, daremo una lettura sbagliata e delle proposte altrettanto sbagliate. A livello globale la vecchia diseguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri è diminuita; la ricchezza prodotta da alcuni dei vecchi paesi ricchi è diminuita e si è distribuita al loro interno in maniera diseguale. Zingaretti ha detto che la sua “economia giusta” ha come primo asse la crescita; il punto è: come crescere? Quale è il “posto” dell’Italia in questo mondo dopo i mutamenti irreversibili degli ultimi vent’anni? Forse si pensa che le ex colonie, gli ex paesi sottosviluppati tornino tali e noi riprendiamo a produrre merci a basso valore aggiunto e con basso costo della mano d’opera?

Linea di produzione di NASSA, uno dei maggiori gruppi bangladesi (Foto Musamir Azad).
La sinistra italiana e il pensiero cattolico-democratico, cioè le due culture politiche principali che hanno dato vita al Pd, si sono sempre impegnate per il superamento del divario tra nazioni ricche e nazioni povere sin dagli anni Sessanta del Novecento e per superare a tutti gli effetti il colonialismo. Ora che quel processo si sta compiendo lo vogliono forse mettere in discussione? Un sovranismo di sinistra? Sarebbe paradossale.
L’altro errore di lettura del fenomeno è confondere la globalizzazione, portata avanti all’insegna di convinzioni liberali, con l’impostazione liberista. Secondo questa ideologia tutti i fenomeni si autoregolamentano in maniera efficiente: dalle società ai mercati, dai mercati rionali di frutta e verdura sino a quelli finanziari. Di qui la deregolamentazione di questi ultimi, che ha portato alla cartolarizzazione della finanza, cioè alla nascita di prodotti finanziari derivati, sempre più distanti dall’economia reale, ideati per riuscire a vendere il rischio in cambio di interessi elevati. I famosi subprime che hanno innescato la crisi finanziaria mondiale del 2008 ne sono la quintessenza; ma molti di noi, andando alla propria filiale in banca, si sono sentiti proporre prodotti “interessanti” che davano interessi al dieci per cento o più, mentre il pil dei nostri paesi cresceva al due.
Anche l’altro grande fenomeno che ha destabilizzato le opinioni pubbliche europee, il forte aumento dell’immigrazione dall’Africa, riceve dalla sinistra italiana una lettura sbagliata proprio alla luce della errata analisi della globalizzazione. Tralascio qui il fatto che il fenomeno migratorio non riguarda solo l’Europa, visto che anche paesi di partenza di molti migranti, come la Nigeria o il Marocco, sono a loro volta meta di milioni di migranti provenienti dai paesi limitrofi (nei mesi scorsi Rabat ha dovuto varare una sanatoria per gli immigrati).
Oltre a questo aspetto, non secondario, non si tiene conto che i paesi di provenienza della maggior parte degli immigrati economici africani (al netto dei profughi che fuggono da guerre o dittature feroci) sono esattamente quelli non coinvolti dalla globalizzazione, che sono rimasti ai margini dei nuovi flussi finanziari. Questi stati favoriscono l’emigrazione dei propri cittadini perché essi, grazie alle rimesse, fanno confluire nel paese valuta pregiata (euro, sterlina, ecc); per tutti i paesi africani le rimesse in valuta costituiscono percentuali a due cifre di pil, e più il paese è povero ed escluso dai flussi della globalizzazione più la percentuale sale. Questi paesi sarebbero ben felici di essere coinvolti nella globalizzazione, non ne sono affatto vittime.
Bene – mi si obietterà – queste sono belle parole. Ma in Italia la musica è diversa. Le diseguaglianze sono cresciute sia a livello sociale che a livello geografico, fra centro e periferia, tra Nord e Sud. Tanto è vero che alle politiche del 4 marzo il M5S ha stravinto con la proposta del reddito di cittadinanza esattamente nelle zone (periferie e Mezzogiorno) dove l’aumento delle diseguaglianze ha prodotto effetti più devastanti. Questo è tutto vero. Ma domandiamoci se le cause di questa triste realtà non dipendano da problematiche tipicamente italiane, estranee alla globalizzazione. E con onestà dobbiamo dare una risposta positiva a questa domanda.
Il divario tra Mezzogiorno e Centro-Nord non è conseguenza della globalizzazione. Le mafie che tengono sotto scacco intere regioni italiane, allontanando investimenti e voglia di fare impresa, sono una realtà storica. L’ancora bassa produttività in determinati settori produttivi è un fenomeno che ci trasciniamo dagli anni Ottanta. Il fatto che l’Italia sia assente in settori produttivi strategici, come l’elettronica di consumo, dove negli anni Sessanta e Settanta era tra i protagonisti, non è dipeso dalla globalizzazione bensì dalla decisione politica presa agli inizi degli anni Settanta di non introdurre anche in Italia le trasmissioni televisive a colori, il che ha messo fuori gioco la nostra forte industria degli apparecchi televisivi, che poi ha trascinato con sé nella crisi l’intera industria elettronica. La bassa capitalizzazione delle nostre imprese, con conseguente difficoltà a fare ricerca e innovazione, non nasce per colpa dei cinesi. Per non parlare degli alti costi della burocrazia, della lentezza della giustizia civile, la corruzione, l’elevata evasione fiscale, ecc.
Infine, questa demonizzazione della globalizzazione fa capire che la sinistra non si è ancora attrezzata culturalmente per capire la nuova rivoluzione industriale che stiamo attraversando a causa delle tecnologie digitali. Anche in presenza di dazi e tariffe, i medesimi prodotti saranno comunque sfornati dalle industrie attraverso processi completamente diversi, con tecnologie nuove, che renderanno obsoleti alcuni mestieri e alcune competenze. Chissà, magari tra cinque anni le imprese italiane non cercheranno più fresatori perché esisteranno macchine che svolgono per intero la fresatura, e avranno bisogno semmai di un tecnico in grado di usarle. E che farà un fresatore di cinquant’anni la cui impresa comprerà questa nuovo macchinario? La sinistra si limiterà ad accusare i cinesi, il Wto, il Fmi e “l’ordoliberismo” delle politiche Ue (espressione che sento molto a sinistra…), o sarà capace di proporre da subito un investimento in formazione nelle nuove tecnologie per tutti i lavoratori italiani? Le professioni ordinistiche (come ad esempio giornalisti e avvocati) sono obbligate per legge alla formazione continua: è impensabile che il resto dei lavoratori italiani non lo siano. Eppure ci sono degli interessanti esperimenti di contrattazione che introducono questo elemento.
Dalle forze progressiste, che non siano subalterne culturalmente alle destre, mi aspetto che sappiano avanzare proposte radicali in grado di far superare all’Italia i suoi storici mali e di affrontare le nuove sfide; che sappiano anche prendere coscienza delle nuove “lotte di classe”, dove i nuovi padroni sono per esempio le grandi aziende oligopoliste che trattano i big data a livello planetario senza pagare un centesimo di tasse; che nel concerto delle nazioni si battano per l’integrazione europea, per la pace e la cooperazione tra i popoli.
Certo, prima producevamo scarpe a basso costo, oggi impossibile vista la concorrenza di Cina, Vietnam, Indonesia, ecc. Ma qualcuno crede davvero che avremmo potuto per sempre tenere le ex colonie fuori dal sistema manifatturiero mondiale, costringendole a rimanere solo produttori agricoli e di materie prime e acquirenti dei nostri prodotti industriali? Significherebbe dimenticare che la storia ha una sua forza, e che dopo la restaurazione del Congresso di Vienna è arrivata comunque la rivoluzione borghese in tutte le nazioni europee nel 1848.

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