In Cina fa capolino la società post-industriale

La trasformazione produttiva sta mutando anche il panorama sociale. E compare un primo ceto terziario, che comincia a guidare il processo di svezzamento della borghesia nazionale.
MICHELE MEZZA
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[DONGGUAN]
La fiera di Dongguan nel Guangdong riunisce espositori di tutto il mondo. Persino l’Italia, grazie a un supporto della Confesercenti, ha realizzato una presenza significativa, con agroalimentare, gioielli e servizi di logistica. L’Asia ovviamente in forze, trainata da un poderoso e agguerrito Vietnam, con cui i cinesi devono da tempo fare buon viso a cattivo gioco.

Da almeno cinque anni, in questa città al confine con Hong Kong e adiacente alla megalopoli di Shenzhen, la Silicon Valley cinese, le aziende di scarpe e chimiche che punteggiavano la verdissima vallata sono completamente scomparse, quasi tutte decentrate in Vietnam. Nell’area metropolitana si moltiplicano i giganteschi centri commerciali, le banche e le società di consulenza e logistica per import-export.

Significativa anche la mutazione delle presenze estere. Ai manager industriali europei che con i loro tecnici occupavano gli alberghi nei primi anni del Duemila per gestire le joint venture di calzature che si erano create, si sostituiscono oggi gruppi e società di consulenza e promozione commerciale e pubblicitaria.

In Cina si comincia a vendere la narrazione invece della manifattura. Sembra di rivedere il vecchio film dei primi anni Ottanta in Europa, quando l’offshoring delle fabbriche tedesche e italiane in Asia ed Europa dell’Est smobilitò le aree industriali nostrane.

La trasformazione produttiva muta chiaramente anche il panorama sociale. Si crea un primo ceto terziario, che comincia a guidare il processo di svezzamento della borghesia nazionale. Un processo che non ha nulla a che fare con la solita e in Europa agognata aspettativa di domanda democratica.

Paradossalmente, proprio la terziarizzazione aiuta a rafforzare e compattare l’adesione al regime, che assicura sicurezza, competitività e soprattutto identità globale. I cinesi lungo il crinale della globalizzazione stanno infatti riscoprendo la missione del paese nel pianeta, in contrapposizione con giapponesi e americani che sono i due fastidiosi interlocutori economici.

La Guangdong—Hong Kong—Macau Greater Bay Area diventerà nei prossimi anni l’area metropolitana più popolata del pianeta con una popolazione stimata di circa 50-60 milioni di persone.

Ma il superamento del modello industriale pone anche questioni strutturali come la scuola e l’assistenza. La vocazione industriale legava proprio al mondo della fabbrica i due percorsi: istruzione e previdenza.

Ora, con l’apertura delle gabbie produttive, comincia a farsi sentire una certa insoddisfazione da parte di giovani intraprendenti e globalizzati che però si trovano penalizzati da sistemi che non formano e non assistono.

Questo è un buco nero serio. Soprattutto in un’area come quella che si sta formando nel sud-ovest del paese dove l’espansione dei tessuti metropolitani, sospinta da un governo che continua a trovare il mercato immobiliare, porterà alla creazione di un’unica area urbana di circa settanta milioni di abitanti a ridosso di Hong Kong, per l’assorbimento finale dell’ex protettorato britannico. Una città nazione che sarà il motore della via della seta e si troverà a dover orchestrare un pulviscolo di bisogni e domande sociali senza avere modelli e schemi collaudati.

Solo la macchina del partito potrebbe candidarsi a essere la tecno-struttura di pianificazione e progettazione sociale. Un orizzonte che potrebbe ridare forma e ruolo alla politica nel Ventunesimo secolo: un sistema di ricomposizione e coordinamento di quello che l’economia scompone e disarticola.

E non solo per la Cina.

In Cina fa capolino la società post-industriale ultima modifica: 2018-10-27T10:30:08+02:00 da MICHELE MEZZA
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