Il dibattito precongressuale nel Pd stenta a decollare. La ragione è che non si può iniziare un serio confronto sul futuro se prima non si è data una lettura convincente della sconfitta del 4 marzo, come anche di tutte quelle che l’hanno preceduta. Il segretario reggente Maurizio Martina, nel comizio di piazza del Popolo, ha detto “abbiamo capito”, senza tuttavia spiegare meglio quel che ha compreso. Nicola Zingaretti ha riconosciuto che ampi strati popolari non si sono più sentiti difesi e rappresentati dal partito. Più drastico Marco Minniti, per il quale siamo di fronte a una “rottura sentimentale” tra il Pd e il popolo che dovrebbe rappresentare. Il perché ciò sia avvenuto resta però avvolto dalla nebbia e vani sono stati i tentativi di strappare loro un giudizio negativo sulle scelte fatte dagli ultimi governi Pd, in particolare quello a guida Renzi. Come se fosse tutto successo per un fraintendimento, per cui basta chiarirsi con le fasce più deboli della società che si può tornare come prima.
La mancanza di coraggio nell’andare a fondo nell’analisi fa venire in mente un precedente ben più importante, si parva licet componere magnis. Al XX congresso del Pcus, Nikita Kruscev pensò che per voltare pagina bastasse indicare nel culto della personalità e nella malvagità di Stalin la responsabilità di tutto quello che era accaduto nell’Urss nei decenni precedenti. Come si sa, questo approccio fece imbufalire Palmiro Togliatti, secondo il quale era necessario andare alle cause prime che avevano permesso la nascita e il perdurare del regime staliniano. Approccio che non piacque al gruppo dirigente sovietico, che non aveva nessuna voglia di spiegare perché aveva assistito silente all’eliminazione sistematica di tutti gli oppositori e aveva finto di credere a tutte le menzogne propagate per giustificare il regime di terrore instaurato da Stalin. I fatti hanno dimostrato che ad avere ragione era Togliatti e che, senza andare alla radice dei problemi, i tentativi riformatori, che Kruscev aveva avviato con sincerità, erano destinati a essere effimeri. Tant’è che dopo di lui c’è stato Breznev e gli orologi della storia sono tornati indietro.
Nicola Zingaretti, per tornare alle nostre piccole cose, ha assicurato che, con lui segretario, si tornerà al “noi”, senza più quel “io” di renziana memoria. Fatta salva la buonafede del governatore del Lazio, il fatto è che fin dalla sua fondazione il Pd è stato un partito leaderistico. È stato stravolto il sistema di elezione degli organismi dirigenti che un tempo accomunava tutti i partiti, compresi Pci, Psi e Dc. Prima il congresso eleggeva quella che oggi si chiama assemblea nazionale, ed era questa che nominava la direzione e il leader. Ora il segretario viene eletto direttamente dai militanti, e questo gli dà una legittimazione maggiore dell’assemblea nazionale e della direzione. Questo meccanismo finisce con il premiare non più una linea politica, ma il personaggio più popolare e simpatico. Tanto per rendere chiara la faccenda, Enrico Berlinguer, Bettino Craxi e Aldo Moro ben difficilmente sarebbero potuti diventare i leader dei loro partiti.
Il segretario, eletto direttamente dalla base degli iscritti e (perché questi non si montino la testa) confermato da un plebiscito popolare impropriamente chiamato “primarie”, è diventato così una sorta di principe rinascimentale dal potere assoluto. Per la verità, il segretario del Pd, così come quei principi, deve poi vedersela con un certo numero di vassalli, la cui fedeltà è indispensabile per rimanere in sella, ma questo problema si risolve con accordi separati.
Al momento della sua fondazione, qualcuno propose che si abolissero anche le tessere di partito, così da avere una struttura ancora più smart.
Insomma, la mitica “base” è stata ridotta a qualcosa di marginale, piccolo retaggio del ’900, mentre tutto il resto era proiettato verso un radioso futuro a base di talk show, Facebook e Twitter. Se un lavoratore sente proprio l’insopprimibile esigenza di iscriversi, gli basta collegarsi al sito del partito e con pochi clic può avere la sua tessera; poi non gli resta che attendere il prossimo congresso per la scelta del leader.
Stessa sorte è toccata agli organismi dirigenti. I componenti dell’assemblea nazionale (il vecchio comitato centrale) e della direzione, centinaia di persone nominate solo perché presenti nelle liste a sostegno di questo o quel candidato alla segreteria nazionale, e spesso illustri sconosciuti, sono stati ridotti a numeri, senza nessun peso reale nelle decisioni del partito. D’altra parte, quegli organismi intermedi sono stati resi pletorici proprio perché non dovevano contare nulla.
È questo che ha permesso l’uomo solo al comando.
Nonostante tutto ciò, il tema della struttura del partito, della sua organizzazione, è assente o quasi nel dibattito precongressuale. Un po’ tutti lamentano l’assenza di canali che facciano arrivare al vertice del partito gli umori e le opinioni dei territori, ma poi questo problema non si traduce in una proposta di cambiamento della forma partito. Resta in primo piano l’assillo di individuare un possibile nuovo leader, come se ciò bastasse a imprimere una radicale svolta alla linea politica fin qui seguita.
Solo un partito che si strutturi in modo da essere quell’intellettuale collettivo di gramsciana memoria può sperare di elaborare una strategia per il cambiamento della società in cui si possano riconoscere ampi strati della società e di far crescere e selezionare dirigenti capaci di rappresentarla. Un lavoro lungo e faticoso, ma da intraprendere nella consapevolezza che non sarà la trovata di un esperto di marketing a fare il miracolo.
Immagini tratte da @PdCerviM7 (Circolo F. Cervi, Milano)

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