È insolito associare Venezia e l’architettura contemporanea: forse perché Venezia e il contemporaneo sembrano formare inevitabilmente un ossimoro. Eppure l’interesse per questa lettura o visione della città è crescente: lo dimostrano la quantità e la qualità delle monografie uscite negli ultimissimi anni. Si tratta però di studi posteriori a una guida particolare a cui, nel 2013, lavorano gli architetti Clemens F. Kusch e Anabel Gelhaar, che esce nel 2014 e che, dopo soli quattro anni, giunge alla sua seconda edizione aggiornata, pubblicata in ben cinque lingue (tedesco, italiano, inglese, russo e francese). Si tratta di “Guida all’architettura – Venezia”, edita da A DOM Publishers, la cui peculiarità è svelata solo nel sottotitolo: “Realizzazioni e progetti dal 1950”.
Kusch e Gelhaar, ex studenti Iuav divenuti negli anni cittadini e architetti del mondo, con una particolare predilezione per Venezia, dove oggi vivono e lavorano, vi si dedicano a seguito del convegno “Venezia e l’architettura moderna” – svoltosi qualche anno fa all’Ateneo Veneto – nel corso del quale emerge il fatto che non esiste una guida dell’architettura moderna di Venezia.
La verità è che c’è una bibliografia sull’architettura veneziana di tutte le epoche davvero sterminata [spiega Kusch, che incontriamo assieme a Gelhaar nel suo studio, vicino a Campo San Polo] mentre gli ultimi venti-trent’anni non sono così documentati e nemmeno analizzati. Mettere questo limite temporale ci ha permesso di limitare il numero di progetti presi in considerazione, anche se va chiarito subito che il nostro intento non è mai stato quello di essere esaustivi, ma di proporre una scelta di progetti realizzati e non.
Un’altra motivazione che ci ha spinto a partire dal 1950 [specifica Gelhaar] è che ci ha dato la possibilità di interagire con quasi tutti i progettisti o con i loro studi ancora attivi, fatta eccezione chiaramente per Carlo Scarpa. E questa è stata una grandissima fonte di dialogo con la contemporaneità e sulla contemporaneità, e chiaramente un’occasione formidabile per reperire i materiali.
La Guida ha una struttura particolare: propone nove itinerari tematici, tra cui uno dedicato alla Terraferma e uno ai “Progetti irrealizzati ed effimeri”.
Questo perché fa parte di una grande collana di guide sull’architettura contemporanea in diverse città del mondo [spiega Gelhaar] che sono tutte, o quasi, strutturate così. Ma è anche vero che l’idea ci è piaciuta moltissimo. Il volume è stato pensato per studenti, o architetti, o semplicemente persone interessate all’architettura che sono già venute a Venezia e vogliono conoscerne aspetti meno noti. E dato che alcune cose di architettura contemporanea sono difficili da trovare, ecco che l’impostazione per itinerari si è rivelata particolarmente adatta.
Si tratta dunque di un volume alla portata di tutti: non si deve conoscere l’“architettese” per comprendere la descrizione dei progetti e questa è intrecciata a parti che tentano di spiegare, seppur brevemente, le evoluzioni e le caratteristiche di Venezia degli ultimi settant’anni.
Il moderno, a Venezia, di norma va scoperto: lo spazio a disposizione è relativamente poco per nuove costruzioni, anche se non si può dire che in città sia stato edificato poco dal 1950 a oggi. Sicuramente gli interventi edilizi contemporanei dalla portata più ampia si trovano più nelle zone “periferiche” della città, come l’area Junghans sull’isola della Giudecca, l’isola di Sacca Fisola, l’area Saffa a Cannaregio – giusto per citarne qualcuno – mentre più si va verso il centro più gli interventi diventano minuti, nascosti e all’interno, pur con le dovute eccezioni.
Il tema [sostiene Gelhaar] è il dialogo tra il nuovo e il vecchio: è questo forse l’aspetto più affascinante quando si parla di contemporaneità a Venezia.
Si tratta sempre di capire fino a dove ci si può spingere.
Penso che un progetto in grado di mostrare davvero quali sono le sfide del contemporaneo a Venezia [aggiunge Gelhaar] sia il Teatrino Grassi: quando vi si entra ci si lascia letteralmente dietro tutto il contesto. Da fuori sembra un’architettura quasi invisibile, con la conservazione perfetta delle mura del giardino che c’era prima, poi invece si passa in un nuovo mondo. Non è nemmeno più restauro, è una cosa completamente nuova.
Un nuovo nascosto, ma molto più presente di quanto non s’immagini. Dice Kusch, citando il lavoro del suo architetto veneziano preferito:
Carlo Scarpa non ha realizzato alcun edificio a Venezia, perché i suoi sono stati tutti interventi di trasformazione, parziali, fatti sull’esistente. Ma le sue modalità di intervento rimangono irripetibili e talmente legate al veneziano che nessuno è riuscito a diventare un suo erede, nemmeno il figlio. Scarpa conosce e ama profondamente la città e però non rinuncia a dire qualcosa di nuovo. Lo fa attraverso la conoscenza delle tecniche, dei materiali, delle superfici, dei dettagli: con la non ripetizione. Ogni suo progetto è unico e non applicabile ad altre occasioni.
D’altra parte Venezia ha la particolarità di avere, rispetto ad altre città europee e non solo, la parte storica totalmente staccata da quella “periferica”, con tutto quel che comporta, oggi, la riflessione sull’identità e la funzione della Terraferma veneziana.
Quello che si è costruito nella Terraferma [dice ancora Kusch] è molto di più di quanto non sia stato realizzato a Venezia, mentre il tempo non è riuscito a incidere in maniera troppo forte sulla città storica. Venezia risulta dunque abbastanza ben conservata, la consapevolezza della conservazione c’è stata. Io trovo che l’architettura moderna abbia avuto un effetto anche positivo, permettendo alla parte moderna di staccarsi completamente.
La chiacchierata con i due architetti si chiude su quel che nella Guida non c’è e avrebbero voluto che ci fosse.
A me [è l’opinione di Kusch] dispiace molto che il progetto di Frank Lloyd Wright non sia stato realizzato. Trovo che si sarebbe retto nel tempo, sarebbe stato affascinante in quella posizione particolare, non sarebbe stato uno scempio.
Gelhaar, invece, si spinge un po’ più in là:
Ma, più che altro, mi piacerebbe poter scrivere in futuro di progetti che parlano di una città tornata alla sua vita “normale”, pensati per i veneziani, luoghi pubblici per la gente che resiste.
Luoghi pubblici per gente che resiste. Un tema attualmente molto dibattuto, che però, tradotto in progettualità architettonica, non trova risposte così ovvie. A riguardo Kusch si dimostra molto pragmatico:
Io non credo molto nell’architettura partecipata, condivisa, perché possono anche scaturire soluzioni, che però sono sempre effimere. Magari si trova il modo per usare uno spazio, ma non ha la forza per resistere nel tempo. Perché nasca una buona architettura servono un buon architetto e un buon committente. Se non ci sono tutti e due non si va lontano
Kusch è convito che siano necessari progetti a lungo termine che mirino al recupero dei luoghi o meglio all’uso dei luoghi, magari di proprietà privata, non in senso turistico, ma per lo sviluppo della produzione immateriale. Non si tratta di un’idea nuova, ma Kusch ne sottolinea un aspetto fondamentale:
Non ci si rende conto di quanto all’estero ci sia la volontà di realizzare un progetto simile. Venezia è un luogo ideale per il confronto e l’incontro.
C’è poca distrazione, qui [aggiunge Anabel] è un ambiente perfetto per vivere e lavorare.