Se Trump non potrà più “fare Trump”

La vittoria dei democratici alla camera dei rappresentanti e il successo di governatori progressisti in stati come California e Colorado ridisegnano lo scenario politico americano. Il trumpismo non è messo fuori gioco ma seriamente in discussione.
GUIDO MOLTEDO
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Per Trump sarà molto più difficile, ora, continuare a “fare Trump”. Un personaggio come l’attuale presidente degli Stati Uniti ha potuto debordare oltre i confini imposti al suo ruolo perché poteva contare sull’accondiscendenza di un Congresso in entrambi i suoi rami monocolore, il rosso del Partito repubblicano, un partito senza più capi riconosciuti e senza linea se non quella dettata dai peggiori istinti reazionari della destra evangelica e dell’elettorato rurale. Il voto di martedì, con la conquista della camera dei rappresentanti da parte del Partito democratico, ripristina un equilibrio politico e istituzionale tra Congresso e Casa Bianca, come ha dichiarato a caldo Nancy Pelosi, probabile nuova speaker della House:

Non è solo una vittoria dei democratici, è la vittoria delle regole costituzionali, dei controlli sull’amministrazione Trump.

Trump ingabbiato nelle regole e dalle regole, è difficile immaginarlo. Scopriremo un altro personaggio, meno tweet incendiari e più gravitas presidenziale, meno improvvisazioni istrioniche e più ponderazione, meno insulti verso gli avversari e più rispetto dell’opposizione, meno parolacce verso i giornalisti e più attenzione alla misura delle parole?

La lezione delle Midterms gli impone un cambio di passo e di stile, ma l’uomo è capace di adattarsi alle nuove circostanze, al nuovo rapporto di forze?

Non ci vorrà molto per capirlo, ma indubbiamente dipenderà molto anche dal comportamento del Partito democratico, da come e da se saprà gestire questa che è una sua indubbia vittoria, un successo che vale il doppio se commisurato in rapporto al quadro di sconquasso che ha vissuto nel periodo seguito alla sconfitta pesante del 2016 e di fronte alla quale sembrava non riuscisse a trovare più la forza per reagire e riprendersi.

Gavin Newsome

E invece il Partito democratico ce l’ha fatta. In due anni tutti in salita conquista la maggioranza alla camera, che aveva perso otto anni fa, e al senato ottiene anche risultati interessanti, in una sfida davvero impossibile per la riconquista della maggioranza (che anzi vede rafforzata quella detenuta dai repubblicani). A questo successo sono da aggiungere altri di grande rilievo, come la vittoria in California di Gavin Newsome, che rileva il posto lasciato dal governatore democratico uscente Jerry Brown. È la conferma che il “Golden State” continua nella sua rotta progressista, di stato aperto e inclusivo, agli antipodi del trumpismo. Importante anche l’elezione di Jared Polis, governatore del Colorado, il primo dichiaratamente gay a ricoprire un simile incarico. Sono contrappesi che rafforzano enormemente, insieme a quelli di altri stati a guida democratica, la nuova maggioranza alla camera.

Vedremo nei prossimi giorni più in dettaglio i risultati nelle elezioni locali e statali e quelli dei numerosi referendum che si sono svolti sui temi più disparati un po’ ovunque in concomitanza con le elezioni di medio termine. I primi dati sono molto confortanti e indicano una considerevole reattività dell’America progressista al trumpismo.

Il Partito democratico deve molta della sua capacità di ripresa a una mobilitazione dal basso che, in molte realtà locali, ha significato la messa in discussione e in minoranza dei potentati che finora avevano fatto il bello e il cattivo tempo nel partito. Notevole l’affermazione di tante donne, molte delle quali molto giovani e appartenenti a minoranze, come Alexandria Ocasio Cortez a New York, l’africana americana Ayanna Pressley a Boston, l’araba americana Rashida Tlaib in Michigan, la somala americana Ilhan Omar.

Il voto femminile ha contato molto nella partecipazione fenomenale (per questo tipo di elezioni) al voto: 114 milioni di elettori, contro gli 83 delle ultime Midterms, secondo le previsioni di Nate Silver.

Un’affluenza record che conferma il valore di referendum assegnato a questa consultazione, a partire dallo stesso protagonista al centro del quesito referendario: Donald Trump.

Come si è detto, il risultato che lui saluta come un “eccezionale successo” costringe il presidente a una revisione di stile e di agenda. Siccome l’imprevedibilità è il tratto più caratteristico del personaggio, è inutile lambiccarsi in ipotesi che non siano quelle che tipicamente si formulano dopo un voto di medio termine e che riguardano qualsiasi presidente, anche uno molto peculiare come Trump. Si può prevedere, come lo stesso Trump ha lasciato capire, un rimpasto del governo, con l’uscita di ministri che The Donald non sopporta o che considera ingombranti: nella prima specie il responsabile della giustizia Jeff Sessions, nella seconda il capo del Pentagono James Mattis.

La sostituzione di Sessions deve preparare il terreno allo scontro molto duro, inevitabile, che s’aprirà sull’indagine del procuratore Mueller, sulla quale, secondo Trump, Sessions non ha fatto quanto poteva per contrastarla e farla affondare.

La sostituzione di “cane pazzo”, com’è soprannominato il generale Mattis, deve preoccupare perché, per quanto strano possa sembrare, nel team che s’occupa di politica internazionale e di sicurezza è un elemento di moderazione rispetto agli “Stranamore” Mike Pompeo, segretario di stato, e soprattutto a John Bolton, il superfalco che guida il Consiglio per la sicurezza nazionale e ha continuo accesso allo studio ovale. Se al licenziamento di “cane pazzo” s’aggiungerà quello di John Kelly, il generale dei Marines che guida il gabinetto presidenziale, significa che i militari, che finora hanno tenuto a freno le intemperanze del presidente, lasciano tutto lo spazio a guerrafondai senza inibizioni.

C’è da temere che un presidente limitato dal nuovo Congresso possa – anche questo un “classico” – spostare l’attenzione fuori del recinto domestico, con un attacco all’Iran o con iniziative aggressive in America Latina – Venezuela e Cuba – in combutta con personaggi che gli sono affini come il nuovo presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Scenario reso ancor più probabile dall’eventualità che, già nei prossimi giorni, un quadro più ponderato della situazione configuri il presidente come un’anatra zoppa. Normalmente un Congresso con un simile assetto non dovrebbe presentare un rischio del genere al presidente in carica – sono numerosissimi i precedenti di un Congresso o di uno dei suoi rami con una maggioranza diversa da quella del presidente e anche a lui molto ostile. Nel caso di Trump, sotto i riflettori di un’inchiesta giudiziaria che lo riguarda direttamente e che ha già colpito diversi suoi collaboratori, è chiaro che la possibilità di un conflitto violento con i democratici è presente, anche se, basandoci sulle prime parole di Nancy Pelosi, questo scenario non è nei piani della leadership democratica.

Beyoncé

L’opposizione democratica farà la sua parte sia per contrastare un Trump reso più vulnerabile dal voto di martedì sia per preparare il terreno in vista delle presidenziali del 2020.

È evidente che s’aprirà una fase di discussione molto accesa sulla linea d’adottare, con la componente che fa capo a Sanders galvanizzata dal voto, sia per i risultati conseguiti dai candidati di sinistra sia, più in generale, per la mobilitazione che ha consentito la grande affluenza ai seggi, ragione principale della buona perfomance democratica.

La componente centrista, che in termini di deputati e di senatori è ancora maggioritaria nei due rami del Congresso, propone – come si è detto – un’opposizione non frontale a Trump, come immaginando che d’ora in poi con The Donald sarà possibile interagire come fosse un presidente “normale”. In altre parole non intende muoversi nella direzione dell’impeachment. Bisognerà vedere che tipo di pressioni verranno dalla base più militante che vorrà sfruttare – radicalizzando lo scontro con la Casa bianca – la grande spinta costruita con questa campagna elettorale, anche in vista delle presidenziali. Perché emerga un candidato in sintonia con la sinistra, come Elizabeth Warren.

Un compromesso potrebbe essere costruito intorno a Beto O’Rourke, sconfitto di poco in Texas da Ted Cruz, ma diventato ormai una star nazionale con la sua campagna perfetta, oggi capace di costruire intorno alla sua figura una coalizione democratica in grado di battere Trump nel 2020.

Se Trump non potrà più “fare Trump” ultima modifica: 2018-11-07T10:57:42+01:00 da GUIDO MOLTEDO
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