Novembre 1918. La primavera mancata del Novecento

Il 9 novembre 1918 furono proclamate due repubbliche diverse, una parlamentare da parte di Philipp Scheidemann, SPD, e una consiliare da parte di Karl Liebknecht, assassinato un mese dopo, passata in secondo piano nella memoria collettiva. 
SUSANNA BÖHME-KUBY
Condividi
PDF

Il titolo di questa riflessione è preso a prestito dal saggio di Klaus Gietinger “November 1918. Der verpasste Frühling des 20. Jahrhunderts” che ricostruisce controcorrente le vicende postbelliche tedesche, nell’ambito della storiografia del centenario della fine della Prima Guerra mondiale.  

La data del 9 novembre è carica di significati politici diversi nella storia tedesca. Richiama alla mente la fine, nel 1918, della monarchia e l’inizio della prima repubblica; nel 1923 il fallito putsch di Hitler a Monaco; nel 1938 la cosiddetta “notte dei cristalli” ovvero l’avvìo del grande pogrom antiebraico; infine, nel 1989, la caduta del muro di Berlino.

A distanza di un secolo dalla sconfitta tedesca nel primo conflitto mondiale e dalla proclamazione della prima repubblica in Germania, a Berlino, si sottolinea per lo più l’importanza del 9 novembre 1918 come fondamento e inizio della democrazia in Germania, e sono proprio i socialdemocratici della SPD a continuare ad ascriversene il merito principale. Ma siccome la realtà è sempre più complessa di come appaia, mi sembra utile ricordare i commenti di uno dei testimoni e osservatori più acuti della Repubblica di Weimar, il giornalista e scrittore Kurt Tucholsky. Il fatto che nello stesso giorno a Berlino furono proclamate due repubbliche diverse, una parlamentare da parte del futuro ministro Philipp Scheidemann, SPD, e una consiliare da parte di Karl Liebknecht, assassinato un mese dopo sotto l’egida di un ministro della polizia della SPD, è passato in secondo piano nella memoria collettiva e la vittoria del parlamentarismo è semmai interpretata come salvezza della Germania da una temuta bolscevizzazione. 

Che la Storia sia scritta e trasmessa dai vincitori lo sapeva anche Tucholsky, che nel 1922 si rivolse a un immaginario storico del 1991:

 Lei è fermo agli anni intorno al 1914 e chiede a sé e alla storiografia: come sono andate le cose? Anzitutto voglio dirle come non sono andate. Alle porte della nostra epoca, egregio professore, là dove la strada conduce ai posteri – sulle cattedre di storia, nelle opere storiche, negli archivi: lì ai nostri tempi sedevano i rappresentanti di una classe, e badavano bene di lasciare una buona impressione di sé ai posteri. […] Sono i borghesi e i loro impiegati, i mercenari, i custodi della Borsa, il diplomatico e il professore universitario, pagato e venduto. […] Noi abbiamo un archivio del Reich, pagato con il denaro della comunità, che mente, mente, mente. Non creda a una sua sola parola, chi può scriverci è gente interessata. È davvero importante solo ciò che Lei non troverà mai negli scritti, né in tutto l`archivio: i lamenti e le lacrime di un popolo oppresso, con una buona volontà troppo grande e una forza rivoluzionaria troppo piccola.   

Nell’autunno 1918, quando la Germania esce nel modo peggiore da una guerra che non solo ha devastato le fondamenta della convivenza civile nella Germania stessa ma anche in mezza Europa, la situazione politico-sociale appare rivoluzionaria: le masse popolari stremate da guerra e fame reclamano cambiamenti profondi. Ma la loro guida politica, la socialdemocrazia tedesca, opera un altro e questa volta fatale compromesso con i vecchi poteri del Reich: ne assume la responsabilità politica garantendo in cambio il mantenimento dell’ordine capitalistico, compresa la continuità delle vecchie strutture di comando in tutte le sfere dell’amministrazione statale, della giustizia e dell’esercito. 

La rivoluzione: se rivoluzione significa soltanto crollo, allora quello c`è stato, ma non dobbiamo aspettarci che le macerie appaiano diverse dal vecchio edificio. Abbiamo patito sconfitte e fame, e i responsabili sono scappati. Il popolo è rimasto lì: gli hanno abbattuto le vecchie bandiere, ma non ne ha di nuove. 

Questo giudizio di Kurt Tucholsky è suffragato dalla testimonianza di Rosa Luxemburg in occasione del congresso di fondazione del Kommunistische Partei Deutschlands (KPD) in data 31 dicembre 1918: 

Ciò che abbiamo vissuto il 9 novembre fu per tre quarti più il crollo dell`imperialismo esistente che non la vittoria di un principio nuovo. […] Ne seguì un movimento più o meno caotico, senza chiarezza di progetto e di coscienza politica. Si era convinti che bastasse rovesciare il vecchio governo e rimpiazzarlo con uno socialista, in grado di instaurare il socialismo attraverso dei decreti. Ciò non fu che una grande illusione.

Rosa Luxemburg

Nonostante il passaggio dalla monarchia alla repubblica la continuità delle strutture di potere rimane di fatto garantito, ma segue un lungo periodo di crisi e di continui conflitti sociali. “Il disordine era endemico, la fame disperata, gli intellettuali erano demoralizzati”. Ricorda così Peter Gay quel periodo di latente guerra civile fino al 1923, che si rivelerà decisivo per tutto lo sviluppo politico successivo. Gli oppositori della giovane Repubblica di Weimar (che prese il nome dalla famosa cittadina in Turingia in cui si dovette rifugiare la Costituente davanti alle rivolte a Berlino) fanno di tutto per far fallire il nuovo odiato potere, favoriti in questo dal vecchio apparato statale e amministrativo autoritario che antepone l’etica dello stato antidemocratico alla fedeltà ai nuovi poteri repubblicani. 

L’opzione democratica espressa nella costituzione di Weimar, la più avanzata del suo tempo, viene ridimensionata prestissimo da una concreta realtà anti-repubblicana, in cui avviene sì un passaggio graduale tra vecchie e nuove élite, ma non in un quadro di rinnovamento democratico, benché la contemporanea razionalizzazione delle tramandate e per molti versi obsolete strutture autoritarie compia un reale rafforzamento della gerarchia del capitale dominante la società e lo Stato. 

Del resto, in quel momento il concetto di “democrazia” era per i tedeschi ancora privo di una concreta esperienza positiva, al pari del concetto di “politica”, che Tucholsky ricorda come ridotto ormai a mera rappresentanza delle lobby economiche:

In questo paese la politica può essere definita un`imposizione di finalità economiche conseguita per mezzo della legislazione. Da noi la politica era una questione non di ideali, ma di poltrone. Veniva dipanata e districata nei comitati regionali e contro gli operai si schieravano tutti gli altri. Dimenticato era lo spirito in base al quale si era giunti alle proposte e alle leggi […]. Si è imposta una selvaggia sopravvalutazione dell`aspetto economico.

Le sfide insite in questa modernizzazione che ormai prefigura i contorni anche del mondo odierno, ovvero la distruzione dei capisaldi tradizionali e la decadenza delle vecchie certezze, producono l’aura particolare di questo periodo, oscillante tra fascino e speranza da una parte e tra irritazione, nostalgia, incertezza e paura dall’altra. 

La parvenza emancipatoria di una nuova cultura permissiva, percepibile soprattutto nella sfera individuale, fa sì che si possa avvertire anche più fortemente il contrasto con la reale impotenza dell’individuo, per esempio laddove esso entra in conflitto con le strutture repressive dello stato. 

Nei primi anni Tucholsky spera ancora in cambiamenti strutturali insistendo nel sottolineare l’occasione storica mancata, nel 1918, per un rinnovamento anche dello spirito:

Quella del 9 novembre non è stata una rivoluzione. All`incredibile abuso di un potere assolutista non ha fatto seguito alcuna resa dei conti. […] Il governo che non aveva neppure tentato di annunciare l’inizio di un nuovo orientamento spirituale, davanti ai militari è caduto in letargo; è stato messo in guardia, ma non ha ascoltato, e il 13 marzo 1920 lo ha colpito il meritato destino.

Si riferisce al primo tentativo armato da parte delle forze reazionarie, nel marzo 1920, di sovvertire il governo della repubblica – il putsch militare dei Freikorps sotto la guida degli ufficiali Kapp e Lüttwitz – in cui si mostra l’inadempienza della Reichswehr rispetto ai propri doveri. Il suo comandante, generale Groener, rifiuta di fornire appoggio militare alla repubblica (“Reichswehr non spara sulla Reichswehr” si giustificò). E la repubblica fu salvata solo per la pronta reazione dei sindacati tedeschi, che fermano la Germania intera con uno sciopero generale, coinvolgendo dodici milioni di cittadini: l’ultimo di questa dimensione. Tucholsky fa immediatamente sue le richieste delle forze democratiche che hanno salvato il governo repubblicano, fra cui la trasformazione della Reichswehr in un esercito popolare repubblicano (Volksmiliz) e conclude: 

Se la repubblica tedesca, ridestata dal putsch militare, recupera ciò che ha mancato di fare nel novembre 1918, allora questo non sarà stato inutile.

E si rivolge direttamente ai ministri responsabili della giovane repubblica, ai socialdemocratici Gessner e Noske:

Dipende da voi. Eliminate le forze armate tedesche […] e avrete la cultura tedesca.

Ma l’auspicata svolta non si compie neanche ora e a Tucholsky non rimane che constatare:

Non c`è stata nessuna rivoluzione in Germania, piuttosto una contorivoluzione.

Il suo timore che il dopoguerra covi già una nuova guerra cresce soprattutto dopo l’elezione del vecchio Hindenburg a presidente della repubblica (1925), ma anche quando osserva dalla sua postazione di corrispondente estero a Parigi le trattative per la pace franco-tedesca. Non si fida neanche della propaganda rassicurante dello “spirito di Locarno”: 

Noi [tedeschi] non perseguiamo affatto la pace. Non è vero che amichevoli conversazioni sul lago di Ginevra elimineranno l’origine profonda di guerre future, ossia la libera economia, i confini doganali e la sovranità assoluta dello stato. I figli dei nostri uomini più noti hanno tutti la prospettiva di diventare dei militi ignoti. Per la Germania non è necessario trasformarsi in una monarchia – basta già la nostra repubblica.

[E rincara:] Non c`è alcun dubbio che la guerra revanscista – all’est come all`ovest – verrà condotta all`insegna del nero-rosso-oro. […] Non si tratta più della questione: repubblica oppure monarchia, quello è un problema di ieri. La questione è invece: imperialismo o no. E la Germania opta per l’imperialismo.

E riafferma nel 1927:

Il grave pericolo per la pace europea, ancora oggi rappresentato dalla Germania per gli elementi esplosivi che contiene, non è costituito dallo Stahlhelm [formazione paramiltare], non solo dalle forze armate. […] La dittatura di questa borghesia è totale. Però non è vero che il normale iscritto al Partito popolare tedesco o gli indifferenti abbiano ideali diversi dalla concorrenza idiota, da una sconsiderata politica di potenza, da una concezione economica infantilmente antieuropea. […] Io sono tra quanti […] considerano la democrazia costituzionale una facciata e una menzogna, e non ritengono affatto che un vuoto elmo d`acciaio sia più pericoloso di un morbido cilindro di seta.


Il riferimento al cilindro di seta quale simbolo del capitalista richiama in mente il famoso fotomontaggio di copertina del libro-bilancio della sua esperienza repubblicana, che Tucholsky compone insieme al fotografo John Heartfield nel 1928/29 in occasione del decennale della repubblica: “Deutschland, Deutschland über alles”.

Elogiato dalla stampa estera (Times, Weltwoche ecc.) come “lo scritto polemico più brillante e arguto in lingua tedesca”, il libro suscitò in patria anche aspre critiche e condanne per il presunto “vilipendio dell’inno nazionale” per mezzo dell’immagine sul frontespizio: raffigura una testa da bourgeois e militare con un copricapo tra il cilindro e l’elmo, nei colori della monarchia tedesca, nero-bianco-rosso, con un solo piccolo cenno ai colori repubblicani. Durante un ultimo viaggio di conferenze e di presentazioni del libro, che fa percorrere a Tucholsky nel 1929 quasi tutta la Germania, egli si sente più e più isolato. Si congeda nel 1930 definitivamente dalla sua patria, per ritirarsi nell’esilio svedese dove metterà fine alla sua vita nel 1935. Per lui la Repubblica di Weimar era già finita con l’inizio della sua deriva presidenziale, dal 1930 in poi.

Carl von Ossietzky, a cui Tucholsky aveva lasciato già prima la direzione della rivista Die Weltbühne constata poco dopo:

Nella situazione attuale la cosa sconvolgente non è che il fascismo vinca, ma che gli altri vi si adattino. Brüning cerca di assimilarsi a Hitler, i socialdemocratici prendono a modello Brüning. Il fascismo condiziona comunque gli argomenti e il livello.

Kurt Tucholsky a Parigi nel 1928

Già nel 1920 Tucholsky avea visto compiersi l’epilogo del mancato rinnovamento postbellico in questo impietoso quadro della società dell’epoca:

Vede, caro signore, il dramma è proprio questo, chi è andato al potere. […] Da noi invece si è affermato il metropolitano debole e logorato, gente dotata di pochissimi scrupoli, ma anche di forze relativamente scarse. […] In maggioranza sono piccoli bottegai, ai quali la congiuntura giusta ha messo in mano le merci giuste, e che non sono stati così stupidi da rifiutare. Sangue cattivo. Niente stile e soprattutto: niente forza. E ora sono loro a stabilire le regole, hanno denaro e lo spendono a piene mani. […] E quelli sono in cima, comprano quadri e riempiono i palchi. […] In fondo il denaro è proprio un’arma alla quale, a lungo andare, la società non sa resistere – e poi? E poi? Poi avremo l’imbarbarimento della Germania, e non solo a Berlino, ma ovunque. Perché naturalmente questo nuovo sangue, già logoro, nella seconda generazione sarà ancora peggio. […] Fra trent’anni avremo come élite proprio una bella società – basta vedere dove sta oggi il denaro! – ne sono sicuro.

La proiezione trentennale fino nel 1950 porta giusto al secondo dopoguerra, in quella repubblica federale dove il denaro stava ancora senza soluzione di continuità. E dove anche la politica della SPD ha continuato a presentarsi in una posizione quasi sempre subordinata all’establishment politico ed economico. Che la sua credibilità politica presso i cittadini si sia indebolita sempre più – ancora oggi, a cento anni dalla sua fatale subordinazione nella prima repubblica tedesca – non meraviglierebbe Kurt Tucholsky, che già nel 1927 aveva formulato il seguente “compito di matematica”:

Un partito socialdemocratico ha in otto anni zero successi: in quanti anni s’accorge di dover cambiare la sua politica?

Novembre 1918. La primavera mancata del Novecento ultima modifica: 2018-11-08T15:46:09+01:00 da SUSANNA BÖHME-KUBY
Iscriviti alla newsletter di ytali.
Sostienici
DONA IL TUO 5 PER MILLE A YTALI
Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE:

Lascia un commento