Democrats. Gioie e dolori di una vittoria

I risultati delle elezioni di metà mandato dovrebbero invitare i Democratici alla calma. Donald Trump ha infatti contenuto le perdite. La sottovalutazione del presidente e la retorica progressista e “resistenziale” rischiano invece di danneggiare le speranze dei democratici per le elezioni del 2020.
MARCO MICHIELI
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Ora che abbiamo qualche dato in più possiamo fare alcune riflessioni su queste elezioni di metà mandato, anche se alcune sfide non sono ancora concluse (vedi Arizona e Georgia, ma anche il riconteggio in Florida). I Democratici, con la straordinaria diversità dei suoi candidati, hanno conquistato la Camera dei Rappresentanti e posto fine a otto anni di dominio repubblicano.

Hanno molto quindi da festeggiare. Hanno costruito la loro nuova maggioranza in parte persuadendo molti elettori in circoscrizioni repubblicane che già Hillary Clinton aveva vinto nel 2016: di venticinque circoscrizioni tradizionalmente repubblicane vinte dalla Clinton, i Dems ne hanno vinte quattrodici al momento. E molte ne hanno vinte tra quelle che Trump aveva conquistato nel 2016. I Democratici hanno vinto inoltre il voto popolare di sette punti percentuali alla Camera. E hanno costruito una nuova organizzazione di partito là dove non era molto robusta (vedi il Texas, per esempio). 

Il messaggio principale delle elezioni è che una maggioranza di cittadini vuole porre dei limiti al presidente Donald Trump, che aveva trasformato queste elezioni in un referendum sulla sua persona. La Camera e il suo nuovo leader (probabilmente Nancy Pelosi) cercheranno di contrapporsi quindi a The Donald attraverso indagini parlamentari sulle sue numerose e presunte irregolarità (Russia, tasse, ecc…). È la fine in ogni caso dell’agenda politica repubblicana.

I Repubblicani però hanno mantenuto il Senato e qui hanno aumentato la distanza dai Democratici. Non solo. Se Trump come al solito esagera – e lo ha fatto nuovamente via Twitter dicendo che le elezioni di metà mandato sono state una grande vittoria –, tuttavia il risultato dovrebbe preoccupare un po’ i Democratici. In termini di comparazione storica con gli altri presidenti, Donald Trump non è andato così male: dal 1862 il partito del presidente perde le elezioni di Midterm (su 39, il partito al governo ne ha perse 35 alla Camera e 24 al Senato). In termini numerici, poi, la sconfitta dei Repubblicani non è assolutamente paragonabile alle dure sconfitte democratiche del 2010 (Obama) e del 1994 (Clinton). Risultati che non hanno impedito ai presidenti di allora di essere rieletti.

Questo fa delle elezioni del 2018 un’elezione ‘Sì, ma’: non pienamente soddisfacente ma non completamente deludente per entrambi i partiti,

come ha ricordato John F. Harris di Politico. Se si considera inoltre che la popolarità del presidente Trump è attorno al 40 per cento, anche in questo caso possiamo dire il miliardario americano ha limitato i danni: i presidenti che hanno un’approvazione sotto il 50 per cento hanno perso in media 37 seggi alla Camera contro i 14 in media quando la popolarità del presidente è sopra il 50 per cento. Trump ne ha persi 30.

Donald Trump e Nancy Pelosi

Se si guardano poi più da vicino alcuni dati, sembra che la sfida elettorale del 2020 non sarà in discesa per i Democratici. Tre dei candidati sui quali i Democratici avevano investito molto, hanno perso: Beto O’Rourke, Stacey Abrams (al momento) e Andrew Gillum (la Florida rimane uno degli stati chiave da conquistare per la Casa Bianca).

Anche il dato sul voto popolare, che i Democratici mettono in risalto, ha molte ombre. Ce lo conferma anche Aaron Blake del Washington Post che ha messo in evidenza alcune criticità legate al sistema elettorale della California, che in parte distorcono il risultato. Vero è che la marcia dei democratici alla conquista delle periferie urbane e semi-urbane è riuscita, nonostante il gerrymandering dei repubblicani e l’attacco al diritti di voto in alcuni stati chiave.

Tuttavia il voto popolare non si è trasformato in acquisizione massiccia di seggi. E in politica i numeri contano. Soprattutto se si considera che negli ultimi trent’anni ben due presidenti sono stati eletti senza aver vinto il voto popolare alle presidenziali (G.W. Bush nel 2000 e Donald Trump nel 2016). E i Repubblicani sembrano avere una grande capacità di focalizzare la propria macchina elettorale sulle sfide che contano: il collegio elettorale infatti non premia il voto popolare.

Ci sono quindi delle riflessioni da fare in vista delle elezioni presidenziali del 2020 e sulla strategia che i Democratici intendono portare avanti. I Democratici hanno costruito la propria opposizione a Trump sull’idea della “resistenza” alle scelte del presidente, convinti che l’onda blu delle elezioni di metà mandato potesse arginare le politiche della nuova amministrazione. Non c’è stata però alcuna onda blu e qualche cambiamento nel discorso pubblico dei Dem sarà necessario. Non sembra così facile sconfiggere Donal Trump, come pensavano.

Non solo. I Democratici hanno perso delle sfide sulle quali avevano investito molto, anche in termini finanziari. Alcuni commentatori hanno sottolineato soprattutto la sconfitta dell’ala progressista del partito. Secondo Kristine Tate, The Hill:

I democratici hanno perso gare cruciali dove hanno corso candidati troppo a sinistra per conquistare distretti moderati o conservatori; sono stati i democratici moderati a fare i migliori risultati, mentre la maggior parte del nucleo duro della sinistra ha perso una gara dopo l’altra. […] La sinistra credeva che le elezioni di metà mandato sarebbero state un vantaggio in vista del 2020. Da un certo punto di vista è così. Se il partito saprà virare verso il centro invece di spingersi verso la purezza ideologica.

I Democratici moderati sono state i grandi vincitori nelle circoscrizioni in bilico (swing congressional districts). Sono loro che hanno portato ventotto circoscrizioni chiave da Trump ai democratici e hanno vinto le sfide per i governatori in Michigan, Wisconsin, Kansas e Illinois.

È vero che i candidati progressisti hanno energizzato la base democratica. E di questo va loro dato merito. E non si tratta ovviamente di sminuire o non tenere conto della novità che molti di questi candidati porteranno nel Congresso, sotto molti aspetti. Tuttavia, nei mesi precedenti, si era imposta in campo democratico l’idea dello spostamento a sinistra per ottenere successi elettorali (convinzione giunta anche nel nostro paese con gli elogi a Alexandria Ocasio-Cortez, come modello per vincere le elezioni). Le elezioni di metà mandato mettono in discussione questa strategia. Anche perché dietro i candidati progressisti che hanno vinto le primarie battendo i “boss” democratici locali, la situazione è molto più complessa di quello che non si voglia far apparire (e che un articolo di David Freelander ha messo in luce, con qualche sopresa, analizzando le caratteristiche sociali degli elettori delle primarie di Ocasio-Cortez e Ayanna Pressley). 

Però, per quanto utile sia stata questa strategia, non è stata sufficiente. E si è accompagnata all’altra strategia: quella della conquista dei voti nelle circoscrizioni suburbane e rurali, attraverso candidature più moderate. Le due strategie vanno mano nella mano. 

La deputata Alexandria Ocasio-Cortez

Anche i referendum che si sono svolti forniscono indicazioni in più sulla strategia che i democratici dovrebbero perseguire, come ha sottolineato Nicholas Kristof su The New York Times:

I democratici dovrebbero guardare ai risultati dei referendum come una road map. Tre stati conservatori – Utah, Nebraska e Idaho –  hanno votato per espandere Medicaid. Altri due stati conservatori, l’Arkansas e il Missouri, hanno aumentato il salario minimo. E la Florida ha ripristinato i diritti di voto per la maggior parte delle persone che hanno completato le sentenze dopo condanne penali. Questi risultati suggeriscono un focus non sulla ‘resistenza’ in quanto tale, ma su modi pratici per migliorare la vita dei cittadini. Gli elettori indecisi sono d’accordo con molte idee progressiste, dai posti di lavoro all’assistenza sanitaria alle tasse più alte per i ricchi, ma i democratici hanno un talento farseli nemici […].

Non si tratta nemmeno di aprire una polemica sterile se i democratici debbano guardare a sinistra o al centro. I democratici vincono se sono in grado di differenziare il messaggio politico che intendono dare al paese. Per l’importanza che nei mesi scorsi si era attribuita ai candidati progressisti, le elezioni di metà mandato ci dicono che non bastano i candidati “socialisti”, che hanno vinto in circoscrizioni profondamente democratiche. E che l’idea di esportare il modello “Ocasio-Cortez” in tutti gli Stati Uniti, non è un’idea vincente in vista del 2020.

Le circoscrizioni devono aver dei candidati che sappiano ispirare ma anche interpretare i bisogni dei loro cittadini. È sufficiente guardare ai democratici che hanno corso in stati difficili. Erano moderati ma si sono riposizionati a sinistra per adeguarsi al sentimento liberal nazionale (come accaduto in Missouri e Indiana) su temi quali la sanità, la conferma del giudice Kavanaugh alla Corte suprema, sui tagli alla tasse. E hanno perso. In compenso il senatore democratico della Virginia Occidentale Joe Manchin, unico democratico a votare a favore della conferma di Kavanaugh e perciò odiato dai liberal democratici, è stato riconfermato in uno stato super-trumpiano.

E veniamo ora al 2020. Perché da oggi si apre la sfida tra i democratici in vista delle prossime elezioni presidenziali. Qualcuno ha già cominicato a muoversi (la senatrice Elizabeth Warren) e il campo dem potrebbe essere super-affollato. Le elezioni di Midterm ci forniscono alcuni spunti di riflessione sull futura lunga e difficile battaglia che porterà il Partito democratico a scegliere il candidato da opporre a The Donald.

1Donald Trump non è poi così debole, nonostante tutto quello che ha fatto e detto. Ha ancora una tribuna da cui parlare. Ha trasformato queste elezioni in un referendum su se stesso, che ha perso, ma poi non così male: ha saputo resistere e può ben dire che il Partito repubblicano senza il suo traino non avrebbe potuto arginare l’onda blu. E gli va riconosciuto di essere un leader senza pari nel suo campo. Un leader che dice cose terribili ma che sa mobilitare la sua base elettorale e che capisce al volo i sentimenti profondi di una buona parte dei suoi concittadini. Certo ha perso voti nelle aree suburbane ma non significa che non li possa riconquistare. Ha mantenuto invece una salda posizione in stati chiave per le presidenziali: Florida, Ohio, Missouri, Indiana e Iowa. È riuscito inoltre ad inserirsi nelle vicende dei Democratici: da ultimo con la telefonata a Nancy Pelosi che ha praticamente nominato come leader della maggioranza dem alla Camera, leadership da tempo contestata da molti neoeletti democratici progressisti (Pelosi è deputata da trent’anni e non particolarmente amata a livello nazionale). Oggi, infine, Trump ha un nuovo avversario alla Camera su cui scaricare i propri fallimenti legislativi. 

2Alcune possibili candidature dem per il 2020 sono a rischio perché diminuirebbero le probabilità di vittoria contro Donald Trump. Non è detto infatti che un atteggiamento duro dei Dem alla Camera e la minaccia dell’impeachment possano essere di aiuto. Anzi la polarizzazione potrebbe portare a candidature non rappresentative. Lo ha ricordato recentemente David Axelrod, lo stratega di Obama:

Abbiamo scoperto che c’è del capitale politico nella polarizzazione; c’è del capitale politico nell’incitare gli elettori. E il presidente ne è un maestro. Ma ci sono anche delle conseguenze. Siamo un paese di 330 milioni di persone, e ci sono persone là fuori le cui inclinazioni violente saranno attivate da ciò che sentono […] Una lezione che viene dalle queste elezioni è che un candidato come il senatore Elizabeth Warren potrebbe aumentare le probabilità della rielezione di Trump.

La Senatrice Elizabeth Warren

3 L’assenza di un leader conclamato e chiaro nel campo democratico può nel tempo diventare un problema e aumentare le divisioni nel partito. Nel 1994 la vittoria dei repubblicani su Bill Clinton portò alla ribalta l’architetto della riscossa, Newt Gingrich. Queste recenti elezioni, invece, non hanno creato in campo democratico una figura leader nel partito. E se si considerano alcuni recenti dati sul gradimento per i diversi possibili candidati democratici alla presidenza del 2020, molto lavoro rimane da fare. Secondo infatti un sondaggi realizzato da The Hill, alla domanda “chi vorreste fosse il candidato dem per il 2020”, sulla base di una lista che conteneva i nomi di Biden, Warren, Bernie Sanders, Cory Booker, Kamala Harris, Michael Bloomberg, Hillary Clinton, la maggior parte degli intervistati (il 30 per cento) ha risposto “nessuno di questi”.

Trump dice di sé che le persone fanno spesso l’errore di sottovalutarlo per poi rimanere sorpresi. Speriamo che i Democratici prendano sul serio le parole di Trump. Almeno questa volta.

Democrats. Gioie e dolori di una vittoria ultima modifica: 2018-11-09T20:25:53+01:00 da MARCO MICHIELI
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