La decisione di staccare la spina non è mai facile e questo spiega in parte perché i dirigenti di Mdp abbiano esitato più di otto mesi prima di arrendersi all’evidenza: la lista di Liberi e Uguali non sarebbe mai diventata un partito, ma soltanto uno dei tanti tentativi di riaggregazione della sinistra abortiti sul nascere.
Che le cose si mettevano male lo si era già capito il 5 marzo, all’indomani del risultato deludente delle politiche. LeU non era riuscita a intercettare, se non in minima parte, i voti in uscita dal Pd, né aveva attratto, per usare la metafora di Bersani, quegli elettori che da tempo si erano ritirati nel bosco.
A urne ancora calde, il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, ha creduto bene di additare subito chi riteneva responsabili del deludente risultato: Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema. Qualche giorno dopo, Fratoianni ha affinato – diciamo così – l’analisi mitigando la responsabilità dei due leader di Mdp (la colpa era “anche” loro; non tutta, “anche”), per poi sentenziare che il voto del 4 marzo aveva sancito “la chiusura, con un tonfo, del ciclo della socialdemocrazia europea”. Una bella pietra tombale per il progetto di creare un partito della sinistra europea di governo, come invece era stato dichiarato durante la campagna elettorale.
La virata di Sinistra Italiana ha subito preso corpo con una serie di iniziative in stile grillino (dall’autoriduzione degli stipendi dei parlamentari per costruire scuole nelle zone terremotate all’affitto di una nave per pattugliare il Canale di Sicilia) e con la ricerca di un dialogo con Potere al Popolo e con altre formazioni “antagoniste”, come a voler ricreare una Rifondazione comunista 2.0. Questo senza tuttavia dire che il progetto di LeU era archiviato per sempre.
È così cominciata un’estenuante trattativa, una sorta di gioco del cerino, su come andare alla costituzione del nuovo partito, durante la quale una sola cosa appariva chiara: SI non aveva nessuna intenzione di sciogliersi e andare ad un congresso vecchia maniera, in cui gli iscritti, votando, decidevano linea politica e gruppo dirigente. Pietro Grasso, leader di LeU per le elezioni in quanto personalità terza rispetto alle due principali forze che avevano dato vita alla lista, ci ha messo del suo manifestando ostilità verso un’organizzazione basata sul tesseramento ed esaltando la democrazia via web. Grasso ha fatto sue anche la netta chiusura a qualsiasi dialogo con il Pd, che ormai viene visto come irrimediabilmente passato a destra, e la diffidenza nei confronti dei dirigenti di Mdp, sospettati di voler ritornare a far parte della vecchia “ditta”. Non siamo ancora al “socialfascismo” e ai “socialtraditori”, ma poco ci manca.
A trovarsi ora in mezzo al guado è Mdp, che ha dovuto prendere atto che Sinistra Italiana ha ormai scelto di provare un altro accrocchio per le europee dell’anno prossimo, avendo già individuato il leader capace di tenerlo insieme, e cioè il sindaco di Napoli Luigi de Magistris (qualcuno prima o poi dovrà spiegarlo a Grasso). Dall’altra parte c’è un Pd refrattario a fare i conti con la sconfitta del 4 marzo e che pensa, salvo qualche flebile voce che invoca una svolta politica, che il problema sia solo quello di trovare un nuovo leader, illudendosi che la debacle non sia la conseguenza delle scelte politiche fatte e che l’allontanamento di gran parte dei ceti popolari sia stato solo il frutto di un difetto di comunicazione.
Con queste premesse, come ironizza qualcuno, il congresso non farà altro che eleggere il prossimo ex segretario del Pd, giacché appare molto improbabile che si possa ottenere un risultato decente alle prossime elezioni europee. Una nuova sconfitta farebbe venire inesorabilmente a galla, con un effetto deflagrante, quei problemi, aggravati, che non si sono voluti affrontare con un congresso vero. Ed è in questo quadro che diventerebbe inevitabile un processo di ricostruzione, su basi completamente diverse, di una sinistra popolare, riformista ed europea.
A questo appuntamento, il gruppo dirigente di Mdp voleva arrivarci con LeU, cioè con un soggetto politico che non pensava di essere autosufficiente, ma pronto a rimettersi in gioco per costruire qualcosa di nuovo e molto più grande. Da qui l’incredibile esitazione a certificare il fallimento dell’operazione LeU.
Ora, ai dirigenti di Mdp non resta che inventarsi qualcosa per tenere insieme quei militanti che avevano creduto nella scommessa, ma non è detto che si riesca a impedire un ulteriore sfilacciamento di quel poco che si è riusciti a creare nell’ultimo anno. Una brutta cosa, non tanto per Mdp, ma per tutti coloro che ancora sperano di poter avere anche in Italia una grande forza socialista capace di rappresentare gli interessi e le aspirazioni delle masse popolari.

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