Libia, il pomo della discordia tra Egitto e Turchia

Dietro il fallimento della Conferenza di Palermo c’è lo scontro tra i due paesi. Mentre Erdogan cerca di aumentare la propria influenza in territorio libico, al Sisi punta alla creazione di uno “stato-protettorato” governato attraverso il fedele Haftar.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Altro che Roma vs Parigi, tradotta in chiave interna in Sarraj contro Haftar. Questi, sono frammenti di verità. Ma marginali. Perché al centro della partita libica vi sono due altri player. Due potenze regionali. Due potenze sunnite: Egitto e Turchia. Ciò che è accaduto a Palermo, nella recentissima Conferenza per la Libia, ne è solo una riprova: il vice presidente turco che sbatte la porta e se ne va perché non invitato al minivertice informale, perché non gradito dall’uomo forte della Cirenaica, il maresciallo generale Khalifa Haftar, e dal suo protettore regionale, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, con quest’ultimo che, per dimostrare la sua alterità rispetto agli altri partner messi assieme dall’Italia, lascia la sedia vuota nella seduta plenaria, ufficiale, della Conferenza.

Schermaglie, certo, ma che indicano qualcosa di molto più sostanziale, che affonda le proprie radici nella storia, nella geopolitica, negli affari. La Libia, ancor più della Siria, è il terreno di scontro che ha come posta in gioco non solo una ridistribuzione delle risorse petrolifere ma la leadership stessa nel campo sunnita, ora che con l’affaire-Khashoggi l’ambizioso e avventato erede al trono del Regno, il principe Mohammed bin Salman, è costretto sulla difensiva.

La storia, si diceva. Magistra vitae, la cui conoscenza sarebbe utile, e tanto, per leggere gli avvenimenti dell’oggi. La Libia si identifica territorialmente con la facciata mediterranea dell’Africa settentrionale, nella sezione compresa tra il Maghreb e l’Egitto e politicamente corrisponde agli ex domini coloniali che l’Italia conquistò nel 1911 alla Turchia. Anteriormente la Libia come tale non esisteva, persino il nome divenne ufficiale solo il primo gennaio del 1934. Esistevano invece la Tripolitania e la Cirenaica, antiche regioni affacciate sul Mediterraneo e che nelle vicende storiche di questo mare (dall’epoca fenicia a quella romana, all’espansione araba e poi alla conquista ottomana) sono sempre state coinvolte. A esse fu aggiunto il Fezzan, regione interna, sahariana, conquistata dagli italiani nel 1930 e grazie alla quale il paese acquisì una conformazione territoriale più varia, più completa, e una strutturazione geopolitica più africana.

Foto di “famiglia” alla Conferenza di Palermo

Paese vasto ma per lo più desertico, la Libia ha sempre avuto i suoi territori più popolosi e storicamente vitali nelle fasce costiere mediterranee, ben delimitate al di qua e al di là del golfo della Sirte. Tuttavia, il ruolo predominante acquisito dal petrolio nell’economia mondiale ha spostato gli interessi del paese verso la zona desertica che, ricca appunto di giacimenti petroliferi, è diventata il centro nevralgico della Libia.

Dal punto di vista politico, nel 1969 la rivoluzione guidata da Muammar Gheddafi ha instaurato un regime ispirato a un socialismo arabo equidistante tra i due blocchi sovietico e americano. Dopo aver mostrato per anni la propria componente integralistica e fautrice del terrorismo e aver costretto il paese a un difficile e gravoso embargo, all’inizio del Duemila il regime di Gheddafi ha iniziato a mostrare la parte più moderata, moderna e laica, ponendosi agli occhi dell’Occidente come una delle possibili alternative alla deriva terroristica dell’islamismo.

Accenni che varrebbe la pena approfondire ulteriormente, ma che sono comunque sufficienti per rimarcare alcune verità del passato che spiegano, e molto, le difficoltà del presente. La Libia come stato unitario è stata un’invenzione del Colonnello che ha saputo dare – non solo attraverso l’esercizio della forza ma anche utilizzando i proventi petroliferi per realizzare una sorta di “welfare libico” – un’identità nazionale a un paese in cui a dominare, e a marcare l’appartenenza, erano da sempre le tribù. Nel far questo, Tripoli si è guardata attorno, e lo “sguardo” si è indirizzato verso Il Cairo.

La storia conta, eccome. Dopo l’indipendenza la Libia ha modellato il proprio sistema d’educazione su quello del vicino Egitto. L’istruzione è obbligatoria e gratuita per i ragazzi dai sei ai quindici anni di età. La scuola elementare dura sei anni e fornisce un’educazione di base. La popolazione attuale è formata da libici (57 per cento), egiziani (otto per cento), berberi (sette per cento), sudanesi (quattro per cento), tunisini (tre per cento) e altri gruppi (21 per cento). Le attività petrolifere hanno poi trattenuto in Libia numerosi tecnici europei e statunitensi attirando rilevanti masse di operai da altri paesi arabi. L’incremento naturale è molto rapido: la popolazione è così passata a 4.404.986 abitanti al censimento del 1995 e ai 5 milioni secondo le stime del 1998, del 1999 e del 2000.

Per tutti gli anni Sessanta del Novecento e nel decennio successivo si sono aggiunte cospicue correnti migratorie, che hanno portato in Libia circa 600.000 lavoratori stranieri (in particolare arabi e turchi), attratti dall’industrializzazione lanciata nel paese e dai programmi di lavori pubblici. E qui, storia e interessi materiali s’intrecciano indissolubilmente. Oggi sono stimati in almeno 750.000 mila gli egiziani che lavorano in Libia, una cifra significativa anche se in forte decremento rispetto ai due milioni che operavano nel paese nordafricano prima della caduta (2011) del regime di Gheddafi. Gli egiziani, che rappresentano ancor oggi la più grande nazionalità presente in Libia, sono impiegati soprattutto nei settori dell’agricoltura e dell’istruzione.

Oltre a interessi militari e politici, l’Egitto è spinto a partecipare attivamente nello scenario libico anche da interessi economici, tanto fragili quanto importanti per il governo di Al-Sisi. Il presidente egiziano ha di fatto mostrato la propria preoccupazione per i cittadini egiziani in Libia, lavoratori emigrati da decenni che, una volta iniziati gli scontri militari, hanno cercato protezione in patria pur senza avere la possibilità di essere riassorbiti nel tessuto lavorativo e sociale (scenario attualmente inattuabile per il fragile Egitto). Le stime dei lavoratori egiziani in Libia si aggirano intorno a una cifra che va dai 700.000 al milione e mezzo di unità. Lavoratori che versano sotto forma di rimesse in Egitto quasi venti miliardi di dollari, linfa vitale per le casse di uno stato in estrema difficoltà economica nonché politica e sociale.

A far gola ad Al-Sisi c’è anche il futuro energetico dell’Egitto. Un paese che intende sviluppare la propria infrastruttura industriale ha sempre necessità di petrolio. Necessità che può essere soddisfatta da Haftar, qualora diventi leader riconosciuto della Libia. La vittoria del governo di Tobruk offrirebbe un’opportunità non da poco per l’Egitto, che intende rilanciarsi economicamente anche grazie alle fonti energetiche presenti in una regione nella quale vuole tornare a fare la voce grossa. Linfa vitale per le imprese del settore energetico egiziano, nei decenni passati tagliate fuori quasi del tutto dalla francese Total e dall’italiana Eni.

Il presidente del Consiglio Conte con il primo ministro libico Fayez al-Sarraj (sx) e il generale Haftar (dx)

Non meno significativa è la storia (cultura, affari, geopolitica) della presenza turca. Durante il regno Ottomano, i turchi colonizzarono e dominarono la vita politica della regione, e la composizione etnica della Libia cambiò sostanzialmente con la migrazione dei turchi dall’Anatolia, con la determinazione di una nuova entità etnica locale, i “Kouloughlis”, una popolazione con sangue misto turco e maghrebino. Nel 2011, anno della caduta di Gheddafi, i cittadini turchi residenti in Libia erano circa 25.000.

Fredde in precedenza, le relazioni tra Ankara e Libia si rafforzarono quando, a seguito dell’embargo militare decretato dagli Usa alla Turchia per l’intervento a Cipro nel 1974, fu la Libia a garantire all’aviazione turca i pezzi di ricambio per i caccia di fabbricazione statunitense in dotazione. D’allora, l’incidenza turca in Libia è cresciuta esponenzialmente. Quando l’allora primo ministro e attuale presidente della Turchia, Recep Tayyp Erdoğan, nel settembre 2011 fece visita a Tripoli, ricevette un’accoglienza da star da parte dei libici.

Oggi, la Libia è il terzo partner commerciale della Turchia in Africa. Sono innumerevoli i trattati bilaterali tra i due paesi, tra i quali vanno ricordati l’Accordo per il rafforzamento della cooperazione economica e tecnica (1975) e l’Accordo bilaterale per gli investimenti e la protezione (2009). I due paesi hanno inoltre deciso di dar vita, l’anno prossimo, a un accordo di libero scambio. Non basta. La Turchia è tra i maggiori investitori in Libia. Sono stati firmati accordi per realizzare progetti d’intervento in Libia, in particolare nel settore delle infrastrutture, che superano i venti miliardi di dollari. In termini di quantità di lavoratori impiegati nella realizzazione di opere all’estero da parte della Turchia, la Libia è il secondo mercato dopo la Russia.

Geopolitica e affari: la crisi siriana ha fortemente indebolito le rotte del petrolio da Arabia Saudita, Iran, Iraq e stati del Golfo. E questo ha portato Ankara a puntare decisamente, nella “battaglia del petrolio”, al sud del Mediterraneo e dunque alla Libia. Mentre altri patteggiavano sotto traccia con milizie o andavano alla ricerca, in terra libica, di improbabili uomini forti a cui affidare il ruolo di gendarme del Mediterraneo, la Turchia ha sviluppato una penetrazione a trecentosessanta gradi, dalla cultura all’alimentazione.

I turchi hanno aperto a pioggia ristoranti e negozi, mentre diciannove miliardi di dollari sono stati investiti nel campo delle costruzioni attraverso la Turkey Contractors’ Association. La penetrazione avviene anche via “cielo”. La Turkish Airline ha riattivato, lo scorso mese, i voli per Misurata (centro principale della comunità di origine turca in Libia e città-chiave nella determinazione dei nuovi equilibri di potere nel Paese) e analoghi progetti riguarderanno Tripoli, quando l’aeroporto internazionale, chiuso da luglio, verrà posto in sicurezza.

Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché le relazioni tra Turchia e Libia si sono progressivamente deteriorate da quando Ankara (sostenuta dal Qatar) è stata pubblicamente accusata (giugno 2014) dal generale Haftar di supportare il terrorismo (accusa che Haftar ha rilanciato dalla Conferenza di Palermo), chiedendo ai cittadini di Turchia e Qatar di lasciare l’est della Libia, quello controllato dall’Esercito libero nazionale, autoproclamato da Haftar.

L’accusa di alcuni analisti è pesante. Doha invierebbe denaro al Benghazi Revolutionary Shura Council (Consiglio Rivoluzionario della Shura di Bengasi, Brsc), composto da numerose fazioni islamiste. La Turchia, da parte sua, offrirebbe appoggio logistico, soprattutto per i miliziani feriti. Abdullah al-Thani, primo ministro del governo di Tobruk (sostenuto da Haftar ma non riconosciuto dalla comunità internazionale) ha annunciato (febbraio 2015) che la sua amministrazione avrebbe dato uno stop agli accordi negoziati con la Turchia, a seguito del sostegno militare e finanziario dato dai turchi alle fazioni rivali di Tripoli.

D’altro canto, una conferma dell’interesse turco per la Libia è stata data non solo dalla presenza di una delegazione di alto livello nella riunione di Palermo, ma anche dal viaggio del ministro della difesa turco Hulusi Akar che è stato ricevuto a Tripoli da Fayez al Sarraj una settimana prima della due giorni siciliana. Secondo quanto riportato dai media turchi, Akar ha incontro il premier libico Sarraj, il ministro dell’interno Fatih Ali Bashagha e il presidente dell’Alto consiglio di stato, Khaled al-Meshri. Mentre il ministro turco era accompagnato dal capo di stato maggiore Yasar Güler e dall’inviato del presidente Emrullah Isler. L’incontro di Tripoli è servito soprattutto a discutere di cooperazione militare, con Ankara che ha offerto aiuto nell’addestramento delle forze libiche e nell’unificazione dei vari eserciti che operano in Libia.

Quel che è certo è che ora Erdoğan giocherà qualche asso nella manica per ribadire la presenza necessaria di Ankara sul tavolo libico. E questa carta potrà essere, inevitabilmente, quella dei Fratelli musulmani. Una carta fondamentale, condivisa dalla Turchia e dal Qatar, alleati in Medio Oriente e anche nella partita libica. Una linea che porta allo scontro frontale con l’Egitto. Per i militari egiziani, il pericolo dei Fratelli musulmani – al potere prima del golpe del 3 luglio 2013 – è ancora forte e una Libia in mano a forze a loro vicine è una minaccia ancora maggiore di un conflitto in territorio libico.

Piuttosto che assistere all’affermarsi di un governo ostile a Tripoli, al-Sisi punterebbe decisamente al dissolvimento della Libia come stato unitario e alla creazione di uno “stato-protettorato” della Cirenaica, governato attraverso il fedele Haftar. E così, il futuro riporterebbe al passato: e come nel passato, Egitto e Turchia sarebbero su fronti opposti.

Libia, il pomo della discordia tra Egitto e Turchia ultima modifica: 2018-11-18T12:37:19+01:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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