Marco Minniti infine si è deciso a rendere ufficiale la sua candidatura alla segreteria del Pd. Dopo settimane di tentennamenti, più o meno sinceri, ha compiuto il grande passo, ma ha preso subito la prima scivolata.
L’ex ministro dell’interno la mattina va all’Ergife per partecipare all’Assemblea nazionale del Pd e non proferisce verbo pur avendo in tasca l’appello firmato da centinaia di sindaci per convincerlo a scendere in campo. Il pomeriggio, quando la riunione è finita e tutti vanno a casa convinti di aver partecipato a un momento importante nella vita del partito, dà un’intervista a la Repubblica per rendere ufficiale la sua partecipazione alla corsa per la leadership del Pd.
Non è una questione di bon ton, ma squisitamente politica. Così facendo, Minniti ha deciso di non rivolgersi al suo partito, a quell’assemblea nazionale che – come spiega il Corriere della Sera in un boxino – “è il massimo organismo del Partito democratico”, bensì direttamente agli elettori dem, senza intermediazioni. E questo rivela la stessa concezione della leadership che ha caratterizzato la stagione renziana: il capo che risponde direttamente al popolo, alla “gente”. Ne consegue che il segretario che viene scelto direttamente dal popolo non deve dar conto al partito, agli iscritti e agli organismi dirigenti che vengono inutilmente eletti dai delegati al congresso. Il segretario viene eletto dal popolo e quindi nessuno ha poi il diritto di disturbare il manovratore. Se non ti va bene, aspetti il successivo congresso oppure te ne vai.
Certo, il difetto di fondo è nel meccanismo di elezione del segretario. Come osservò diversi anni fa Francesco Storace, è allucinante che sia consentito anche a un post-fascista come lui votare per chi deve essere il segretario del maggior partito della sinistra. Ma anziché correggere questa deriva leaderistica la si cavalca fino alle estreme conseguenze. Nella stessa direzione va la scelta di far sostenere la propria candidatura da centinaia di sindaci e da un bel gruppo di parlamentari che “spontaneamente” hanno deciso di fare un appello per la sua discesa in campo. Non dagli iscritti, ma dagli eletti del popolo. Il partito diventa così un orpello, utile solo a tener aperti i gazebo.
Il testo dell’intervista di Minniti non cambia il quadro. Dopo aver riconosciuto che le elezioni del 4 marzo “sono state più di una sconfitta”, si limita a dire che “va ricostruita una connessione” con la società italiana. Le cause della maggiore sconfitta subita dalla sinistra nell’Italia repubblicana restano un mistero. Non si hanno maggiori lumi neanche quando l’intervistatore gli chiede quali responsabilità attribuisce a Renzi per il disastro elettorale. Con manzoniano distacco, Minniti afferma:
Essendo tra chi non ha esagerato nel lodarlo quando era al potere, non ho alcun bisogno di prenderne le distanze.
Il che non spiega come mai, come riconosce più avanti,
i più deboli si sono sentiti abbandonati.
Bisogna mutare le proposte politiche, certo; cambiare “profondamente” il partito, neanche a dirlo; ma in quale direzione non si sa. Come resta un mistero perché i sindaci abbiano sentito di doversi mobilitare, di fronte alla forte candidatura di Nicola Zingaretti, perché lui scendesse in campo a impedire la trionfale marcia del presidente del Lazio. “Non è un avversario” tiene a precisare, e lo stesso atteggiamento è riservato agli altri candidati: “Non dirò mai una parola contro di loro”.
Non che Zingaretti sia più puntuale nel motivare la sua candidatura. C’è solo la speranza che prima o poi qualcuno si decida a dire qualcosa perché i poveri militanti abbiano qualche elemento per scegliere, altrimenti il congresso del Pd finirà per somigliare a una trasmissione di Maria De Filippi.

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