Una città che deve ricominciare

“Non è triste Venezia” di Francesco Erbani è un “reportage narrativo”, una lettura consigliata per tutti: ai non veneziani segnala quali sono i problemi, ma anche che “c’è vita in città”. E ai veneziani ricorda che ne possono essere protagonisti.
MARIO SANTI
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Dopo quella a cura di Roberto Ellero, abbiamo ricevuto una seconda recensione di “Non è triste Venezia” di Francesco Erbani, un “reportage narrativo” che evidentemente ha suscitato attenzione in città.  

Del lavoro di Erbani, Mario Santi accentua più il carattere “sociale” piuttosto che “politico” di una possibile, eventuale “ripresa”, sottolineando – nel libro – il rapporto inscindibile tra città e Laguna, sia nella pars destruens sia nella pars costruens.Venezia è stata e può essere città solo in equilibrio con essa.

Francesco Erbani è un giornalista che si occupa, per la Repubblica, del degrado urbanistico e ambientale del territorio italiano. Non è nuovo a inchieste in questo campo. 

Per Laterza ha pubblicato “Il disastro. L’Aquila dopo il terremoto: le scelte e le colpe” (2003), “Roma. Il tramonto della città pubblica” (2013) e anche il libro intervista con Leonardo Benevolo “La fine della città” (2011). E ancora, per Feltrinelli “Pompei, Italia” (2015), e per Castelvecchi, tornando su Roma, con Vezio De Lucia “Roma disfatta” (2016).

Ora dedica a Venezia un libro particolare.

Particolare perché nasce dall’empatia di chi “passa molto tempo a Venezia”.  

Ed è proprio questo attaccamento che gli consente di maturare uno sguardo proprio, frutto di passeggiate a piedi e in bicicletta, di osservazioni e pensieri lungo questi percorsi o mentre è seduto su una panchina a Malamocco o alle Zattere. Uno sguardo corroborato dai numeri che stanno dietro le questioni con le quali si confronta, e che si precisa nei suoi incontri con i tanti esponenti del tessuto culturale e sociale della città che lo aiutano a metterlo a fuoco.

Ne scaturisce un quadro originale: un’idea di Venezia che sa di dover fare i conti con un reale “rischio estinzione”, di “morte come città”. Legati all’abbraccio mortale del “turismo globale”. Una monocoltura che – affermandosi pienamente – eliminerebbe ogni altra potenzialità economica e produttiva, trasformando la città in un set per i turisti e gli abitanti come figuranti.

Ma Erbani sa cogliere anche le possibilità di una resistenza, individuando gli elementi per una città che deve ricominciare a essere tale.

Il suo è uno sguardo la cui modernità si basa sul recupero del principio fondante che sta alla base della secolare storia e della fortuna di Venezia, ma che è stato messo in discussione fin dagli inizi del secolo scorso e con più aggressività nella sua seconda metà e agli inizi di quello in corso: il considerarsi Venezia un tutto unico e interdipendente con la sua Laguna, un ambiente naturale che si è conservato e arricchito perché gestito dall’uomo. Secondo il principio della sperimentazione e della reversibilità, che ora si tende a spezzare. 

Ed ecco che Erbani propone con una narrativa calma e pacata, ma capace di individuare cause ed effetti del declino e vie di ripartenza, un percorso attraverso otto “stazioni” sulle quali si gioca la possibilità di sopravvivenza o affossamento di Venezia come città, con le sue funzioni urbane e i suoi abitanti.

Si parte da “La città ideale” descrivendo le condizioni per la quali Venezia può/potrebbe essere “l’organismo urbano del futuro”, a partire dall’eccezionale relazione conservata per secoli tra il costruito e il suo ambiente, la Laguna. 

Si passa poi alla “Laguna maltrattata”, per lanciare il primo grande grido d’allarme, sul fatto che “negli ultimi cento anni, con un’accelerazione negli ultimi cinquanta, si è rotto l’equilibrio che ha consentito a Venezia di vivere bene”.

Un secondo grido d’allarme passa per le tre stazioni successive.

In “Senza abitanti” si da conto della natura dei processi di spopolamento, dovuto a un saldo demografico nettamente negativo (molti più morti che nati) e a un saldo migratorio (immigrati meno emigrati) appena leggermente positivo (ma con il sospetto che più che di “nuovi abitanti” si tratti di “abitanti fantasma”, che collocano la loro residenza in abitazioni che in realtà vengono immesse nel circuito delle locazioni turistiche).

In “Mangiata dal turismo” si spiega come “Non è il turismo ad adeguarsi alla città. È la città che si dispone per il turismo” che si presenta come “il principale imprenditore”. In quanto tale è capace di dettare le regole sui cambi di destinazione d’uso e a condizionare il mercato residenziale: se è molto più conveniente affittare ai turisti per brevi periodi sarà (quasi) impossibile per una giovane coppia trovare una casa in affitto in città. Qui il ruolo di Airbnb è fondamentale: le famiglie che integrano il proprio redditto mettendo una parte del proprio appartamento a disposizione del turista sono una netta minoranza rispetto alla agenzie immobiliari che gestiscono centinaia di appartamenti, sottratti così al mercato residenziale. Si evidenza anche il ruolo degli operatori pubblici: Comune, Regione, Agenzia del demanio, Cassa depositi e prestiti si sono rivelati

incapaci di pensare (per i patrimoni da essi amministrati) a una nuova vita, una possibilità di generare attività culturali, sociali, lavorative, un destino che non fosse quello di produrre reddito a breve e di finir nel multiforme circo del turismo.

In “Una città da crociera” si mette in evidenza l’effetto specifico di “soffocamento urbano” esercitato da croceristi che sbarcando nei mesi estivi e prevalentemente nei fine settimana “fanno volume nei periodi in cui il turismo è più intenso”, sommandosi al peso dei “turisti escursionisti”, cioè quelli che visitano la città senza pernottarvi. Oltre e descrivere il mondo legato alla grandi navi, con la sua visione “di dominio”, lo “sguardo dall’alto” su una città che ne “estrae” valore, sottraendo quelli veri (culturali, storici, economici, di qualità del vivere) per attribuirne di simbolici: “lo slittamento da città a scenografia”. E con i suoi effetti sulla città, chiedendosi, al di là della vulgata dominante, quanto dia, ma anche quanto tolga – da un punto di vista economico e dei trasferimenti, ma anche dei costi – alla città. 

Il terzo grido d’allarme si leva in “Il MOSE, uno scandalo infinito” e svela come all’anomalia che sta alla base del progetto (per la prima volta un pesante intervento in grado di avere grandi effetti sull’idrodinamica lagunare viene basato su opere irreversibili) si aggiunga quella di un affidamento dei lavori in concessione (bypassando le normative sulla concorrenza). Viene spiegato come l’aver fatto del Consorzio Venezia Nuova il centro di potere assoluto che ha fatto il bello e il cattivo tempo a Venezia abbia creato ed evidenziato quello che è il profilo prevalente del Mose: essere (certamente) un grande incubatore di corruzione, a fronte di una perdurante incertezza sugli esiti dell’operazione in termini di salvaguardia della città dalle acque alte.  Si ricorda anche come tutti i progetti alternativi, più leggeri e meno impattanti, siano stati sacrificati a questa operazione che è divenuta (come sempre la cose a Venezia diventano “modelli”) il simbolo del rapporto tra politica a malaffare.   

A questa “pars destruens” di solito si fermano scrittori e gazzettieri, che leggono una  Venezia che muore per il sommare in sé il prototipo del turismo mondialista (da “selfie del mondo”) e una delle più avanzate reti di corruzione legate alle cosiddette  “grandi opere” (questa invece una specialità nazionale). Erbani invece va oltre e recupera, dal suo atteggiamento empatico e di ascolto nei confronti della città a partire dalla sua parte viva (non esiste altra città con una così alta concentrazione sulla popolazione di comitati, gruppi e soggetti attivi come a Venezia – lo si sente ricordare nelle sue presentazioni) un ragionamento e una proposta, affacciati nella penultima sezione “la città che resiste” e affiancati ai ragionamenti di inquadramento urbanistico e progettuale finali svolti nel capitolo dedicato al suo confronto con “Eddy”.

“La città che resiste” parte dalle energie civiche suscitate attorno alla gestione di uno dei luoghi simbolo della storia, della vita (e potenzialmente del futuro) della città,  l’Arsenale, con una valutazione critica della presenza della Biennale (tra potenzialità e ruolo di operatore impattante) per arrivare al “moto pulviscolare” della resistenza urbana e territoriale. Erbani fa due esempi: la battaglia della Vida (un esperimento “divenuto una bandiera, e non solo a Venezia”) e quella di Poveglia (anch’essa divenuta “toponimo simbolo”). Due esempi di come una gestione comunitaria, inclusiva e partecipata di spazi urbani e ambientali possa definire azioni e proposte per una città e una laguna “per tutti”.

Con “Eddy”, Erbani arriva alla “discussione finale”, che ha voluto fosse con un personaggio di spessore culturale,

non (più) immerso nella cronaca cittadina, in grado perciò di raccordare il recente passato e il futuro prossimo di Venezia in modo diverso da chi è coinvolto attivamente nel presente.

È una bella chiacchierata in cui Salzano ripercorre le difese urbanistiche di cui da assessore e con alcuni dei suoi successori ha cercato di dotare Venezia perché continuasse a essere città.  

Una pianificazione urbanistica fatta per classi di unità edilizie, per ognuna delle quali fissare le regole delle trasformazioni consentite e delle utilizzazioni compatibili, con alcune regole strutturali (immodificabili) e altre modificabili passando per il Consiglio comunale. Con le successive aperture delle giunte successive (dalla prima di Cacciari in poi) che hanno portato la discrezionalità del mercato a prevalere sul controllo pubblico su trasformazioni fisiche e cambi di destinazione d’uso. E che si conclude esprimendo la convinzione che

con un’accorta politica ed un controllo pubblico delle trasformazioni bisogna evitare che gli spazi – e Venezia ne è piena – diventino strutture ricettive pere gli escursionisti. Siano esse alberghi oppure negozi. L’obiettivo è che, invece, ospitino laboratori, foresterie, centri di ricerca.

Spero che questi pochi accenni ai contenuti di questo “reportage narrativo da una città che deve ricominciare” possano bastare a motivare i potenziali lettori su due piani. 

Il primo è quello del gusto di una lettura scorrevole ed empatica su Venezia; sempre comunque partecipe, parte della città e della sua storia. Erbani si sente parte del processo per “una città che deve ricominciare”, a partire dal recupero del suo storico rapporto con le acque, dalla Laguna e dalla sua cura. Non è “residente”, ma possiamo considerarlo un “abitante” di Venezia, cioè parte della città e della sua storia. Partecipe, con le cose che ha scritto e per come le ha scritte, del “nuovo inizio” che ha delineato in queste pagine.

Il secondo è che il lettore, qualsiasi lettore, può esserne protagonista, se aderisce ad alcune opzioni e ne deriva comportamenti conseguenti. 

La prima opzione è tenere desta l’attenzione sulla corruzione oltre la vicenda Mose. Vuol dire chiedersi se servono “grandi opere” e se non sia urgente ricostruire le condizioni per il riequilibrio: a partire da quello morfologico e ambientale della Laguna per arrivare alle opere di manutenzione urbana, nello spirito che fu della prima Legge Speciale (prima che tutte le risorse fossero dirottate sul Mose).

La seconda è che il turismo non sia considerata l’unica economia possibile, perché fa prevalere la rendita sul lavoro e porta al decadere della funzioni urbane, trasformando gli abitanti in comparse.  

L’ultima condizione ci parla del rinnovamento della popolazione veneziana, e della conservazione di spazi, servizi e funzioni urbane. Si passa dai “campioni di resistenza” (le associazioni che cercano di recuperare le funzioni pubbliche dell’Arsenale, i “vidani”, i “poveglianti”), i sostenitori di una visione comunitaria, inclusiva e partecipata di spazi urbani e ambientali, per una città e una laguna “per tutti”, ai protagonisti del ripopolamento (i “nuovi veneziani”, chi ha deciso di tornare o venire a vivere a Venezia, valutando motivi di attrazione e creando le condizioni per un loro sviluppo).

Insomma, una lettura consigliata perché rimanda a un’assunzione di responsabilità collettiva. Ai non veneziani segnala quali sono i problemi, ma anche che “c’è vita in città”. Ai veneziani ricorda che ne possono essere protagonisti.

Una città che deve ricominciare ultima modifica: 2018-11-21T22:31:33+01:00 da MARIO SANTI
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