Gilet gialli. Una rivolta che non riguarda solo la Francia

Sull’ecologia si sta creando una nuova frattura della società francese che oppone l’ecologismo urbano a quello rurale. Che sembrano avere obiettivi, e tempistiche, diversi. E le conseguenze riguardano tutte le forze politiche.
MARCO MICHIELI
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[PARIGI]

Un’altra giornata di tensione sabato scorso a Parigi e in tutta la Francia. A una settimana dalla prima mobilitazione dei gilets jaunes (i gilet gialli), alla quale avevano partecipato 282.000 persone, anche la seconda mobilitazione sembra avere avuto successo: più di 106.000 persone hanno partecipato alle diverse azioni di blocco diffuse su tutto il territorio francese. Ottomila persone hanno poi sfidato il divieto di manifestazione sugli Champs-Élysées, nel tentativo di raggiungere l’Eliseo, tra lacrimogeni, fumogeni e barricate.

Nata e organizzata sui social, la protesta contro il rincaro della benzina sta creando qualche problema di ordine pubblico al presidente Emmanuel Macron, sempre più in difficoltà nei sondaggi. Un movimento atipico quello dei gilet gialli, non solo perché nato dal passaparola e dai gruppi sui social ma per la sua apoliticità e lontananza da qualsiasi corpo intermedio, sindacati in primis. Qualcuno l’ha paragonato al movimento dei forconi nato in Italia all’epoca del governo Monti. E qualche somiglianza c’è. Di sicuro i partiti politici di sinistra e di destra che hanno tentato di metterci sopra il cappello non ci sono riusciti (Mélenchon e Marine Le Pen innanzitutto, ma anche i socialisti e i repubblicani).

È un fronte composito anche socialmente. Accanto al lavoratore autonomo ci sono disoccupati, pensionati, agricoltori: è la Francia della provincia che ha trovato nell’aumento del costo della benzina il detonatore di una tensione accumulata da anni.

Senza alcun leader, le motivazioni della loro collera sono diffuse da una miriade di portavoce, dai quali è difficile comprendere l’esistenza di una linea politica comune. C’è la questione della mobilità e dei suoi costi nei territori rurali. Ma c’è anche la fine dell’obbligo vaccinale (sono dodici i vaccini obbligatori in Francia). Più fondi all’istruzione e alla sanità, più aiuti all’occupazione, più tutele per i disabili. C’è una componente che chiede la dissoluzione dell’Assemblea nazionale e le dimissioni di Macron. Molti hanno messo in rilievo la necessità di migliorare il potere d’acquisto dei pensionati. Altri ancora l’annullamento del limite degli ottanta chilometri all’ora sulle strade provinciali (e la stessa soppressione dei controlli tecnici su quei limiti). In breve, più servizi pubblici, meno imposte; più popolo, meno élite.

Gli scontri agli Champs-Élysées tra forze dell’ordine e gilet gialli (Foto di NightFlightToVenus, bit.ly/2KwWxWH)

I gilets jaunes protestano soprattutto contro la cosiddetta fiscalità ecologica che considerano come la responsabile principale del caro benzina. Alcuni contestano soprattutto il mezzo, le tasse, non il fine. Nelle varie trasmissioni televisive i vari rappresentanti hanno continuamente sottolineato la necessità di utilizzare altre forme di intervento per aiutare i cittadini nella transizione ecologica, senza scaricare sulle fasce sociali più deboli il costo delle politiche ambientali. E quindi alcuni chiedono la fine della produzione di macchine diesel o ancora la regolamentazione dei prezzi delle macchine elettriche o la diffusione del telelavoro o altre misure che consentano alla imprese di installarsi nelle periferie.

Se la politica ha attribuito l’aumento della benzina all’aumento del costo del petrolio, alcuni esperti sembrano dare ragione ai gilets jaunes. Secondo Rémy Prud’homme, docente di politiche del trasporto all’Università Parigi XII, l’aumento del prezzo di vendita della benzina e del gasolio è dovuto anche all’aumento annuale della tassa carbone, che esiste dal 2013 e che in questa congiuntura pesa molto soprattutto sulle classi medio-basse rurali e sui pensionati.

Macron ha stabilito la propria linea di difesa sulla fiscalità ecologica, sostenendone l’importanza per le politiche ambientali. E il suo primo ministro ha cercato di fornire aiuti alla rottamazione e all’efficientamento energetico. Senza grande successo se ventidue ong, e tra queste Greenpeace, Wwf e Oxfam, ne hanno criticato l’incoerenza e la mancanza di ambizione politica.

Non è tuttavia solo un problema per Macron. Sulla fiscalità ecologica sembra approfondirsi la rottura tra la Francia urbana, che è cosmopolita, multiculturale, pro-europea, che ha votato per Macron, e quella rurale, scettica sull’Europa, più impoverita, più pessimista sul proprio futuro. Non è nemmeno una divisione tra gruppi sociali più poveri e più ricchi: non necessariamente chi abita nelle grandi città francesi dispone di una ricchezza maggiore dei cittadini che abitano nella Francia rurale.

Ma c’è una divisione tra i cittadini nella capacità di accedere al capitale culturale e di atteggiamento nei confronti del futuro: la globalizzazione per gli uni è una risorsa, per gli altri una sciagura. Ed è paradigmatico che queste divisioni nascano attorno a una politica che tutti i partiti hanno considerato negli ultimi decenni come un tema da facile consenso: chi è infatti contro la protezione dell’ambiente? Senza accorgersi tuttavia che su certe politiche ambientali chi ne pagava il prezzo maggiore erano le classi sociali più in difficoltà. E improvvisamente l’ecologia è diventata una delle più dure fratture che dividono la società francese.

A pagarne le conseguenze in termini di popolarità, dicevamo, non è solo Macron. Negli ultimi decenni tutti i partiti di sinistra hanno sposato la causa ambientalista, tanto da non poter essere facilmente distinguibili su questi temi. Ma da tempo un interrogativo si sta facendo strada: come fanno i partiti di sinistra infatti a conciliare la “transizione ecologica” e le politiche sociali? Non ci riescono a quanto pare. Anche chi ha fatto della battaglia per la protezione dell’ambiente una ragione di vita comincia a registrare alcune difficoltà sul tema. È il caso dei verdi francesi (Europe Écologie Les Verts), che i sondaggi per le elezioni europee danno alla pari con il Partito socialista (attorno al sette per cento). Non certamente una buona notizia, considerato che in questo tipo di elezioni di solito i verdi hanno ottenuto ottimi risultati (e oggi Daniel Cohn-Bendit, il leader storico dei verdi francesi, “lavora” per Macron).

Un gilet giallo agli Champs-Élysées (Foto di NightFlightToVenus, bit.ly/2TI9hxM)

Di queste difficoltà ne ha fatto le spese recentemente anche uno degli uomini simbolo dell’ambientalismo politico francese: Nicolas Hulot, una delle personalità più rispettate in Francia e a più riprese indicato come possibile candidato presidente. Qualche giorno fa infatti, in una trasmissione televisiva, l’ex ministro dell’ambiente di Macron ha dovuto subire la rabbia dei gilets jaunes, che ne criticavano l’operato come ministro e il suo sostegno alla tassa carbone e in generale alla fiscalità per sostenere la transizione ecologica.

E improvvisamente i verdi francesi si sono scoperti in una posizione non dissimile dagli altri “compagni” della sinistra: troppo urbani, troppo elitari, troppo lontani dai bisogni della classi sociali più disagiate. Sconfitti dal successo delle loro idee, diventate patrimonio comune di tutti i partiti, soprattutto nelle grandi città francesi, dove competono non solo col Ps e Mélénchon, ma anche con La République En Marche e Les Républicains.

Perché se l’ecologia è una nuova frattura della società francese, come sostengono alcuni, nel movimento ecologista francese all’ecologismo della città si oppone ormai – e sta riprendendo forza, perché è sempre esistito – l’ecologismo della campagne, che interpreta la tutela dell’ambiente in un modo completamente diverso. Più conservatore e meno “emergenziale”.

Due mondi difficili da conciliare.

 

L’immagine di copertina è di NightFlightToVenus

Gilet gialli. Una rivolta che non riguarda solo la Francia ultima modifica: 2018-11-26T12:42:13+01:00 da MARCO MICHIELI
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