Il Menocchio necessario

Nelle sale d’essai, da vedere, il film di Alberto Fasulo sul mugnaio eretico processato e mandato al rogo in Friuli alla fine del Cinquecento, un libero pensatore del popolo già studiato da Carlo Ginzburg nell’indimenticabile “Il formaggio e i vermi”.
ROBERTO ELLERO
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Il film che di questi tempi non t’aspetti, per più versi notevole, “inattuale” ma necessario, ispido ma bello. Di una bellezza che pare persino antica, affondando le sue radici, per intenderci, nel rigore degli Olmi, Bresson, Tarkovskij. Parliamo del Menocchio di Alberto Fasulo, presentato la scorsa estate al Festival di Locarno e ora caparbiamente distribuito dallo stesso regista in sale d’essai selezionate con la Nefertiti (marchio suo e della produttrice e compagna Nadia Trevisan).

E il Menocchio è ovviamente quel Domenico Scardella, mugnaio friulano di Montereale Valcellina di cui si occupò mirabilmente Carlo Ginzburg nel suo Il formaggio e i vermi, pubblicato per la prima volta nel 1976 da Einaudi, ancor oggi esemplare trattazione di “storia dal basso”, nel ritratto di un “libero pensatore del popolo” perseguitato, processato e infine mandato a morte sul finire del Cinquecento. Per eresia, naturalmente.

Succedeva, in quegli anni bui di controriforma, ma per lo più – si crederebbe – a eretici di spiccato intelletto, Giordano Bruno per dire, arso vivo negli stessi anni a Campo de’ Fiori: intellettuali ritenuti pericolosissimi per la loro capacità di interloquire e dubitare, ragionare, discettare, fare proseliti e mettere dunque in seria discussione – una volta di più, specie dopo Lutero e Calvino – il potere della Chiesa, temporale e spirituale: il suo primato. Ma il povero Menocchio? Visibilmente autodidatta, appena capace di leggere e scrivere, vita di lavoro e di stenti a Montereale, ai piedi delle montagne, dove il Cellina sbocca in pianura…

Eppure, non appena dalle tenebre di una cella vediamo apparire il suo volto, il primissimo piano di una faccia assai volitiva, scavata dalle rughe e dalle cicatrici della vita, non stentiamo a credere che Menocchio (il bravissimo Marcello Martini, operaio e sindacalista nella vita, non-attore come quasi tutti nel film) potesse mettere paura, a quella chiesa di preti inverecondi e prezzolati, mondani e bigotti. Il volto dell’umanesimo. Quando infine parla, comincia a parlare, lui che non è di troppe parole, capiamo bene la determinazione del pensiero che anima quel volto: lasciate stare santi e madonne, donne che partoriscono restando vergini; dio – se c’è – è ovunque: aria, acqua, terra e fuoco; un albero val più di un prete per raccogliere la confessione; si spogli la chiesa d’ogni suo bene e potere, la smetta di trescare coi ricchi e s’occupi dei poveri; gioisca nell’amore del prossimo. Il formaggio fa i vermi: è così che nasce la vita.

Menocchio non ha studiato e non risulta aver appreso tutto ciò che “sa” da qualche avventuriero o mercante di passaggio per la vicina Venezia, dove notoriamente se ne sentono di tutti i colori. Ma quel che dice, quel che va dicendo da trent’anni in qua, all’epoca del primo processo (che occupa l’intera ricostruzione del film), dovrà pur averlo sentito da qualche parte, no? Inconcepibile, per le gerarchie ecclesiastiche e per l’Inquisizione, che quelle idee, quei dubbi, quei reclami nascano dalla sua testa, siano frutto del suo intelletto, naturali come ogni altra occupazione del suo modesto vivere quotidiano.

Ancora più pericolosa, allora, la sua eresia, il diavolo certamente. E ben più devastante il possibile contagio derivante dalla rudimentale naturalezza del suo pensiero. Prova ne sia la piccola comunità che ha cominciato a raccogliersi, a Montereale, intorno a queste sue idee, testimoni a carico secondo l’accusa, per la quale l’eretico è addirittura eresiarca, capo e propagatore di tale insano movimento.

Il Menocchio del film di Fasulo è quello degli anni del primo processo, condannato nel 1584 al carcere perpetuto e alla pubblica abiura, che non varrà peraltro a salvargli la vita quando anni dopo, nel 1599, pochi mesi prima di Giordano Bruno, sarà nuovamente inquisito, processato e infine mandato al rogo. Assistiamo perciò alle tribolazioni dell’imprigionamento, alle diatribe tribunalizie che mai lo vedono soccombere sul piano dialettico, dignitosamente fiero di sé, al dolore inferto all’uomo e ai suoi familiari, alle testimonianze di chi – fra amici e conoscenti – mantiene la schiena dritta o preferisce tradire. Un solare piano sequenza con lui in barca, sul fiume, mentre viene tradotto in città, è accompagnato sull’argine, in soggettiva, dalla corsa di un bimbo che saluta, festoso: la vita continua, nonostante tutto. E merita il nostro sorriso.

Prima dell’abiura, un incubo attanaglia piuttosto il sonno di Menocchio: il balletto orrifico delle maschere mortuarie e animalesche convenute a preparare e festeggiare il rogo che lo va attendendo. E qui, la spoglia essenzialità del film, quel suo dolente procedere appena ravvivato da qualche felice ricordo, si fa rituale carnascialesco, barocco alla maniera di certo sinistro folclore ispanico, capace di turbare non poco il grande Sergej Ejzenštejn all’epoca del suo sfortunato ma per certi versi epifanico soggiorno messicano. Rituali popolari religiosi che risalgono a quegli stessi anni di controriforma, di riconquista, che videro soccombere Menocchio, e dunque il lato minaccioso, vendicativo, mortifero del buon dio o soltanto di chi per esso.

Altra scena madre del film, infine, l’abiura, dove la voce di Menocchio è sommessa e quasi impercettibile quando si tratta di “magnificare”, secondo la formula di rito, facendosi viceversa vibrante, assertiva, persino solenne nel momento in cui viene declinata l’eresia, in maniera tale che sia una volta di più la negazione a far premio sulla verità rivelata.

Inattuale ma necessario, dicevamo in premessa, questo film di Alberto Fasulo, quarantaduenne friulano di San Vito al Tagliamento, laurea in filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, regista di film “sospesi” fra documentario, finzione e poesia (Rumore bianco, 2008; Tir, 2013; Genitori, 2015), orgogliosamente autoriali almeno quanto orgogliosa, nel film, è l’eresia di Menocchio.

Chiariamo dunque che se l’inattualità potrebbe essere suggerita dall’occuparsi di eretici in epoca di conclamata secolarizzazione e di tendenziale laicità, la sua necessità trova ampio riscontro, in realtà, nelle odierne ragioni del libero pensiero, seriamente minacciato negli effetti pratici dall’oscurantismo di ritorno che sta investendo l’Europa e l’Occidente, dove le croci – comprese quelle uncinate e celtiche – abbondano sin troppo. E in particolare, sul piano strettamente cinematografico, la necessità di questo Menocchio trova riscontro nelle ragioni di un linguaggio e di una ricerca che procedono in assoluta libertà espressiva, capaci di non arretrare dinanzi al dilagare del divertimentificio filmico che oggi incatena la visione. Tutte cose magari scontate sino a qualche tempo fa, molto meno oggi.

Il Menocchio necessario ultima modifica: 2018-11-28T19:43:17+01:00 da ROBERTO ELLERO
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