Se avete mai sentito parlare di Pizzagate, siete entrati in contatto con una delle teorie del complotto più diffuse del web. Nata nel 2016, quando WikiLeaks rese pubbliche molte delle email di Hillary Clinton e del suo staff, e tra queste quelle di John Podesta, campaign manager della Clinton, questo presunto “affaire” intasa da anni la rete e si mescola ad altre teorie complottiste. Secondo i sostenitori della cospirazione, un’email di John Podesta, nella quale si parlava di un appuntamento al ristorante Comet Ping Pong, non dovrebbe essere letta per quello che è – un semplice appuntamento di lavoro – ma in realtà come un codice segreto per riti satanici e baccanali pedofili tra politici e star di Hollywood nel seminterrato del ristorante.
Per quanto assurda la storia possa sembrare ai più, sulla sua veridicità molti cittadini americani sembrano non avere alcun dubbio. E non solo americani visto che in Italia questa teoria ha riscontrato qualche successo grazie anche alla prodiga azione di diffusione di Marcello Foa, attuale presidente della Rai. Non la pensava così nemmeno Edgar Welch quando è entrato, fucile alla mano, nel ristorante “incriminato” minacciando la strage (senza conseguenze fortunatamente).
La storia è stata oggetto di debunking continuo (il ristorante per dire non ha nemmeno un seminterrato). Ma l’azione combinata di social media, suprematisti bianchi, destra alternativa e teorici del complotto con grande seguito, come Alex Jones e il suo InfoWars, hanno contribuito a una rapida diffusione della storia. Che oggi si mescola all’altra grande teoria del complotto, quella di QAnon, che attribuisce al deep state un progetto di destituzione del presidente Donald Trump, che si sta battendo, tra le altre cose, secondo i sostenitori della teoria, contro una rete internazionale di pedofili (di cui il Pizzagate è solo una parte della storia). Tra le fila di questa rete internazionale di pedofili vi sarebbero ovviamente i Clinton, il senatore John McCain (che si sarebbe suicidato per evitare scandali), l’attore Tom Hanks e l’artista Marina Abramović. Protetti, ça va sans dire, da Barack Obama.
Ci sarebbe da sorridere se t-shirt e slogan di QAnon non comparissero sempre più frequentemente ai raduni dei sostenitori di Trump. Il presidente americano, che conosce molto bene la propria base elettorale, ha anche concesso una photo op a uno degli ideatori della teoria nello studio ovale alla Casa Bianca.
Ora se volete conoscere la storia completa del Pizzagate, di QAnon e dei loro riflessi sulla politica italiana, vi suggeriamo il davvero interessante articolo di Wu Ming per Internazionale.
Qui interessa capire altro. Come è possibile che le teorie del complotto siano sempre più diffuse e riescano a persuadere molti cittadini. E soprattutto come è possibile che ciò accada, nonostante le operazioni di debunking. E se fosse un problema di chi quelle teorie del complotto le ritiene assurde? Se fosse inutile cercare di fornire la corretta informazione? Se la logica fredda e empirica non contasse nulla, quando si tratta di idee politiche con forti cariche emotive? Se le teorie del complotto, infine, non fossero altro che tentativi di razionalizzazione di profondi sentimenti di disgusto per la politica? Una recente ricerca di Eric Oliver e Thomas Wood, docenti di scienza politica all’Università di Chicago e all’Ohio State University, sostiene esattamente questo.
In Enchanted America: How Intuition & Reason Divide Our Politics, i due ricercatori americani sostengono che le nostre menti abbiano costruito una serie di scorciatoie mentali per aiutarci ad agire rapidamente, trovando le corrette informazioni nell’enorme quantità di informazioni di cui disponiamo. Il problema è che queste scorciatoie mentali, che sono naturali nell’uomo, non sempre ci conducono a buone decisioni. Per esempio, secondo gli autori, ci possono condurre a rifiutare l’acquisto di una casa, venduta a buon prezzo, semplicemente se scopriamo che in quella casa c’è stato un crimine efferato. Ora queste scorciatoie mentali sono importanti perché sono legate all’intuizione di ciascuno di noi e allo spirito di sopravvivenza e quindi con l’evoluzione e la salvaguardia della specie umana stessa.
Talvolta però questa parte intuitiva cozza con la razionalità e la complessità del mondo moderno. E alcuni, secondo gli autori, sono più influenzati da altri da questa tendenza a ragionare “di pancia”:
Quando parliamo di pensiero magico, ci riferiamo al processo che attribuisce la causalità di qualche evento a forze non osservabili. Perché una credenza sia magica, deve fare riferimento a un potere invisibile – che sia la fortuna, Dio o gli Illuminati – che sta facendo accadere le cose. Certamente, credere semplicemente in una forza o in forze non osservabili non rende magica quella credenza – molte teorie scientifiche si riferiscono a cose che non possiamo osservare direttamente (per esempio, la materia oscura). Piuttosto, perché una credenza sia magica, deve anche contraddire una spiegazione alternativa basata su fenomeni osservabili. I pensatori magici presumono non solo che i poteri nascosti siano dietro a gran parte di ciò che accade nel mondo, ma che questa spiegazione è più corretta di quella empirica.
Nella loro ricerca Oliver e Wood sostengono quindi che gli individui che più si fanno guidare dal loro intuito siano più apprensivi e pessimisti nel loro comportamento quotidiano e rispetto al loro futuro. Non solo. Se applicata a livello politico, la scala dell’intuizionismo di Oliver e Wood fornisce alcuni dati interessanti: maggiore è il punteggio di intuizionismo di un individuo, maggiore è la probabilità che creda nei fantasmi e negli spiriti, che sia repubblicano e che si identifichi con una visione della religione più “ortodossa”. Sono anche gli individui che hanno meno probabilità di ricevere un’educazione adeguata e di essere ricchi (anche se vale la pena sottolineare che per gli autori non c’è alcuna correlazione tra questi elementi). Secondo gli autori infine, tra i sostenitori di Trump il grado di intuizionismo sarebbe ancora più elevato.
Se a una prima lettura del libro ci afferra un sentimento di sconforto e di tristezza pensando che la maggior parte degli esseri umani sia portata ad agire più per istinto che attraverso processi più razionali, alcuni ci ricordano che prima si prende atto di questa realtà delle cose e prima si possono trovare i giusti rimedi. Secondo Daniel Kahnemann, premio Nobel per l’economia, questa è la realtà dei fatti, con cui bisogna fare i conti. E non riguarda soltanto i sostenitori delle teorie del complotto, ma tutti noi:
Abbiamo un sacco di illusioni sul ruolo della ragione nelle nostre credenze e delle nostre decisioni. Ruolo che in realtà è molto più piccolo di quello che pensiamo.
Secondo Kahnemann infatti, a cui Oliver e Wood si ricollegano con il loro riferimento al mondo della ragione e a quello dell’intuito (lo slow e il fast-thinking di Kahnemann), gli individui credono nelle cose in cui credono e hanno le opinioni che hanno non a causa della bontà delle loro argomentazioni. Gli argomenti che forniamo per giustificare le nostre idee non sono altro che argomenti compatibili con le nostre credenze di fondo. Il che significa che qualsiasi sia l’argomento che si fornisca a un sostenitore delle teorie del complotto, questo ne troverà di nuovi:
È abbastanza chiaro che le ‘ragioni’ non sono le cause delle nostre convinzioni politiche, nella maggior parte dei casi. Per lo più abbiamo credenze politiche perché apparteniamo a un certo circolo, perché frequentiamo persone che credono nelle stesse cose: quelle credenze fanno parte di ciò che siamo.
E quindi negarle diventerebbe quasi negare una parte di se stessi.
Se la maggior parte delle persone decide quindi naturalmente sulla base di intuizioni e di argomenti compatibili con il mondo in cui vive e con le proprie credenze, non è pericoloso l’intuizionismo? In parte sì, secondo Oliver e Wood, soprattutto nel caso di una certa parte della popolazione:
L’intuizionismo pone una minaccia esistenziale per la democrazia. Non è né innocuo né mite. È contro una riflessione aperta, è intollerante nei confronti delle opposizioni e si infastidisce di fronte al pluralismo e al compromesso richiesti dalla democrazia moderna. È incline alla teoria della cospirazione, attirato da semplici generalizzazioni e pronto a diffamare gli altri.
Oliver e Wood non suggeriscono però delle soluzioni, si limitano a osservare il fenomeno e a lanciare avvertimenti. E questa mancanza di soluzioni un po’ spaventa. Kahnemann, invece, offre qualche speranza in più: se è vero che siamo portati ad agire più per l’immediatezza dell’intuito che per la lentezza del pensiero, qualcosa può comunque essere fatto.
Come società, quando forniamo istruzione, stiamo rafforzando il sistema 2 (quello del pensiero lento, ndr); quando insegniamo alle persone che ragionare logicamente è una buona cosa, stiamo rafforzando il sistema 2. Non renderà le persone completamente razionali o completamente ragionevoli, ma puoi lavorare in quella direzione. E certamente l’autocontrollo è una variabile di cui tenere conto: alcune persone ne hanno molto di più di altre e tutti noi esercitiamo l’autocontrollo più in alcune situazioni che in altre. E quindi anche creare condizioni in cui le persone hanno meno probabilità di abbandonare l’autocontrollo è parte della promozione della razionalità. Non ci arriveremo mai, ma possiamo muoverci in quella direzione.
Sono azioni che a molti potrebbero sembrare superficiali ma che possono essere comunque molto utili. Come ad esempio:
[…] insegnare la statistica ai giovani sarebbe utile, insegnare l’economia ai giovani sarebbe utile, insegnare il pensiero autocritico, o meglio ancora, come criticare le altre persone, perché questo è più piacevole e più interessante – queste cose possono essere fatte.
Ovviamente non basta. La politica stessa dovrebbe interrogarsi sulle misure da adottare per limitare il ricorso al pensiero veloce. Perché se il fast-thinking ha forse il merito di consentire alla classe politica di arrivare a cogliere le domande politiche che provengono da fasce di elettori marginalizzati, esso potrebbe anche avere un effetto corrosivo a lungo termine sulla democrazia stessa. Gli stessi dispositivi istituzionali che le democrazie si sono date per affrontare i limiti della razionalità umana potrebbero non essere sufficienti e le conseguenze sulle politiche pubbliche disastrose. E qualche riflessione sarebbe necessaria anche sul ruolo stesso della classe politica, così incline al pensiero veloce/intuizionismo da restarci intrappolata. Pensiamo alle tecniche di marketing che i partiti politici stessi hanno adottato per ricercare il consenso e a quanto queste conducano lungo il percorso di rafforzamento della modalità di pensiero rapido.
Se la politica ha favorito le risposte rapide – e vanno a farsi benedire decenni di discussione sui processi deliberativi – l’emergere di un’intensa copertura mediatica della politica ha poi contribuito a rafforzare il pensiero veloce. È per questa ragione che la risposta deve venire anche dai media. Almeno così la pensa il linguista George Lakoff.
In un recente articolo sulle bugie di Trump e sul loro effetto sui cittadini, l’autore del best seller Non pensare all’elefante chiama in causa proprio il ruolo dei media. Secondo Lakoff, Donald Trump utilizza i media per distrarre l’attenzione dei cittadini. Per farlo sfrutta le convenzioni giornalistiche attuali che prevedono di fornire rapida copertura ai tweet del presidente e alle “provocazioni” che lancia attraverso i social.
In tal modo, secondo Lakoff, i media non fanno altro che aiutarlo (oltre che a rafforzare il pensiero veloce, diremmo con Kahnemann): il presidente crea controversie, capitalizza sullo scandalo e la confusione che queste generano, alimenta le pulsioni più “intuizioniste” del proprio elettorato e mette la stampa nella spiacevole posizione del “partito di opposizione”.
Manipola i media continuamente twittando e dicendo cose sempre più scandalose. I media dicono: ‘Bene, dobbiamo coprire il presidente. Dobbiamo ripetere quello che dice’. Ma non c’è una vera ragione per cui questo debba accadere. I giornalisti potrebbero, se lo desiderano, ignorare i tweet del presidente.”
Nelle parole di Lakoff, se neghi il frame, la narrazione di un evento, attivi quel frame. Invece molti giornalisti pensano che il linguaggio sia neutrale:
[…] ma il linguaggio non è mai neutrale. È sempre inquadrato in un certo modo e ha sempre delle conseguenze. Se i giornalisti ripetono semplicemente la lingua utilizzata da Trump, vuol dire che non capiscono quello sta succedendo […] smascherare le bugie sulla teoria della cospirazione di Soros non funziona, perché per definirla una bugia ne parli. E parlandone e ripetendone il contenuto, lo rafforzi nella mente delle persone.
Quindi quale soluzione è possibile per un giornalista? Basta non riportare la notizia? Talvolta in effetti la notizia non c’è, ma è difficile che i giornalisti non riportino i tweet del presidente americano. Tra l’auto-censura e l’essere “complici” di Trump c’è un’altra soluzione, secondo Lakoff: la cosa migliore che i giornalisti possono fare è il cosiddetto truth sandwich.
[…] prima i giornalisti raccontano i fatti; poi devono far notare qual è la menzogna e quanto diverge dalla verità. E poi ripeti i fatti reali e racconti le conseguenze della differenza tra la verità e la menzogna.
Una goccia nel mare? Può darsi. Ma è anche questo un limite della nostra razionalità: pensare che esista una soluzione semplice e immediata, che vada bene per tutto, è forse essa stessa l’espressione del pensiero veloce. E se per districarci in un mondo sempre più complesso avessimo bisogno invece, e soprattutto, del lento processo di cumulazione di piccole soluzioni?

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