Il 28 novembre si è svolto a Ca’Foscari il convegno “Carlo Scarpa come educatore”, organizzato dal professor Paolo Pellizzari. Sono stata invitata e nell’occasione ho svolto alcune considerazioni su Scarpa e la Grecia. Ma strada facendo non ho potuto fare a meno di fare anche qualche osservazione d’intorno.
Qualche anno fa ho pubblicato il libro “A lezione con Carlo Scarpa” che a tutt’oggi (non lo dico per vantarmi) è considerato uno dei più importanti libri pubblicati su Carlo Scarpa: lo dice anche il figlio, Tobia Scarpa. Ora quel libro è esaurito.Rimane però l’unico libro con le parole autentiche, dalla sua viva voce, di Scarpa: ho “tradotto”, come dico sempre, le lezioni che ho registrate negli anni accademici 1975- 76. Dicevo: “tradotto”, in quanto la trascrizione pura e semplice delle parole in libertà di un grande artista – che però non era abituato alle lezioni accademiche (alle quali dovette abituarsi per le trasformazioni universitarie) che cominciava con un soggetto e i mille incisi della sua lingua parlata – avrebbe potuto rendere impossibile la lettura.
Quindi non potuto fare a meno di riferirmi a quelle parole: che ora si possono leggere e rileggere con varie interpretazioni. Ora io l’ho riletto, per una doppia fortunata opportunità: perché il libro sarà ripubblicato da un importante editore e perché l’occasione del convegno mi ha invitato a farlo.
Scarpa e la Grecia, dunque. Mi ha molto interessato il fatto che fin dalla prolusione del ’63-’64, Scarpa accenna “alla maniera dei greci” in riferimento all’interno di una capanna africana, a un letto in muratura rivestito con delle stoffe piegate, e, cito: “probabilmente come i greci tenevano i cuscini delle loro poltrone”.
Forse per un architetto il “citare la Grecia” potrebbe sembrare ovvio, ma lo è ancora, oggi?
Inizierò quindi da un’osservazione: la preoccupazione costante in tutta l’opera di Scarpa di “dare una definizione” alle parti o all’insieme, stabilendo limiti, e chiusure appropriate. È quanto emerge, anche dalle parole delle lezioni, nelle quali propone addirittura una ricerca con riferimento all’architettura antica, soprattutto greca.
Osservo che – come Leon Battista Alberti parte da Vitruvio, che tramanda nel suo De Architectura l’eredità greca e non quella romana del suo tempo – anche Scarpa conosce e cita Vitruvio e, pur non essendosi mai recato in Grecia, la sua citazione dell’architettura della Grecia antica, anche se mediata, è viva e precisa, e rappresenta un importante riferimento nella sua cultura.
E non sto a dirvi i testi che cita, sulla Grecia, sull’architettura classica, come per esempio quello di François Cali, L’Ordre grec. Essai sur le temple dorique (Paris, Arthaud, 1958); oppure l’autore Salomon Reinach, che ha scritto molto sull’arte antica; oppure cita un libro francese La Grèce à vol d’oiseau. Senza peraltro dimenticare autori italiani.
Ricordiamo, anche, che per i greci l’architettura fu quasi come una scienza; essi concepirono gli ordini architettonici non come regole materiali né modelli predeterminati, ma come regole ideali che possono tradursi in soluzioni diverse. Così, per esempio, l’ordine dorico più che una forma sensibile, visibile, è una forma intellettuale; tra la forma intellettuale e la realizzazione esiste un margine di modi diversi, nella scelta interpretativa dei quali trova spazio la libertà del progettista.
Infatti Scarpa (22/01/76) osserva:
l’Ellade antica andrebbe considerata, guardata e l’insegnamento che ci offre non consiste nella ricopia delle cose, è lo spirito che consente di vedere dentro le cose. Se noi esaminiamo quello spirito, lo leggiamo, lo studiamo, lo penetriamo e a forza di guardarlo questo fatto ci entra dentro, è probabile che un pizzico di armonia e di senso dei rapporti entri dentro a voi.
Quindi dirò, appunto, della ricerca proposta da Scarpa: quella di “dare una definizione” alle parti (con il riferimento che propone all’architettura greca).
Cominciamo con il ricordare tutti i diversi casi che Scarpa cita a proposito del “definire” una parte, le cornici. Posso dire, semplificando: egli le cita con diversi modi: terminale, chiusura, finale, cimasa.
Quello delle cornici è un argomento che risalta, dato che ne parla in ben sette lezioni.
Penso che la diversa tipologia delle cornici di chiusura di un muro sia apprezzata da Scarpa, nell’architettura antica, in ragione del luogo, della luce dello stesso luogo, ed anche in rapporto ai diversi punti di vista privilegiati delle opere antiche considerate.
Così, per esempio, Scarpa comincia – fin da una lezione del febbraio 1975, una delle prime – a dire: “E come fare la cimasa della finale del muro?” E citando una scrittura bizantina descritta da Ruskin nel suo libro “Pietre veneziane”, arriva a dire che la pietra sul muro di Sant’Iacopo di Rialto “l’ho trovata la più bella proporzione di chiusura di un muro che esista in città”. Non parla evidentemente, badate, di un elemento greco, ma, come diceva, si tratta di “quel pizzico di armonia e di senso dei rapporti” che gli derivano dall’insegnamento greco.
E poi osserva – e qui noi non possiamo non pensare alla tomba Brion:
oggi non si può fare, è troppo caro; ma si può fare anche con calcestruzzo, se usato bene. Allora bisogna fare una lunga discussione per verificare come tratteresti questa materia.
Certamente però, a mio parere, c’è una lezione che prelude alla Tomba Brion – quanto a riferimenti alla Grecia – ed è quella che si riferisce alla Banca Popolare di Verona. In questo caso sembra quasi che Scarpa voglia gareggiare, distinguendosi da Andrea Palladio che pur cita con grande attenzione.
Scarpa parte dal “tremar della forma” – che nota (ad esempio) nelle fiamme a coronamento in Palazzo Chiericati a Vicenza o su palazzi veneziani come la Ca’ d’Oro, le Procuratie Vecchie, il Palazzo Ducale, e che consentono quel movimento necessario, cioè, per vedere variabili, estreme luminosità al termine dell’edificio – per giungere a quella “finale” (al femminile) che gli permette di vedere, appunto, quel “tremare della forma”, quasi a sfumare l’edificio nel cielo.
Operazione e ragionamento complesso questo del partire dalle fiamme per arrivare al coronamento in facciata della Banca.
Intendo dire che se Scarpa parte dallo sfumare palladiano nel cielo, egli ricerca poi, in quella volontà di avere “tutto un nero a coronamento” anche una “luce al posto di un’oscurità”, sperimentando (banca permettendo) una moderna modanatura, nella quale inserisce sotto la “sua” metopa un elemento semisferico, di bronzo dorato, in modo che, da lontano, ci siano delle luminosità. Aggiungendo che – mettendo una piccola sfera d’oro – “l’oro brilla anche nell’oscurità, anche nel più buio assoluto, se vi palpita un raggino di luce.”

Banca di Vicenza. Modanatura nella quale è inserita una metopa, elemento semisferico di bronzo dorato
E conclude dicendo: “In certo senso io ho fatto il capitello”.
Si tratta a mio modo di vedere di un classico ragionamento di Scarpa: che proponendo, argomentando anche contraddicendosi, parte dal Palladio per arrivare… alla Grecia! Ma a me ha anche assai interessato, “intrigato”, la descrizione delle sfere dorate: all’esterno (sotto la metopa) e all’interno a legamento in alto delle colonne.
Perché quel suo dire (ripeto) “L’oro brilla anche nell’oscurità […] se […] vi palpita un raggino di luce […]” mi hanno ricordato le parole precise precise di Mario Praz, nello scritto Un interno pubblicato nel libro Voce dietro la scena (Adelphi 1980, Milano), quando descrive le diverse luci dell’appartamento di palazzo Ricci in via Giulia, nelle ore del giorno. Anche se Scarpa (per scaramanzia) non avrebbe mai citato Praz per la nomea che lo circondava. Ma lo conosceva assai bene. En passant: il libro di Praz è un gran bel libro, che consiglio.
Comunque è interessante anche notare quanto Scarpa si dilunghi, a proposito della Banca, su la finale, la zona alta e conclusiva dell’edificio, con una dettagliata descrizione. E anche sulle colonne interne, spiegando, oltre che la parte alta con le semisfere dorate, anche la base e le sfaccettature dei pilastri-colonne. In una moderna gara con l’antico, con la preoccupazione costante (come è in tutta l’opera di Scarpa) di “dare [appunto] una definizione” alle parti o all’insieme, stabilendo limiti e chiusure appropriate: una ricerca, insomma, con riferimento sempre all’architettura antica, soprattutto greca.
Dicevo precedentemente che Scarpa cita in ben sette lezioni la “cornice”, ma in ben undici lezioni su quattordici Scarpa cita la Grecia e le sue opere: cornice e Grecia sono sempre connesse.
Intendo dire cioè che le cornici – o terminale, chiusura, finale, cimasa, come le chiama – sono un elemento strettamente connesso alla grecità (come direbbe Scarpa), alla quale sempre si riferisce distinguendola dalla romanità, che ritiene una “civiltà spuria”.
È una ricerca – come sappiamo – che Scarpa s’impone fin dalle cose più semplici: per esempio, per la chiusura delle teste dei profilati metallici che usa; per la protezione di pareti e diaframmi con la posa, al minimo, di un piatto di ferro; per la marginatura dei pavimenti con la pietra.
La Banca Popolare di Verona – in tal senso – mi sembra la massima “ricerca sulla cornice, sul margine”: dai più piccoli particolari d’interno e di esterno, all’insieme tutto, nel quale il coronamento delle facciate è, come dicevo, una esplicita moderna gara con l’antico. Cito: “una modanatura secondo la tradizione e […] una metopa antica”.
Ma poi Scarpa si sofferma, in particolare, sulla Grecia nelle due lezioni sulla Tomba Brion: dove non fa riferimenti fra la sua opera e la Grecia (come nel caso della Banca), ma la Grecia incombe come un pensiero imminente, non come un evento minaccioso, ma da ponderare e considerare con vivo interesse. Meglio forse sarebbe dire “aleggia con leggerezza”.
Ma non posso non ricordare che perfino quando parla della Gipsoteca di Possagno e dei due muri di contenimento della vetrata-teca per le Tre Grazie compare
il Tempietto delle Core nell’Eretteo: una delle cose più belle della grecità [e] la sagoma che è sopra le grandi Core, una cosa mirabile.
In questo caso era alla ricerca di un “terminale” per quei muretti.
E la Grecia allora aleggia sulla Tomba fin dal “gocciolatoio della fronte della cornice dell’Eretteo [che ritorna!] dove stanno le belle Kore.” Scarpa ricorda anche l’emozione che ha provato sentendo quella forma, “è un volo”, che paragona a una nota musicale. Ma quell’ornamento fa sempre parte della “cornice”.
Nelle lezioni Scarpa si sofferma su elementi del dorico e dice sul loro significato spaziale: analizza la pausa rappresentata dalla metopa fra due triglifi. Oppure, disegnando la sezione di una colonna, sottolinea come attraverso l’uso del modulo fosse possibile misurare anche lo spazio scanalato fra due spigoli della stessa colonna. E
fra quel vuoto e quel pieno c’è una relazione di armonia inimmaginabile.
Nel caso Brion l’argomento “cornice” o coronamento (quindi la sua Grecia) compare con un’attenta ricerca nel caso del Tempietto e dei Propilei.
- Tempietto
- Propilei
Sottolineerò solo alcune citazioni e i riferimenti di Scarpa fra la Tomba e la Grecia, come quando parla di
Quei piccolissimi rapporti che fanno splendide alcune modanature o sagome che hanno fatto gli architetti della Grecia […] Bisognerebbe abituarsi a distinguere, ad avere orecchio musicale [ricordando che] la metopa è lo spazio, anzi in greco vorrà dire proprio così, tra i triglifi.
Oppure ancora parla dell’Eretteo o della Vittoria Aptera, dei templi greci, e cita ben dieci volte (nella seconda lezione Brion) la Grecia e anche la Grecia classica, la Grecia ellenistica, ricordando che “la Grecia è sempre stata la mia passione”,
per concludere con Le Corbusier e la modanatura del Partenone, e il suo dire di “moralità dorica” in Vers une architecture.
Certo, Scarpa cita esplicitamente il Giappone nel caso della Tomba, soprattutto quando ci rende palese, ci manifesta la Tomba nelle forme. Intendo dire che ogni suo riferimento all’Oriente, e al Giappone in particolare, è una “variante”, cioè sempre in relazione a un oggetto, un pensiero, occidentale; e che quell’”aleggiare” della Grecia, anche se non fu un riferimento detto esplicitamente nelle forme a proposito di Brion, ha un riferimento profondo, robusto nel pensiero di Scarpa, anche per le sue tante frequentazioni letterarie.
Talvolta, insomma, credo che quando si vuol privilegiare l’aspetto “orientale”, in riferimento a forme e lemmi usati da Scarpa nel caso Brion, si voglia quasi avvalorare quella sconsolante definizione di “formalista”, con la quale taluno lo cita. Mentre io invece, vorrei ricordare, per concludere, il Padiglione per la Meditazione nel complesso della Tomba. E ricordare anche le sue (di Scarpa) precedenti frequentazioni “foscoliane”, come nel caso di Possagno: Scarpa – a me sembra evidente – ha ben conosciuto Le Grazie, Carme (dedicato) ad Antonio Canova di Ugo Foscolo e soprattutto quell’Inno Terzo dedicato a Pallade dea della virtù.
Così io vedo, per esempio: nello spazio di sosta meditativa l’isola remota in cui Pallade condusse le Grazie a loro protezione; poi, nella porta vitrea (quella che, aperta, sprofonda nell’acqua) l’inaccessibilità a chi non sappia meditare su quanto offre la vita umana, così come in quel foscoliano “Inno Terzo” l’inaccessibilità all’isola agli uomini impegnati nell’azione di guerre sanguinose;
e nella copertura del “padiglione” vedo il velo delle Grazie, raffigurante la giovinezza, l’amore coniugale, l’amore materno: quel velo che protegge dalle passioni umane le Grazie.
Certo nel caso della Tomba Brion una mediazione fra forme orientali e cultura occidentale ci fu, ma in architettura e nelle arti in genere, è importante mi sembra la formazione e la costruzione del pensiero di un artista, i suoi riferimenti e il suo mondo culturale: ed è indubbio che Scarpa ebbe una cultura occidentale fortemente sedimentata, fra Grecia e letteratura. Penso perciò che bisognerebbe sempre saper distinguere fra le forme e il loro significato.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!
1 commento
Ciao Franca Semi. A quando un tuo completo saggio sul pensiero del Professore?