Mediterraneo, le rotte si fanno in quattro

Con la Libia diventata un passaggio ad alto rischio per i migranti africani, si aprono nuove vie di passaggio in Tunisia, Marocco e Algeria. Con rischi sempre più allarmanti, come l’infiltrazione di terroristi.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Un bilancio che racconta una tragedia che non ha fine. L’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ha reso noto che dall’inizio del 2018 a novembre su un totale di 107.583 migranti e rifugiati giunti in Europa via mare, 2.133 sono morti nelle acque del Mediterraneo. Nello stesso periodo dell’anno scorso, l’Oim aveva registrato 164.908 sbarchi, di cui 117.120 solo in Italia, e 3.113 decessi in mare. Gli arrivi in Italia nei primi undici mesi dell’anno sono stati 23.011, con un declino dell’80 per cento rispetto al 2017.

Il Mediterraneo “rappresenta per rifugiati e migranti la rotta marittima a maggiore rischio di decessi del mondo”, rimarca un recente rapporto dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). E soprattutto lo è quando si tratta di raggiungere l’Italia, dove si sono registrati oltre la metà dei decessi dell’ultimo anno. Provi a chiudere una rotta, se ne aprono altre quattro. Il problema dei problemi si chiama frontiere esterne. Che poi si traducono in rotte: quella libica, quella tunisina, quella marocchina e ora anche quella algerina. Quattro rotte per quattro paesi che, ognuno con la sua specificità, presentano segni preoccupanti di crisi: politica, sociale, istituzionale.

Si emigra per disperazione, ma anche per protesta. È il caso dell’Algeria. Annota Kamel Daoud, in un pregnante reportage per The New York Times, riportato da Internazionale:

La migrazione degli algerini, la harga, è un problema perché uccide molte persone. Ma soprattutto è un problema per il governo di Algeri: il fatto che i suoi cittadini intraprendano un viaggio così pericoloso è la prova evidente dei suoi tanti fallimenti, politici ed economici, della sua politica repressiva, della disoccupazione e dell’aumento del costo della vita.

Tutti, rimarca Daoud, conoscono i corridoi di fuga. Dall’estremità orientale del paese, a circa cinquecento chilometri da Algeri, si parte verso l’Italia. Dalla regione di Orano, nella parte occidentale del paese, la destinazione è invece la Spagna. Per partire bisogna mettere in conto una spesa di quasi mille euro (il salario minimo garantito in Algeria è di diciotto mila dinari al mese, meno di centotrenta euro al tasso di cambio attuale al mercato nero), che non comprende l’attrezzatura di salvataggio né provviste.

Il “muro” nella città di Melilla

La traversata verso la Spagna, spiega lo scrittore e giornalista algerino, dura un giorno, nel peggiore dei casi due. Il fatto è che Madrid ha securizzato la “rotta algerina” e questo ha finito per rafforzare la tratta per l’Italia (aprendo peraltro un quarto fronte: quello col Marocco). Ecco allora riemergere la necessità di un “patto euro-mediterraneo” che non lasci sola l’Italia a farsi carico dei salvataggi in mare e dell’accoglienza, e che con una visione più lungimirante riporti a Bruxelles la questione, ineludibile, di un “Piano Marshall per l’Africa”.

“Se mi chiede qual è la mia più grande preoccupazione in questo momento, allora dico la Spagna”. A sostenerlo è il direttore di Frontex Fabrice Leggieri in un’intervista rilasciata quest’estate al quotidiano tedesco Welt Am Sonntag, nella quale ha chiarito che la rotta più importante intrapresa dai migranti provenienti dal Niger, attraverso il Marocco, è quella che procede verso la Spagna. Sempre più spesso i trafficanti del Niger offrono ai migranti di portarli in Europa attraverso il Marocco anziché la Libia. A giugno si sono avuti circa seimila attraversamenti irregolari di frontiera dall’Africa nel Mediterraneo occidentale:

Se i numeri crescono lì come hanno fatto negli ultimi anni, questo percorso diventerà il più importante

avverte Leggeri.

Quella che si sta consumando sulle due sponde del “Mare nostrum” è una partita che investe affari, petrolio, geopolitica, nuovi equilibri di potenza in una delle aree più turbolente del pianeta. Una partita che, sul fronte-migranti, sta assumendo tratti nuovi e, per l’Italia, allarmanti. Perché, a Sud, le nostre frontiere esterne sono composte da paesi che non sono solo più di transito per migranti e rifugiati, ma di origine. È il caso della Tunisia.

Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri (secondo il Forum tunisino dei diritti economici e sociali, tra il 2011 e il 2016 il 74.6 per cento delle persone che hanno lasciato il paese sono cittadini tunisini). Sebbene negli ultimi mesi il flusso di migranti sub-sahariani lungo il confine tunisino-libico sia cresciuto (migranti che vengono in Tunisia per trovare lavoro e raccogliere i soldi per pagare i passeur), a oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna.

Sicurezza e sviluppo, investimenti che diano speranza, cioè lavoro, a popoli giovani. Vanno in questa direzione i finanziamenti per cinque miliardi e mezzo di euro che saranno assegnati alla Tunisia da otto fondi internazionali. Le istituzioni coinvolte nell’iniziativa sono l’Agenzia francese per lo sviluppo, la Banca africana per lo sviluppo, la Banca europea per gli investimenti, la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, la Banca tedesca per lo sviluppo, la Società finanziaria internazionale. I fondi, ha spiegato il commissario europeo per la politica di vicinato e i negoziati per l’allargamento, Johannes Hahn, serviranno a sostenere il paese nel corso del processo di costruzione democratica, e risponde, in termini concreti e vincolanti, all’appello del presidente tunisino Beji Caid Essebsi ai partner della Tunisia per sostenere la giovane democrazia tunisina in un passaggio di estrema delicatezza.

Un discorso che investe l’insieme del Nord Africa. Sviluppo, benessere, lavoro sono le “armi” più incisive per contrastare il proselitismo jihadista tra i giovani attratti dalle organizzazioni dell’islam radicale armato anche, e per certi versi soprattutto, dal “salario” erogato. In questo contesto, emerge il “caso Marocco”. Marocco, fucina di jihadisti. Il Marocco è il secondo esportatore di terroristi dell’Africa del Nord, dopo la Tunisia. Sono oltre duemila i combattenti di origine marocchina che si sono arruolati nell’Isis in Siria e Iraq. Anche negli attentati di Barcellona e di Turku, in Finlandia, gli autori sono originari del Marocco.

Da molto ormai le autorità di Rabat sono preoccupate per un nuovo flusso di migranti illegali provenienti dall’Africa sub-sahariana che scelgono il Marocco come punto di transito verso l’Europa.  Dall’inizio dell’anno, quasi 52.000 migranti hanno raggiunto le coste spagnole, sempre secondo il rapporto dell’Oim, metà di quelli che hanno attraversato il Mar Mediterraneo. Le forze di sicurezza marocchine hanno fermato dal 2002 al marzo 2017 più di trecento e settanta mila tentativi di immigrazione clandestina verso l’Europa. Allo stesso modo sono 3.094 le reti di trafficanti di esseri umani che sono state smantellate da quell’anno. Ma è una lotta infinita. Perché, come al Qaeda e l’Isis, anche gli schiavisti del Terzo Millennio hanno imparato a reinventarsi. In modus operandi. E in rotte da solcare. Rotte mortali.

Mediterraneo, le rotte si fanno in quattro ultima modifica: 2018-12-06T16:01:47+01:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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