A Treviso, nove anni fa, il primario del Centro cardiologico dell’Ospedale Ca’ Foncello, Zoran Olivari, decise di allestire nei locali ambulatoriali una mostra d’arte contemporanea di durata annuale, con l’intento di creare così un diversivo per i centocinquanta-duecento pazienti giornalieri – presenti in gran parte con i relativi accompagnatori – in attesa di controlli ed esami. Con sei artisti concertò un titolo acconcio: “L’Arte fa bene al cuore”; e in breve il progetto prese corpo, rivelandosi indovinato, anche nei pareri del personale medico-sanitario, tanto da far decidere di continuare a organizzare altre esposizioni negli anni successivi. Carattere precipuo dell’iniziativa era il costo “zero”, grazie alla disponibilità dei coinvolti a vario titolo: i critici d’arte che avrebbero curato le successive edizioni, gli artisti e l’editore dei cataloghi. Seguirono otto esposizioni – con quattro artisti volta per volta – fino al pensionamento del primario nel 2018.
Le pareti vuote dei mesi successivi devono essere apparse desolatamente spoglie a quanti lavorano lì in permanenza, e la proposta del dirigente di cardiologia, Francesco Perissinotto, di continuare nelle mostre passando dalla pittura alla fotografia è stata accolta favorevolmente dal nuovo primario, Carlo Cernetti, restando immutate le modalità di realizzazione a costo “zero”. E un team operativo si è formato rapidamente con dodici fotografi veneti di riconosciuta levatura, scegliendo per tema Treviso città e dintorni. Il titolo “Battiti nel paesaggio” non poteva essere più appropriato, sia per il riferimento a dove ha luogo la mostra, sia per i diversi linguaggi concettuali o emozionali degli autori.
Nella rassegna – che si inaugura giovedì 13 dicembre ed è in calendario fino a dicembre 2019 – è singolare la presenza di una figura storica dell’800 trevigiano, Giuseppe Ferretto (1826-1872), che nel 1863 aveva fondato uno stabilimento fotografico in città, retto poi dagli eredi fino al 1921. Una sua veduta – una tra le tante da lui eseguite per documentare la città, su commissione delle autorità locali – è stata concessa in prestito dal collezionista Giuseppe Vanzella, titolare della quasi quarantenne Libreria antiquaria di Treviso. Datata 1872, appartiene a una fase già matura della nuova arte e, intitolata “Fabbrica di stearina e pila di riso”, riprende da una riva del Sile due stabilimenti industriali costruiti sull’altra sponda, uno per la produzione di candele e l’altro per la lavorazione del riso. Ormeggiato di lato, uno dei trabaccoli adibiti al trasporto di quelle mercanzie, con equipaggio pronto a bordo.
Dei dodici, che partecipano con complessive cinquanta immagini, ben otto prediligono il bianco-nero analogico, seguendone per intero il processo di sviluppo e stampa, e i rimanenti quattro il digitale a colori. Nati tra il 1939 e il 1980, hanno Alberto Nascimben tra i due più anziani, che da sempre fotografa con appassionata perizia, dedicandosi, per periodi a volte lunghi, a cicli tematici che possono comprendere la montagna, o il bosco, o un’intera nazione. Qui è la sua Treviso, quella dei posti noti e frequentati, ripresi però con la pazienza di attendere il momento in cui sono deserti: niente uomini, né animali, né automobili.
Il coetaneo è Cesare Gerolimetto, il cui nome sta nella lista dei primati Guinness per il viaggio in camion più lungo del mondo: 184.000 km percorsi dal 1976 al 1979 in quattro continenti, toccando la massima altitudine per quel mezzo di trasporto sul passo di Chacaltaya, in Bolivia, 5.380 metri. Tali circostanze gli fecero sentire la necessità di documentare visivamente un’impresa tanto eccezionale e lo convinsero, cinque anni dopo, ad applicarvisi professionalmente. Qui l’Università di Treviso appare in un unico scatto con due diversi riflessi – simmetrico all’edificio sull’acqua del Sile, e sbilenco sul tetto di una macchina parcheggiata in primo piano – che rendono l’insieme dinamico e otticamente ambiguo.
Il Sile è il soggetto anche delle inquadrature di Paolo Guolo, classe 1944, scultore, allievo di Alberto Viani, ex-docente di figura e ornato al liceo artistico, cofondatore del Gruppo Magnum ’70 e da sempre cultore della fotografia. A lungo ha impiegato il metodo Polaroid perché, fornendogli stampe non riproducibili, non permetteva manipolazioni, mentre però gli offriva una plasticità scultorea, in un certo modo conservata nel passaggio alla flessibilità del digitale, con cui ha fermato, in questo esempio, il diafano apparire di un’ombra nella corrente del Sile.
Tra gli autori delle generazioni della seconda metà del secolo scorso, il primo della lista è Carlo Barbon (1952), che con la propria ricerca si schiera dalla parte di una fotografia sincera, mirando al significato intimo delle realtà che emergono dalle sue nebbiose atmosfere notturne.
Un intimismo che in Francesco Schirato, 1955, graphic designer e acquerellista, si veste di sensibili emozioni in uno scorcio boschivo innevato e in questo paesaggio collinare a perdita d’occhio, sfumati dai neri ai grigi fino ai quasi bianchi: due visioni – fatte con Panoramic-camera Hasselblad – ugualmente magistrali nel penetrare l’infinito.
Il paesaggio coniugato all’architettura sta nell’esercizio della fotografia di Gianantonio Battistella, 1957, architetto e docente universitario. Nelle stampe qui esposte, dal germogliare di un canneto alla convivenza con l’opera realizzata dall’uomo, edifici o altro che siano, la vegetazione vive in ogni sua fase spontanea, assecondando il fluire del tempo.
Loris Menegazzi, 1960, svizzero di nascita e curatore della rassegna, possiede una straordinaria acuità visiva. Le sue immagini puntano su un elemento essenziale nella costruzione della scena: si tratti di un mucchio compatto di asfalto che quasi ostruisce una strada di campagna, di tre alberi rinsecchiti sferzati dal vento – ritto quello di destra, inclinato come se stesse cadendo il centrale, a terra il terzo, come in una successione di movimento – o di un’infermiera in posa lungo un viale dell’ex manicomio di Treviso, trasformato poi in sontuosa sede della Provincia. Apparentemente di facile lettura, vanno invece guardate sotto quattro diversi aspetti: ordine, natura, illusione e umanità.
Di tutt’altro impatto le architetture di Marco Zanta, 1962, docente universitario e autore di volumi di storia della fotografia, storia dell’architettura e monografie tematiche, presente in sedi internazionali (tra cui la Maison Européenne de la Photographie a Parigi, il Museo d’Arte Contemporanea di Shanghai, l’Espace Contretype di Bruxelles e più edizioni della Biennale di Venezia). Resta fedele alla propria inclinazione per ritrarre spazi urbani, siti industriali e architetture, pubbliche o private, che si prestino a una sintesi geometrica, di cui esalta l’essenzialità formale con prospettive rigorose e luci ricercate in determinate ore del giorno, che personalizzano in modo inequivocabile il suo fare.
Fotoreporter per vocazione, Enrico Colussi, 1963, produce in gran parte istantanee modulate sul momento per captare – istintivamente, grazie a decenni di ininterrotta pratica – le verità nascoste nel quotidiano, con il digitale che in quelle condizioni è di norma.
Proseguendo per cronologia di nascita, Massimo Sordi, 1965, architetto, docente universitario, curatore di eventi culturali, co-curatore del Padiglione Venezia alla Biennale Architettura nel 2016, propone incontri ravvicinati con una natura incontaminata e plasmata di sfumature, dove l’aura di una vaga spiritualità non è soltanto immaginaria.
Gian Luca Eulisse, 1966, ha sviluppato il suo occhio seguendo le orme di operatori autorevoli (Fastenaekens, Guidi, Salbitani) e lavora al Foto-archivio storico trevigiano (FAST); per l’occasione ha riunito prospettive sghembe di edifici di città che dalla prossimità delle pareti e dal contrasto tra luci e ombre traggono una loro determinata monumentalità.
Il più giovane del gruppo, Luca Radatti, 1980 – laureato in economia e ispirato in fotografia da maestri quali Castella, Guidi, Johansson, Kurtis e Zanta – con il suo modo di esperire il linguaggio comunicativo del soggetto unico (un autocarro coperto da un telo bianco, un muso di cavallo dalla porta del box, un cartello pubblicitario vuoto davanti a un muricciolo, un gazebo con dietro una tribuna, entrambi deserti, una giovane donna in t-shirt) mostra una spiccata inclinazione alle mise-en-scène.
A proposito dei contenuti di questi scatti che in modo differente richiamano l’habitat umano, nel testo introduttivo della mostra Elsa Dezuanni scrive:
Contesti dai possibili risvolti positivi, tuttavia oggi minacciati dalla diffusa e radicata incuria nei confronti delle responsabilità nel cercar di stabilire un’armonia tra ambiente naturale e necessità antropiche. Dal fascino delle fotografie esposte può anche venire, dunque, lo spunto per delle riflessioni.

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