Arte africana. È ora di restituire il maltolto

La Francia ha deciso di rimpatriare in Benin i tesori saccheggiati in epoca coloniale. Il Senegal ha avanzato una richiesta simile e altri Paesi sembrano volerli seguire. Olanda, Regno Unito e Germania in sintonia con Parigi
MARCO MICHIELI
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[PARIGI]

Anche se si trova a breve distanza dalla Torre Eiffel, il Musée du quai Branly è visitato di rado da chi viene per la prima volta a Parigi (e, spesso, neppure da chi ci viene una seconda volta). Eppure ha una delle collezioni più importanti di arte africana di varie epoche: circa mille pezzi provenienti da vari musei parigini e qui radunati nel 2006 quando venne aperto per volontà dell’allora presidente Jacques Chirac, di cui porta anche il nome. Il nome del museo sarebbe in realtà Musée des Arts premiers ou des arts et civilisations d’Afrique, d’Asie, d’Océanie et des Amériques (Museo delle arti primitive o delle arti e civiltà d’Africa, Asia, Oceania e Americhe) perché vi si trovano settantamila opere d’arte provenienti da tutto il mondo, per lo più entrate a far parte del patrimonio museale francese tra il 1885 e il 1960, durante la colonizzazione.

Dall’arte dogon del Mali ai tesori del Benin, dalle pitture cristiane dell’Etiopia all’oggettistica proveniente dal Congo e dal Gabon sono numerosi i capolavori dell’arte africana presenti nel museo che, sin dalla sua nascita, fu oggetto di forti polemiche (del tipo: qual è la differenza tra arte e cultura o perché definire l’arte non occidentale come arte primitiva).

Soprattutto l’acquisizione di queste opere d’arte fu, ed è, oggetto di polemiche: è possibile infatti creare un museo che raggruppa oggetti provenienti da paesi colonizzati, la maggior parte dei quali acquisiti attraverso veri e propri saccheggi, come il tesoro di Ségou o quelli del palazzo reale di Béhanzin a Abomey in Benin? Se la risposta che fino a oggi i francesi si erano dati era essenzialmente affermativa, non la pensavano così i numerosi paesi africani che negli ultimi anni hanno richiesto la restituzione di buona parte di queste opere d’arte. Senza grande successo. Come in altri paesi europei, infatti, valgono per il sistema museale francese tre principi fondamentali: inalienabilità, imprescrittibilità, insequestrabilità. In breve non possono essere restituiti.

Qualcosa però sta cambiando. Recentemente la Francia ha deciso di restituire al Benin, che ne aveva fatto richiesta, proprio i tesori saccheggiati dal generale Dodds nel palazzo di Béhanzin nel 1892. Il Senegal ha avanzato una richiesta simile e altri paesi sembrano volerli seguire. Tutto nasce da un nuovo rapporto sulla restituzione delle opere d’arte ottenute durante il periodo coloniale richiesto da Emmanuel Macron, poco dopo una sua visita ufficiale nel Burkina Faso.

Qui nel novembre 2017 il presidente francese aveva dichiarato:

Anche se qualcuno pensa che non sia la cosa più importante, nell’immaginario delle persone, riappropriarsi del proprio patrimonio, penso sia qualche cosa d’importante. Ed è anche, nella relazione con il continente africano, la dimostrazione di una volontà di ritornare ad un rapporto più equilibrato.

Alle parole seguiranno poi dei fatti. Felwine Sarr, scrittore e studioso senegalese, e Bénédicte Savoy, storica dell’arte francese, vengono incaricati di redigere una relazione “sur la restitution du patrimoine culturel africain” (sulla restituzione del patrimonio culturale africano) per creare “une nouvelle éthique relationnelle” (una nuova etica nelle relazioni) che hanno rimesso nella mani del presidente francese qualche settimana fa. Il rapporto ha suscitato molte reazioni in Francia come nel resto del mondo.

Maschera Pendé, Congo, (XIX secolo), Musée du quai Branly

Sarr e Savoy vi sostengono infatti che, per creare relazioni più eque tra la Francia e i paesi africani (al di sotto del Sahara, quindi con l’esclusione dell’Algeria e della Tunisia), la restituzione del patrimonio africano debba essere considerato con attenzione. I due studiosi sottolineano soprattutto la revisione della principio generale di inalienabilità della collezioni pubbliche francesi, suggerendo un percorso di valutazione per la restituzione delle opere – che deve partire da una richiesta del paese africano interessato – che possa poi portare alla restituzione del bene sottratto in maniera non legale: cioè tutti quei beni sottratti durante l’epoca coloniale, frutto di saccheggi e di appropriazioni. Ne sarebbero quindi esclusi tutti gli oggetti d’arte frutto di lasciti. Gli studiosi stimano comunque il numero delle restituzioni intorno all’ottanta-novanta per cento del patrimonio artistico africano presente nei musei francesi.

La restituzione delle opere d’arte sottratte durante il periodo coloniale rientra nella critica che il presidente Macron ha fatto al periodo della colonizzazione francese, critica non ben accolta dalle forze politiche della destra – Les Républicains e Marine Le Pen – ma anche da una parte dei cittadini francesi. Qualche tempo fa Macron aveva definito la colonizzazione “un crimine contro l’umanità”:

La colonizzazione fa parte della storia francese. È un crimine, un crimine contro l’umanità, una vera barbarie. E fa parte di quel passato che tutti noi dobbiamo guardare in faccia, presentando le nostre scuse nei confronti di quelle e quelli contro i quali abbiamo commesso questi gesti.

Nessuno aveva mai osato parlare in questi termini della colonizzazione francese. Né, prima d’oggi, qualcuno aveva osato porre il problema della restituzione delle opere d’arte sottratte. Un tentativo coraggioso di voltare pagina sulla “Françafrique”.

Il problema della restituzione delle opere d’arte non sembra tuttavia limitarsi alla Francia. In seguito al rapporto Sarr e Savoy anche altri paesi hanno cominciato ad affrontare il tema. È il caso dei Paesi Bassi, dove quattro istituzioni museali hanno deciso di studiare l’origine di circa 450.000 oggetti d’arte, al fine di restituirli ai loro legittimi proprietari, soprattutto i paesi africani. Come i 139 oggetti d’arte rubati dall’esercito britannico nel 1897, durante una spedizione nell’antico regno del Benin, e conservati oggi anche nei Paesi Bassi.

Secondo il direttore del Museo nazionale delle culture del mondo (l’insieme dei quattro musei)

si tratta di una questione morale e etica […] anche se la situazione è complessa: tutti gli oggetti d’arte che sono stati trasportati nei Paesi Bassi in quattro secoli di legami coloniali non ricadono necessariamente nella categoria degli oggetti rubati o saccheggiati. Si tratta di adottare un approccio più sfumato.

I musei olandesi potranno però solo proporre la restituzione. L’ultima parola spetterà allo stato. E il dibattito sul colonialismo che si accompagna a quello sulla restituzione delle opere d’arte, anche nei civili Paesi Bassi, potrebbe toccare qualche nervo scoperto in tempi di crisi delle identità nazionali.

Non molto diversa la situazione in Germania dove il ministero della cultura ha pubblicato un codice di condotta con le linee guida sul rimpatrio delle opere d’arte sottratte illegalmente.

E anche nel Regno Unito, dove il direttore del Victoria and Albert Museum ha suggerito la possibilità di “restituire” circa ottanta artefatti rubati dal palazzo dell’imperatore abissino Tewodros II nel 1868 dalle ruppe coloniali britanniche, attraverso un prestito di lunga durata. Anche se non a tutti piace il concetto di prestito di lunga durata. Secondo il consigliere legale delle Nazioni Unite Kwame Opoku

i prestiti di lunga durata rappresentano la percezione che l’Europa ha di se stessa: come se avesse un diritto e un obbligo divino a sovrintendere gli africani e le loro attività, incluso tutto ciò che è la proprietà africana e le sue risorse.

Il problema della restituzione è in effetti complesso per ragioni giuridiche innanzitutto. La convenzione Onu sul traffico illecito di beni culturali obbliga infatti soltanto gli stati alla restituzione dei beni sottratti dopo l’entrata in vigore della convenzione, che è del 1970 e quindi molto tempo dopo la fine degli imperi coloniali occidentali.

Angelo guardiano, Etiopia (XIX secolo), Musée du quai Branly

Ma ci sono anche problemi “tecnici”. Con quali criteri dovrebbero essere restituiti questi oggetti d’arte? Come si valuta l’esistenza di un consenso dei proprietari, visto che molto spesso mancano i documenti necessari e che, accanto a furti e saccheggi, molte opere d’arte sono state acquisite tramite baratti o acquisti più o meno equi? La posizione di forza del paese colonizzatore negli scambi “equi”, cioè in quegli scambi che hanno previsto qualche cosa in cambio, non contava nulla? E a chi dovrà essere restituito l’oggetto se non si sa dove è stato preso?

I dibattiti non mancano. Gli esperti che esprimono contrarietà a questa restituzione sottolineano che molti di questi artefatti non avrebbero visto la luce se non ci fossero stati degli scavi, più o meno legali. Inoltre, i critici avvertono sul carattere nazionalista che operazioni di questo tipo possono esprimere e le conseguenze “autoritarie” per molti stati africani, nati da confini costruiti a tavolino e ricchi di culture e popolazioni differenti. Molti altri osservano che in molti degli scavi condotti nei paesi africani i lavoratori erano sfruttati o non pagati; gli stessi artefatti che gli occidentali vorrebbero tutelare e che ritengono non sarebbero sufficientemente custoditi nei paesi africani, dimenticano che nel trasporto dei manufatti molti sono stati distrutti o perduti proprio nel processo di “conservazione”.

Forse però ciò che resta difficile affrontare, in tempi di declino economico dei paesi europei, è proprio il tema del colonialismo che ne mette in discussione storia e identità.

Il tema del colonialismo in Francia è difficile da affrontare. Se ne comincia a parlare negli anni Duemila, quando la république riconosce lo schiavismo come un crimine contro l’umanità, e il dibattito si concentra soprattutto sulla guerra d’Algeria e poi sulla polemica legge del 2005 sul riconoscimento degli effetti positivi della colonizzazione (poi modificata per le proteste). Perché il problema per molti francesi è che la patria dei diritti umani e dell’Illuminismo poco avrebbe a che fare con la costruzione dell’impero coloniale. Eppure nella patria de “liberté, égalité, fraternité” i popoli coloniali godevano di uno statuto inferiore rispetto ai cittadini francesi. Senza contare i massacri commessi in molte regioni. Un problema che riguarda la Francia e molti altri paesi europei. Come l’Italia.

La costruzione del mito degli italiani come “brava gente” cozza con la realtà storica. Nell’Italia repubblicana fornire un’immagine all’interno e all’esterno di un paese vittima di altri e fondamentalmente “buono” nella colonizzazione era uno strumento per garantire la stabilità di una giovane democrazia. Eppure Angelo Del Boca scrisse dei centomila libici morti tra il 1911 e 1932 o degli oltre quattrocentomila etiopi morti tra il 1887 e il 1941. Il dibattito sul colonialismo italiano e sui suoi crimini rimane molto scarso. Soprattutto preoccupa la quasi totale assenza della storia coloniale italiana nei programmi scolastici. E anche quando si affronta la tematica della restituzione – come nel caso dell’obelisco di Axum – le polemiche non sono mai esenti da un uso strumentale della storia (la difesa del colonialismo, o peggio, del regime fascista che quella guerra la fece).

Maschera Eket, Nigeria, (XX secolo), Musée du quai Branly

In effetti un problema per gli occidentali rimane la narrazione del colonialismo. Come raccontare una pagina buia della storia dei paesi europei senza politicizzarla e trasformarla in oggetto di polemiche partigiane? Si può trovare una chiave di lettura che cerchi di smarcarsi dalla colpevolizzazione del passato e nel contempo riconosca che il racconto di quelle esperienze storiche è stato manipolato e utilizzato per glorificare il passato e la gloria dei paesi occidentali? Come separare la storia come disciplina dall’uso della memoria collettiva?

Ogni volta che si parla invece di questioni coloniali due punti di vista partecipano al dibattito: da un lato quelli che privilegiano la dimensione etica e che utilizzano l’epoca coloniale per giustificare, spesso in maniera anacronistica, scelte politiche legate all’immigrazione; dall’altro lato coloro che rifiutano di affrontare la questione del colonialismo perché si tratta di scelte passate (più o meno sbagliate a seconda di chi ne parla), che non richiedono alcuna scusa ufficiale, fino al punto di arrivare a giustificare il colonialismo come un’epoca portatrice di civiltà ai paesi che ne furono vittime.

La discussione sulla restituzione delle opere d’arte africane è quindi molto più complessa e non riguarda soltanto la cultura e la storia dei paesi africani che ne sono i principali interessati. Investe infatti la storia, la cultura e l’identità stessa dei paesi occidentali che sull’essere “pro” o “anti” colonialismo hanno costruito retoriche variegate che alimentano il dibattito politico e influenzano le politiche pubbliche.

Arte africana. È ora di restituire il maltolto ultima modifica: 2018-12-10T00:01:56+01:00 da MARCO MICHIELI
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