O Gorizia tu sei maledetta. Era una canzone anarchica e antimilitarista composta a ridosso di una battaglia (di Gorizia per l’appunto) costata trentamila morti in un colpo solo fra il 9 e il 10 agosto del 1916, riesumata negli anni Sessanta da Cesare Bermani ed entrata allora nel repertorio dei vari canzonieri popolari. L’avete sentita per caso intonare di recente a uno dei tanti appuntamenti celebrativi per il centenario della Prima Guerra Mondiale? Certo che no. E del resto mica potrete mai dire di aver visto programmato ultimamente, da qualche parte (in televisione, al cinema, altrove), Uomini contro (1970) di Francesco Rosi, dal romanzo di Emilio Lussu, altro atto d’accusa nei confronti di quella guerra. Non s’usa. Non s’usa più. Meglio la condivisione del secondo Risorgimento, la nascita o rinascita della Patria, finalmente Trento e Trieste. Meglio glissare e condividere, la famosa memoria condivisa che va a sovrapporsi alla storia uniformando il passato secondo le necessità e opportunità del momento. E pazienza se un gondoliere fodera di fasci i suoi cuscini: goliardate. Oppure se una signora indossa una shirt reclamizzante Auschwitzland: inezie, folclore. D’altra parte, se abbiamo un ministro degli interni che continua ad ostentare il “Me ne frego!” di mussoliniana memoria, qualcosa vorrà pur dire.
Ecco perché quando Nanni Moretti sbotta davanti a un torturatore di Pinochet in cerca di facile “riconciliazione”, in quel momento Nanni è tutti noi. “Io non sono imparziale!”, parole sante, da mandare a memoria per i tempi bui che si stanno preparando, la cosa nera che avanza minacciosa liquidando per prima cosa, oggi con una battuta domani con qualcosa di più pericoloso, il ricordo di ciò che è stato. E la piena consapevolezza che quel che è stato può sempre tornare ad essere. In forme diverse, beninteso, ma non meno devastanti, il rimosso di cui parlava la psicoanalisi, o forse i corsi e ricorsi di vichiana memoria, la tragedia che si fa farsa per poi tornare a essere tragedia. Fate voi.
Santiago, Italia è film da vedere, appartiene – guardando all’attualità, allo spirito del tempo maligno – a quella categoria dei film “necessari” dove già abbiamo collocato giorni fa il Menocchio di Alberto Fasulo. Interviste a coloro che vissero in prima persona i momenti terribili del settembre 1973, il golpe militare – pianificato con gli Stati Uniti più o meno camuffati – ai danni del governo Allende, la sinistra unita per la prima volta al potere per via democratica in un paese occidentale, spazzata via. Dapprima l’ampio sostegno popolare a quel governo, poi il crescente boicottaggio da parte di commercianti e imprenditori, la borghesia, con i beni di prima necessità calmierati dalle autorità ma fatti sparire dai negozi per destinarli al mercato nero, la fame (che all’epoca non era un modo di dire), infine il “sollevamento” militare, culminante nel bombardamento della Moneda e in una sistematica repressione, durata anni, interminabile, violenta, crudele.
Parla chi c’era e fortunamente ha trovato scampo, magari all’ambasciata italiana, dove è capitato che i nostri diplomatici riuscissero nell’impresa di accogliere, ospitare e poi prodigarsi per far arrivare nel nostro paese i rifugiati. Parlano con le lacrime agli occhi molti di quei rifugiati, uomini, donne e persino chi allora era solo un bambino. Alcuni di loro sono rimasti, oggi un po’ cileni e un po’ italiani, e tutti raccontano di un’Italia solidale e fraterna, che sembra persino fiabesca, mezzo secolo dopo. Qualcuno azzarda un paragone calzante con i profughi che oggi scappano dalle guerre del Medio Oriente o dalla fame africana, accolti molto meno bene da un’Italia che sembra non voler serbare neppure più memoria di ciò che è stata appena l’altro ieri. Un’altra Italia si è resa nel frattempo possibile. Nel peggio.
E dire che quegli anni, anche qui da noi, mica erano facili. L’onda lunga del Sessantotto, certo, e uno Statuto dei Lavoratori ancora fresco di stampa, il movimento studentesco esteso ai licei e alle secondarie, una classe operaia ancora ben combattiva e il propagarsi delle lotte per i diritti un po’ in tutti i settori e comparti della vita sociale. Persino un ceto medio riflessivo, dirà poi Paul Ginsborg. Ma anche la strategia della tensione, piazza Fontana ancora fumante, le stragi fasciste senza colpevoli, i colonnelli ancora in sella ad Atene e qui da noi, alla Giudecca, le barche sempre pronte per traghettare in Jugoslavia i compagni più esposti, in caso di necessità. Le famose barche: forse una leggenda, forse una banalissima verità.
Per dire, comunque, che in quell’Italia lì lo shock cileno per forza di cose era anche nostro, ci toccava da vicino comportando una immedesimazione tutt’altro che rituale o di circostanza. Non eravamo imparziali, in quegli anni e, forse anche per reagire ai compagni che nel frattempo sbaglieranno clamorosamente, nel corso del tempo lo siamo diventati sin troppo, imparziali. Non abbiamo saputo raccontare ai nostri figlie e nipoti, lasciandoli in balia dei grandi inganni e fratelli. Ci siamo – kantianamente – crogiolati nel nostro progetto di pace perpetua, dimenticandoci anche di continuare a leggere la realtà che andava profondamente modificandosi. Sino a confondere, o barattare, il destino del socialismo per un selfie con il compianto Marchionne. Prendetela per quello che è: una significativa ma imperdonabile sineddoche. Ascoltiamo Nanni Moretti: torniamo a essere parziali, possibilmente dalla parte giusta.

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