Divelte dal selciato. Rubate. Venti “Pietre d’inciampo” dedicate a venti membri della famiglia Di Consiglio e installate il 9 gennaio 2012 in via Madonna dei Monti dall’artista tedesco Gunter Demnig. La denuncia dell’atto arriva dall’Associazione Arte in Memoria che dal 2010 si occupa dell’installazione delle pietre a Roma.
Sulla storia, sul significato delle Stolpersteine, pietre d’inciampo – targhe di ottone della dimensione di un sampietrino in cui si ricordano persone deportate o uccise durante il nazismo e poste solitamente vicino alle loro abitazioni – Adachiara Zevi si sofferma nel bellissimo libro di Monumenti per difetto. Ne riproponiamo stralci.
Scomporre e frazionare la cosiddetta memoria collettiva è obiettivo primario degli Stolpersteine, le “pietre d’inciampo”, invenzione geniale dell’artista tedesco Gunter Demnig: tradurre la cifra astratta e incommensurabile di 10.000.000 nei dieci milioni di individui cui restituire dignità di persone ricordandone il nome e il tragico destino. “Non si è trattato di una strage ma di 335 omicidi”, afferma Alessandro Portelli a proposito delle Fosse Ardeatine, mentre Gerard Wajcman così commenta il Memoriale di Jochen Gerz a Saarbrücken: “La memoria è in questo caso anzitutto memoria dei nomi. Auschwitz è il nome proprio del cuore di tenebra del XX secolo. È il nome proprio di quello che fu la Shoah: la distruzione di sei milioni di nomi. Di qui l’importanza del monumento di Gerz, un monumento di 2146 nomi incisi”.
Gli Stolpersteine, allora, concepiti nel 1993, installati senza autorizzazione per la prima volta a Colonia due anni dopo, sono fino a oggi “un monumento” di 45.000 nomi incisi su altrettante pietre in 17 paesi europei e in 898 città tedesche. 5000 solo a Berlino, i primi 51 dei quali installati senza permesso nel 1996 a Oranienstrasse a Kreuzberg, in occasione della mostra Künstler forschen nach Auschwitz (Gli artisti esplorano Auschwitz) organizzata dalla Neue Galerie für Bildende Kuns. Dal 2010, con decine di pietre collocate a Roma, L’Aquila, Prato, Genova, Brescia, Bergamo, Padova, Ravenna, Venezia, Livorno… anche l’Italia partecipa alla costruzione di questo straordinario mosaico della memoria europea. Perché gli Stolpersteine sono davvero come le tessere di un mosaico, come i pezzi di un puzzle che renderà possibile, in un tempo inimmaginabile, visualizzare l’orrore della deportazione nella sua ipertrofica dimensione, tradurre il tempo della lettura dei nomi nello spazio delle città, delle regioni, degli Stati.
Nato nel 1947, Demnig sa di non poter raggiungere la meta agognata: con il ritmo attuale, fermo restando che ogni pietra è interrata da lui personalmente, occorrerebbero 4250 anni per installarne dieci milioni, un tempo veramente biblico. Dedicare la vita a un’opera che non sarà mai conclusa, ne accresce, in tempi cinici ed effimeri, di rapidi consumi e facili successi, la valenza etica e la carica eretica.
Memorie d’inciampo
Cos’è uno Stolperstein? Il verbo stolpern, intanto, che precede la parola Stein, pietra, ha un doppio significato: “inciampare”, nella forma intransitiva; “attivare la memoria”, in quella transitiva. Di qui il titolo felice “memorie d’inciampo”, suggerito dal direttore del Museo romano di via Tasso per la declinazione romana del progetto. Anche in ebraico, meidà, sostantivo del verbo limhod, inciampare, significa allo stesso tempo “inciampo” e “testimonianza”. Un semplice sampietrino, della misura standard di 10 cm x 10 cm reca incisi, sulla superficie superiore di ottone lucente, pochi dati identificativi, anticipati dalla scritta «qui abitava»: nome e cognome di un deportato, data di nascita, data e luogo di deportazione, data di morte in un campo di sterminio, quando nota. È collocato sul marciapiede prospiciente l’abitazione del deportato, proprio sulla soglia, sul crinale tra normalità e baratro, tra la vita nella propria casa e tra gli affetti, e un destino ignoto seppure tragicamente annunciato.
Come spiega efficacemente Alberta Levi Temin, la “pietra d’inciampo” li “riporta a casa”.
I miei cari, almeno i loro nomi, tornano a casa, non sono più nel vento. Qui, su questo marciapiede cammina la vita, e i loro nomi ne faranno parte.
Per questo, la posa delle pietre è per le famiglie un atto solenne e rituale, una vera cerimonia, spesso accompagnata da un kaddish, la preghiera ebraica per i defunti. La richiesta delle pietre, come pure l’individuazione del luogo ove installarle, è occasione per intensificare o riprendere contatti fra parenti dispersi nei quattro angoli del mondo che quel giorno, a volte per la prima volta, si ritrovano intorno a quei sampietrini perché per la prima volta hanno un luogo dove ricordare e trasmettere il ricordo alle generazioni future. E le foto di famiglia che riuniscono in uno scatto quattro, cinque generazioni, fissano la storia di un intero secolo.
Demnig partecipa commosso e consapevole della responsabilità del suo progetto. Ogni pietra testimonia il suo rispetto e la sua condivisione. Per interrarle, infatti, deve chinarsi, addirittura inginocchiarsi.
Sono sempre inorridito ogni volta che incido i nomi, lettera dopo lettera. Ma questo fa parte del progetto perché così ricordo a me stesso che dietro quel nome c’è un singolo individuo. Si parla di bambini, di uomini e di donne che erano vicini di casa, compagni di scuola, amici e colleghi. E ogni nome evoca per me un’immagine. Vado nel luogo, nella strada, davanti alla casa dove la persona viveva. L’installazione di ogni Stolperstein è un processo doloroso ma anche positivo perché rappresenta un ritorno a casa, almeno della memoria di qualcuno.
Di nuovo, la memoria è legata a un nome e a un luogo. Come per Daniel Libeskind quando nel disegnare la forma del Museo di Berlino si ispira ai Gedenkbuch o quando deforma la Stella di Davide fino ad abbracciare le case dove abitavano cittadini tedeschi ebrei, costretti all’esilio o deportati.
Cos’altro rende gli Stolpersteine così sorprendentemente originali anche rispetto ai monumenti più radicali sin qui indagati?
A distanza ravvicinata
Un “difetto” di monumentalità, in primo luogo. Interrati, non emergono e non ingombrano, derogando al primo requisito del monumento, la verticalità. Sono praticamente invisibili se non a distanza ravvicinata, quando appunto vi si inciampa, non fisicamente ma visivamente ed emotivamente. Eppure, una volta installati, diventano parte integrante della città, del territorio, della sua toponomastica. Discreti ma radicati: questo li rende così perturbanti, spesso così intollerabili da essere profanati, imbrattati, come quelli dedicati ai familiari di Piero Terracina, addirittura divelti come quelli in memoria di Letizia, Elvira e Graziella Spizzichino, proprio sotto le telecamere del ministero della Giustizia a Roma. A differenza dei monumenti, poi, granitici e definitivi, gli Stolpersteine sono in progress, si estendono nel tempo e nello spazio senza leggi di crescita fisse e prestabilite.
Sono cioè un “monumento diffuso”: una contraddizione in termini, analoga a quella indicata da Lewis Mumford tra “monumento” e “moderno”. Per parafrasarlo, allora, possiamo affermare che:
Se è un monumento, non può essere diffuso; se invece è diffuso, non può essere un monumento.
E proprio l’espansione orizzontale, a macchia d’olio, degli Stolpersteine costituisce una svolta ulteriore e radicale rispetto al campo di Eisenman. Quest’ultimo, infatti, di cui abbiamo apprezzato l’apertura alla città, rimane pur sempre un luogo circoscritto.
L’estensione degli Stolpersteine è invece potenzialmente infinita e transnazionale. Sono imprevedibili e anti-gerarchici: ti colgono di sorpresa, attraendoti con il loro bagliore, ovunque ti trovi, nel centro storico, in un quartiere residenziale, in un quartiere popolare, in una borgata. Gli oppositori al nazifascismo erano ovunque e così le pietre che li ricordano. Non sono centripete come un monumento, non occupano un luogo simbolicamente prominente ma sono centrifughe come una mappa urbana. Non esigono contemplazione ma una fruizione dinamica e temporalizzata. Poiché l’intero tessuto urbano è il loro humus, non occorre spostarsi, convergere al centro per vederle; sono loro a cercarti e raggiungerti; ogni quartiere ha il «suo» monumento ai “suoi” caduti, ma di forma, dimensione e valore uguale agli altri.
Il giorno annunciato per l’installazione, ogni municipio attende con il presidio dei famigliari delle vittime, degli abitanti, delle istituzioni, degli studenti e dei loro insegnanti, l’arrivo dell’artista che installa il “loro” monumento. Con un paragone azzardato e blasfemo, si potrebbe dire che tra il monumento e gli Stolpersteine corre la stessa differenza che separa il Tempio unico di Gerusalemme dalla pluralità delle sinagoghe dell’esilio, la centralità della nazione dal nomadismo della dispersione.
Un banco di prova
Nell’intrecciare poi il passato e il presente, assolvono al compito primo della memoria: ricordare la storia per prevenirne la ripetizione. Chiunque inciampi oggi in un sampietrino, dagli abitanti del palazzo dove è installato ai cittadini che transitano per la via ai turisti, non può far finta di niente. Come il “contro-monumento” degli artisti tedeschi Renata Stih e Frieder Schnock, sono un formidabile banco di prova: incontrandoli, ci si può soffermare a leggerli, meditarli, declinarli al presente o, agli antipodi, si possono ignorare, tirando dritto e voltandosi dall’altra parte, con la stessa colpevole indifferenza che fu dei complici della barbarie raccontata sulle pietre. Di certo non si può dire: “nessuno sapeva cosa stava accadendo”. Non a caso, proprio la parola “indifferenza” è stata scelta da Liliana Segre per l’ingresso al Memoriale nella Stazione centrale di Milano.
Inedito anche l’iter del progetto. La richiesta di installare le pietre, infatti, parte generalmente dai famigliari delle vittime. In assenza di una tomba, sono l’unico luogo ove ricordare i loro cari, finiti in cenere o in fosse comuni. Proprio per l’ambiguità tra tomba e luogo del ricordo, molti non sopportano l’idea che si cammini sui sampietrini dedicati ai loro cari. Una posizione che si può non condividere ma che esige il massimo rispetto. Sono le famiglie a fornire i dati necessari alla realizzazione delle pietre, nella forma e nell’ordine stabiliti dall’artista per tutti gli esemplari. Dati verificati poi negli archivi e nei Libri della memoria attraverso una sinergia tra storia e testimonianza, tra fonti scritte e fonti orali. Se l’artista si incarica di realizzare e installare le pietre, l’autorizzazione alla loro posa in opera è compito della municipalità, come pure la salvaguardia della loro incolumità. Un aspetto, quest’ultimo, che distingue radicalmente le “pietre d’inciampo” dalle targhe commemorative affisse sui palazzi, la cui autorizzazione dipende dai condomini.
Discende di qui un’altra prerogativa degli Stolpersteine: la sinergia tra pubblico e privato, tra memoria dei singoli e memoria collettiva, tra donazione privata e proprietà pubblica e, trattandosi di un’opera d’arte, fra committenza privata e destinazione pubblica. È la città, dunque, la responsabile della memoria dei suoi cittadini caduti. In alcuni palazzi sono gli abitanti stessi, non necessariamente parenti, a curare le pietre, pulendole e lustrandole, come fossero oggetti preziosi della loro casa. Il 9 novembre 2013, nell’anniversario della Notte dei cristalli, il Comune di Berlino ha organizzato 18 visite guidate agli Stolpersteine nei vari municipi: sono stati tutti puliti e vicino a ognuno è stata accesa una candela, mentre le guide hanno raccontato le storie di coloro cui sono dedicati.
A partire dai sinti
Chi sono i destinatari delle “pietre d’inciampo”? Tutti i deportati che non sono tornati: razziali, politici, militari, rom, omosessuali, testimoni di Geova. È importante sottolineare il loro aspetto inclusivo. Se per lungo tempo la Shoah è stata assorbita nell’ambito della lotta antifascista e resistenziale, negli ultimi decenni, sappiamo, il rapporto si è ribaltato esulandola spesso dal contesto storico che l’ha coltivata e confinandola alla sola deportazione razziale. Gli Stolpersteine nascono invece dal lavoro Mai 1940 -1,000 Roma und Sinti realizzato da Demnig nel 1990 a Colonia in occasione del 50° anniversario della deportazione dei sinti, in collaborazione con la Kölner Rom e.V., l’associazione che cura il dialogo tra i cittadini di Colonia di tutte le etnie.
Una striscia di stoffa lunga dodici chilometri, stesa da una macchina a ruota costruita appositamente da Demnig, ridisegna il percorso seguito dai deportati dalle loro case fino alla stazione. Dopo due anni, mentre la striscia rischia di scomparire, le pressioni esercitate sui politici per rendere il progetto permanente portano nel 1993 all’installazione in 22 luoghi della città della stessa scritta ma con le lettere di ottone interrate nell’asfalto. Già l’anno prima, comunque, in concomitanza del dibattito sull’opportunità di accogliere i rifugiati rom in fuga dall’ex Yugoslavia, Demnig installa il primo Stolperstein, davanti al Municipio di Colonia, su cui è inciso il decreto del 1942 per la deportazione di rom e sinti. L’obiezione di una signora circa l’esistenza di rom nel suo quartiere spinge Demnig a dare forma sistematica al progetto sulla memoria di tutte le vittime del nazifascismo tra il 1933 e il 1945. Se è possibile negare ciò che è accaduto sotto casa, figuriamoci qualcosa successo in un luogo lontanissimo come Auschwitz! Fino al 2000 Demnig si batte per legittimare il progetto facendolo uscire dall’illegalità e dalla clandestinità. Da allora, è un fiume in piena: le richieste arrivano copiose da tutta Europa e Demnig ha sempre la valigia pronta per soddisfarle di persona.
La poliedricità guida l’installazione degli Stolpersteine in Italia: dedicati agli ebrei deportati da Roma il 16 ottobre 1943 o il 7 aprile 1944, ai politici deportati dalla stessa città il 4 gennaio 1944, con il primo convoglio diretto a Mauthausen ma anche ai 150 operai strappati l’8 marzo 1944 dalle fabbriche Lucchesi e Campolmi di Prato, solo colpevoli di aver aderito allo sciopero generale del giorno precedente e assassinati a Mauthausen-Ebensee; tutti tranne i 24 sopravvissuti. Le pietre che li ricordano sono oggi davanti ai loro luoghi di lavoro. Anche al rabbino capo di Genova, Reuven Riccardo Pacifici, arrestato dalla Gestapo il 2 novembre 1943 in Galleria Mazzini, condotto nel Carcere di Marassi, caricato su un treno fino a Milano quindi ad Auschwitz dove giunge l’11 dicembre per essere subito assassinato. Anche ai carabinieri, la cui eroica resistenza, a lungo ignorata, è oggi nota grazie agli studi di Anna Maria Casavola. Giudicati inaffidabili dal comando tedesco guidato da Kappler ma anche dal maresciallo Graziani della Repubblica sociale italiana, per l’aiuto offerto alla Resistenza contro gli occupanti a Napoli, a Porta San Paolo e alla Magliana a Roma, duemila tra carabinieri semplici, graduati e ufficiali sono arrestati nelle caserme il 7 ottobre del 1943, dunque una settimana prima del 16 ottobre, stipati in carri bestiame e avviati ai campi di concentramento in Austria, Germania e Polonia, mescolati alla massa degli Internati militari italiani (Imi) fatti prigionieri su tutti i fronti dai tedeschi dopo l’8 settembre.
È tolto loro lo status di prigionieri di guerra affinché non possano godere di alcuna protezione internazionale; unici tra tutti i prigionieri, viene loro concessa la possibilità di scegliere se rimanere nei campi o tornare liberi, continuando a combattere nelle forze armate tedesche o in quelle della Rsi. La quasi totalità ha il coraggio di dire No, pagando quest’atto con la morte per fame, sevizie e maltrattamenti. Davanti alla caserma di viale Giulio Cesare a Roma, dodici “pietre d’inciampo” ne ricordano oggi il sacrificio. Sono solo alcune, pochissime, tra le centinaia, migliaia, milioni di storie da raccogliere e raccontare. Tutte diverse ma tutte dal finale tragicamente uguale, come appunto gli Stolpersteine, che restituiscono un nome a chi è stato ridotto a numero ma ribadiscono la condivisione di un tragico destino.
Decentrare storia e memoria
Il contributo prezioso alla ricerca storica è un altro merito degli Stolpersteine. La raccolta e verifica dei dati sui singoli deportati, l’individuazione delle loro abitazioni, l’ascolto delle loro storie implementano e arricchiscono gli archivi di storia scritta e orale. Non solo. La mappa urbana disegnata dalle “pietre d’inciampo” consente di visualizzare sia la presenza ebraica sia l’estensione della rete della resistenza al nazi-fascismo, sfatando semplificazioni e luoghi comuni: che la deportazione ebraica da Roma sia avvenuta solo il 16 ottobre 1943 dal Ghetto e quella politica solo il 4 gennaio 1944 da Regina Coeli, ad esempio.
Tra le tante storie che la posa delle pietre ha rinverdito, ne raccontiamo una, occorsa nel quartiere Monti a Roma. A via Urbana 2, nel cuore del rione, uno Stolperstein ricorda dal 2012 don Pietro Pappagallo, il sacerdote, noto nella straordinaria interpretazione di Aldo Fabrizi in Roma città aperta, che durante l’occupazione nazista della città, dove si era trasferito nel 1925 da Terlizzi, dette asilo presso il Convento del Bambin Gesù ai perseguitati «di ogni fede e condizione», come recita la targa che lo ricorda; denunciato da una spia tedesca, fu arrestato il 29 gennaio 1944, condannato a morte e assassinato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944.
La pietra è stata commissionata da don Francesco Pesce, attuale parroco della Chiesa della Madonna ai Monti, la stessa chiesa che dal 1543, quando fu fondata da Paolo III Farnese in piena Controriforma, fino all’Unità d’Italia e alla chiusura dei ghetti, ospitò la Pia casa dei catecumeni e dei neofiti, dove avevano luogo i battesimi forzati degli ebrei e più in generale di tutti gli infedeli. La stessa chiesa che, durante l’occupazione nazista, si distinse per l’asilo e la protezione offerti ai perseguitati. A pochi passi, in via Madonna dei Monti, altre 20 pietre ricordano i famigliari di Giulia Spizzichino, assassinati ad Auschwitz e alle Fosse Ardeatine.
A via Madonna dei Monti 82, al posto del negozio di mobili e oggetti d’occasione dei nonni di Giulia Spizzichino c’è oggi un parrucchiere. Analogamente, nel 2012, la pietra in memoria di Fausto Iannotti è stata posata in via del Peperino, nel quartiere Pietralata di Roma. Ma nel 1943, quando a soli 16 anni venne arrestato come politico, tradotto nel Carcere di Regina Coeli, deportato il 4 gennaio 1944 a Mauthausen quindi ucciso nel sottocampo di Ebensee il 30 aprile 1945, a pochissimi giorni dalla Liberazione, Iannotti abitava in via Ardesia, sempre a Pietralata, una via oggi scomparsa. Neppure via dei Laterizi, nella borgata Valle Aurelia a Roma, dove è nato l’anarchico Alberto Di Giacomo, deportato il 4 gennaio 1944, esiste più. La pietra a suo nome è davanti alla Casa del Popolo, a pochi metri dalla fornace dove lavorava. Anche a Prato, se il Museo del Tessuto occupa oggi gli spazi della fabbrica Campolmi, la fabbrica Lucchesi è in disuso e attende una nuova destinazione. Aggirandosi poi oggi in via del Portico d’Ottavia, nel cuore del Ghetto di Roma, trasformato in una sequenza ininterrotta di ristoranti, fast food, pasticcerie e alimentari kasher, quanti vi abitavano nel 1943 e i pochi sopravvissuti alla razzia del 16 ottobre provano forse lo stesso smarrimento vissuto da Kafka per le vie del ghetto di Praga:
Dentro di noi vivono ancora gli angoli bui, i passaggi misteriosi, le finestre cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse. Oggi passeggiamo per le ampie vie della città ricostruita, ma i nostri passi e gli sguardi sono incerti, dentro tremiamo ancora come nelle vecchie strade della miseria. Il vecchio malsano quartiere ebraico dentro di noi è più reale della nuova città igienica intorno a noi.
Merito di nuovo delle «pietre d’inciampo» intrecciare il passato e il presente della storia, delle storie ma anche della città e della sua toponomastica. Una stratificazione che nel 2004, con The History of Another, l’artista Shimon Attie ha reso visibile proiettando sulle odierne rovine del Ghetto immagini della vita degli ebrei tra il 1890 e il 1920. Chissà se anche l’Italia riuscirà ad adottare un’applicazione per cellulari che, in prossimità del luogo dove abitava un deportato, allerti su quanto accaduto raccontandone la storia.
Proprio l’inconfutabile verità che veicolano rende le «pietre d’inciampo» un potente antidoto contro il revisionismo e il negazionismo, ben più di qualsiasi legge.
[…]
Che siano in fondo questi, i luoghi, in quanto testimonianze mute ma tanto più significative, a subentrare ai sopravvissuti e alla loro testimonianza? Che a tramandare la storia della Shoah siano, oltre alle memorie e alle storie, questa fitta rete di luoghi che reimmette nella nostra quotidianità di oggi gli orrori di un passato sempre più lontano nel tempo?
s’interroga Anna Foa, una voce fuori dal coro dei fautori di una legge contro il negazionismo.
Gli Stolpersteine non sono tombe ma attivatori di memoria. Eppure, è inevitabile associarle a quelle che gli ebrei sono usi lasciare sulla tomba dei loro cari quando si recano al cimitero. Perché? E perché incontriamo la parola even, pietre, circa un centinaio di volte nella Torah e nei testi successivi? La radice della parola è la stessa delle due parole che nominano padre e figlio, aba e ben. La pietra è dunque una unità, una totalità che acquista forza e stabilità nella solidarietà, nel dialogo e nella trasmissione dei valori tra generazioni, tra padri e figli, tra maestri e allievi. Per questo è così importante il coinvolgimento degli studenti nel progetto: assistere alla posa delle pietre, conoscere, commentare, illustrare le storie dei deportati è farsi testimoni di una storia che continua. Un compito affidato sin dalla preistoria alla pietra, non al monumento.
[…]

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2 commenti
un intenso e stimolante articolo
Uno dei migliori articoli sull’argomento, per la profondità del contributo teorico alla comprensione dell’opera d’arte di Demnig.