Messico. Erba libera nella strategia di pacificazione

Il neo presidente AMLO ha presentato al parlamento un progetto per la legalizzazione della marijuana, una misura che cambierebbe in modo profondo la tragica situazione del Paese
BENIAMINO NATALE
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Il partito del nuovo presidente messicano Andrés Manuel López Obrador – chiamato AMLO dai media messicani – ha presentato al parlamento un progetto per la legalizzazione della marijuana, una misura che cambierebbe in modo profondo la tragica situazione del paese.

A leggere le cronache – per esempio il libro La Verdadera Noche de Iguala di Anabel Hernández, che ricostruisce puntigliosamente le vicende che hanno portato alla scomparsa di 43 studenti della Scuola normale di Ayotzinapa nel settembre del 2014 – sembra che per il futuro del Messico non ci sia speranza. Il cancro della violenza, della sopraffazione come modo di vita, sembra essersi diffuso ormai in tutto il corpo della società. Quelle che a volte vengono definite “complicità” con il crimine organizzato ormai sono diventate la normalità nel comportamento di tutti gli attori istituzionali – dai livelli più bassi a quelli più alti della politica, dell’amministrazione, della magistratura, della polizia e dell’esercito.

Massacro di Ayotzinapa

L’uso della violenza armata, dei sequestri, delle intimidazioni, sembra essere considerato normale anche da buona parte della società civile. I serial diffusi dalle piattaforme digitali e i narcorridos dei gruppi musicali celebrano apertamente questa ideologia, la cui base è la giustificazione di tutto quello che succede nel paese con il fatto che “i gringos” vogliono le droghe – marijuana, cocaina, eroina – e che quindi non c’è nulla di male nel fornirgliele. Altri caposaldi di questa ideologia sono: i sicari armati difendono “il barrio”, la “nuestra gente”, “el pueblo”, insomma, sono dei benefattori e non dei delinquenti – un’ideologia che si estende a tutta l’America Centrale e Meridionale, sconvolte da altissimi livelli di criminalità; i politici e i militari sono tutti corrotti e sono tutti alleati con gruppi delinquenziali e tutti prendono ordini dagli Usa; la famiglia e soprattutto la mamma vengono prima di tutto, e infatti nei serial le mamme sostengono sempre i loro figlioli assassini e torturatori a spada tratta.

La risposta delle istituzioni, sia locali che internazionali, non si è finora discostata dal proseguimento – seppur con diverse priorità e diversi accenti – della “guerra alla droga” lanciata oltre quarant’anni fa dall’allora presidente americano Richard Nixon e praticata in una forma o l’altra da tutti i presidenti messicani.

Quanti anni – o decenni? – ci vorranno ancora perché la comunità internazionale si renda conto che quella strada non porta da nessuna parte? Con enorme lentezza, la strada alternativa, l’unica che appare possibile – quella della legalizzazione senza se e senza ma di tutte le droghe, a partire da quelle leggere – sta facendo dei passi avanti.

L’“erba” infatti è già legale in Canada, in Uruguay e in dieci degli Stati Uniti (Alaska, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Michigan, Nevada, Oregon, Vermont, Washington oltre che nel District of Columbia e nelle Northern Mariana Islands, un piccolo arcipelago del Pacifico “associato” agli Usa). In Europa non è pienamente legale in nessun paese ma dappertutto è tollerata o semi-legale, come in Olanda e Spagna. In Italia era stato fatto un tentativo da parte del Partito radicale transnazionale, poi annacquato da un parlamento (quello precedente a quello attualmente in carica), dove dominavano la sottovalutazione e l’ignoranza del problema.

Pensare alle decine, centinaia, forse migliaia di morti, alle migliaia di miliardi che sono stati guadagnati e spesi, ai decenni di galera che sono stati somministrati – e scontati – per il traffico di una sostanza meno dannosa del tabacco e dell’alcol, fa paura.

Basti pensare che uno dei fatti che hanno determinato in tutti i sensi la “guerra alla droga” degli ultimi decenni – il rapimento e assassinio dell’agente della Drug Enforcement Administration (DEA) Enrique “Kiki” Camarena da parte dei narcos messicani – ha alla sua base il traffico di erba. Camarena, un agente coraggioso che operava dalla sede della DEA di Guadalajara, nello stato messicano dello Jalisco, fu condannato a morte dai narcos – secondo la maggior parte delle ricostruzioni – per aver scoperto e fatto distruggere un’enorme piantagione di “maria” chiamata Rancho Búfalo: mille ettari di terreno, che fruttavano ai suoi proprietari la cifra stimata di otto miliardi di dollari all’anno.

Nel suo libro La Cia, Camarena e Caro Quintero, il giornalista messicano J. Jesus Esquivel solleva il sospetto che i servizi americani collaborarono all’eliminazione di Kiki perché avevano raggiunto un accordo con i narcos, che avrebbero finanziato i contras antisandinisti in Nicaragua in cambio del via libera ai loro traffici. Camarena fu catturato, torturato e ucciso dai sicari del cartello di Guadalajara – uno dei cui capi era allora Rafael Caro Quintero – nel 1985, nel pieno del cosiddetto piano Iran-contras, lanciato dal presidente Ronald Reagan per finanziare i miliziani nicaraguensi aggirando il veto del Congresso. Se le accuse di Esquivel risultassero vere – sicuramente sono verosimili – sarebbe un motivo in più per cambiare registro sulla marijuana.

Sarà un caso ma, a differenza di altri potenti narcos, Caro Quintero, una volta catturato e condannato non è stato estradato negli Usa e anzi nel 2015 è stato liberato dalla magistratura messicana sfruttando un cavillo legale. Da allora è scomparso e si ritiene che si nasconda sulle montagne del Sinaloa, lo stato messicano patria di buona parte dei narcos tra cui il leader cartello omonimo, Ismael Zambada García detto El Mayo, anche lui uccel di bosco.

Andrés Manuel López Obrador

AMLO è un personaggio difficile da definire. È considerato un “populista di sinistra” – qualsiasi cosa quest’espressione voglia dire – e ha vinto le presidenziali della scorsa estate dopo due tentativi, nel 2006 e nel 2012, quando fu sconfitto grazie a palesi brogli elettorali. Ha ottenuto più del 53 per cento dei voti, un consenso che non ha precedenti nella storia del Messico. Non è chiaro perché questa volta l’apparato statal-militar-mafioso che domina il paese non sia intervenuto, forse perché si è reso conto che avrebbe scatenato una guerra civile.

I primi passi di AMLO, che è in carica dal primo dicembre, sono abbastanza contraddittori: ha bloccato la costruzione del nuovo aeroporto di Città del Messico, deludendo il mondo imprenditoriale. Poi ha annunciato che creerà un nuovo corpo di polizia – la Guardia nazionale – cosa forse necessaria data la corruzione imperante tra le supposte forze dell’ordine ma che non piace ai populisti veri – quelli che sostengono che basti richiamare l’esercito e la polizia federale nelle caserme per riportare le pace nelle strade.

Sul fronte dei narcos la situazione è più caotica che mai: dopo l’estradizione negli Usa del famigerato Joaquín Guzmán Loera detto El Chapo, pare che El Mayo abbia ripreso il pieno controllo del cartello di Sinaloa, mentre il Cártel Jalisco Nueva Generación guidato da Nemesio Oseguera detto El Mencho sta emergendo come la principale forza criminale del paese. Soprattutto, i cosiddetti “cartelli”, le organizzazioni controllate da un “centro” forte, sembrano aver lasciato il campo alla microcriminalità, a gruppetti di deliquenti che, oltre che con la droga o agendo come sicari dei “cartelli”, guadagnano con le estorsioni e i rapimenti le cui vittime vengono soprattutto dalla classe media.

Quanto a El Chapo, nel processo in corso a New York  i suoi avvocati sembrano aver adottato una vecchia tattica, quella di accusare gli accusatori, affermando che il loro cliente è in realtà una figura di secondo piano, mentre il vero leader del cartello di Sinaloa sarebbe El Mayo; e guarda caso tra i pentiti che hanno testimoniato contro El Chapo, c’è Jesus Zambada García detto El Rey, fratello del Mayo

In Messico, è ricomparso l’ex-presidente (dal 1988 al 1994) Carlos Salinas de Gortari, che prima di lasciare la sua carica e di sparire per alcuni anni fondò il Grupo Aeromóvil de las Fuerzas Especiales (GAFE), un corpo speciale antiguerriglia dal quale nacquero gli Zetas, il gruppo militarizzato di narcos che ha messo in difficoltà il cartello di Sinaloa e che oggi è ridimensionato ma ancora attivo, soprattutto nel nordest del paese. In una pubblica apparizione a Città del Messico – dove in novembre ha partecipato a un convegno sul cinquecentesimo anniversario de “Il Principe” di Niccolò Machiavelli – Salinas ha lanciato un segnale ad Amlo, dicendo che, come suggerisce lo stesso Machiavelli ai suoi lettori, “deve aspettarsi l’inaspettato”. Un avvertimento, direi, considerando che Salinas è stato accusato di essere uno dei massimi esponenti della mafia politica messicana.

Dettaglio secondario ma sul quale vale forse la pena di riflettere: a quel convegno era presente anche l’ambasciatore italiano in Messico, Luigi Maccotta.

Dopo aver lasciato la sua carica, Carlos Salinas per molto tempo si è tenuto lontano dal Messico – per un periodo si diceva che risiedesse a Dublino ma i suoi movimenti sono sempre rimasti nel mistero – mentre suo fratello Raúl veniva condannato all’ergastolo per l’assassinio di José Francisco Ruiz Massieu, politico emergente che minacciava il dominio della famiglia Salinas sul Partido Revolucionario Institucional (PRI). Ruiz Massieu era anche il cognato dei Salinas, avendo sposato la loro sorella Adriana. Forti sospetti gravano sui fratelli Salinas anche per l’omicidio di un altro politico emergente del Poi, Luis Donaldo Colosio, per il quale è stato arrestato solo un sicario. Come nel caso del narco Caro Quintero, anche in quello di Raul Salinas un magistrato ha scoperto delle irregolarità nel processo e lo ha liberato all’improvviso nel 2005, dieci anni dopo che era stato arrestato e condannato.

Nella fotografia d’apertura un’immagine di Diego Luna, interprete di Narcos México, Netflix

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Messico. Erba libera nella strategia di pacificazione ultima modifica: 2018-12-11T16:57:59+01:00 da BENIAMINO NATALE
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