Lancio un appello alle donne del governo e del parlamento: stralciamo la norma dell’attuale testo della legge di bilancio sulla possibilità per le donne di spostare i cinque mesi di congedo obbligatorio per maternità a solo dopo il parto. Con l’impegno di tutte ad approfondire, riflettere e trovare una soluzione in un altro veicolo normativo e affrontare il tema maternità in generale.
So che alcune lavoratrici richiedono questo tipo di flessibilità. Io stessa ho lavorato fino al nono mese di gravidanza, ma mi sono stancata, ho partorito prima del tempo, mettendo a rischio la mia salute e quella di mio figlio, essendo già, come si dice, “primipara attempata”. Ed ecco un primo punto su cui riflettere: l’innalzamento dell’età riproduttiva delle donne. Considerando l’età media in cui le donne italiane affrontano oggi la loro prima gravidanza, l’incidenza di primipare attempate è altissima, con la conseguente necessità di avere maggiore attenzione ai rischi cui si va incontro.
Se passasse la norma, una donna potrebbe lavorare fino al minuto prima di partorire. Da madre dico che questo è troppo. Le lavoratrici dipendenti dovrebbero affrontare ad esempio, oltre che l’obbligo di orario, anche gli spostamenti da casa a lavoro non sempre agevoli. Durante un’estate molto calda, o nei mesi gelidi invernali, o sotto la pioggia, prendere bus e metro (non tutte hanno i mezzi per prendere un taxi) con la pancia è molto, molto difficile. Perché è vero, come sappiamo, che la gravidanza non è una malattia, ma il parto è un evento straordinario per l’equilibrio fisico e psichico della madre di cui doverbbero prendersi cura tutti, la famiglia, il luogo di lavoro e la società intera. E i rischi per la madre significano mettere in pericolo la salute del bimbo che porta in grembo. L’aumento delle gravidanze a rischio espone anche a mortalità, per madre e figlio.
La certificazione del medico, pur prevista, è a mio avviso assolutamente insufficiente, perché l’accertamento delle compatibilità delle condizioni di salute della donna con il lavoro, se avviene all’inizio del nono mese, non garantirebbe quello che potrebbe succedere nelle settimane successive, proprio a ridosso del parto. Da non sottovalutare che lavorare fino agli ultimi giorni farà sì che i ginecologi porrano tutte queste donne nella categoria a rischio (soprattutto se primipare) con incremento dei costi, con estremizzazione delle cure, e delle analisi, e con sollevamento di responsabilità legali.
Il ricorso alla condizionalità del medico era già intervenuto nella normativa italiana nel 2000 con la ministra Livia Turco per la “flessibilità del congedo di maternità” che poi è diventato il contenuto dell’articolo 20 del Testo unico 151 del 2001.
All’epoca rappresentavo le donne di un grande sindacato e ascoltammo tantissime lavoratrici per dare l’assenso alla ministra Turco su una nuova norma che forniva alle donne la facoltà di astenersi dal lavoro a partire dal mese precedente la data presunta del parto e nei quattro mesi successivi al parto, a condizione che il medico competente accertasse le condizioni di salute della gestante e del bambino.
Le ragioni di tale scelta risiedevano nei bisogni rappresentati da tante madri lavoratrici di avere più tempo dopo il parto per se stesse e per il nascituro.
Ma flessibilizzare il congedo di maternità fino al nono mese di gravidanza è molto diverso da quello fatto nel 2000 fino all’ottavo per i motivi fin qui esposti. Intendiamo tornare a cent’anni fa? Si dovrebbero almeno interpellare l’ordine dei medici e le associazioni di ginecologi. Pochi medici e pochissimi specialistici si assumeranno la responsabilità di redigere certificati di idoneità per lavorare fino a termine della gestazione.
E allora rinnovo l’appello: non decidiamo, in una legge di bilancio, della vita delle madri e dei nascituri, non è il luogo adatto.
Prendiamoci un tempo in parlamento per discutere di queste questioni, fondamentali in un Paese con un tasso di natalità molto basso. Magari possiamo trovare soluzioni diverse, come ad esempio il lavoro agile nell’ultimo mese di gravidanza laddove è possibile, e soprattutto coinvolgiamo le lavoratrici italiane in queste scelte.
Da cosa nasce la necessità di dover lavorare fino alle doglie? Per avere poi la possibilità di non lavorare dopo la nascita e stare a casa con i piccoli dopo il parto. Quindi affrontiamo questo punto cruciale e conduciamo una battaglia perché le donne lavoratrici possano usufruire di asili nido a brevissima distanza dal posto di lavoro, in modo da poter allattare e/o stare con il bambino a intervalli regolari. Così si mantiene la continuità biologica e affettiva tra madre e bambino e si preservano le giuste aspettative di lavoro e di carriera delle donne. Bisogna ispirarsi a modelli europei perché anche in Italia si realizzi questo impianto moderno e di enorme dignità.
Nella nostra storia repubblicana spesso le donne, trasversalmente ai partiti, hanno ottenuto leggi importanti di avanzamento democratico sul terreno dei diritti, dei doveri e delle tutele. Viviamo un tempo difficile di dialogo parlamentare e di disgregazione sociale nel Paese. Come donne cerchiamo di dare un esempio virtuoso di confronto per tenere insieme esigenze diverse e bisogni differenti delle donne e delle famiglie italiane. Facciamolo a partire dal dono più bello dell’umanità: la nascita.
La maggioranza accolga l’emendamento di soppressione della norma nella legge di bilancio e cominciamo, insieme, un percorso di approfondimento in parlamento e nel Paese.

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