Roberto Fico, che a giorni alterni (come spesso è accaduto – per la verità – nella storia repubblicana ad alcune delle cariche di Montecitorio e Palazzo Madama quando usate più per la propaganda che per la loro reale funzione) indossa (metaforicamente) berretto frigio oppure con la stella rossa e insegue con il broncio chi gli ha rubato lo scettro di rappresentante del “popolo honesto” (Di Maio), non ha saputo dire niente di meglio che “questo è un altro discorso” a Stefano Ceccanti. Il costituzionalista chiedeva conto dell’incostituzionalità dell’articolo dello statuto grillino con cui i probiviri di quel movimento hanno chiesto soldi a Dall’Osso. Il deputato, la settimana scorsa, ha lasciato M5S dopo che aveva chiesto con le lacrime agli occhi (lui stesso è malato di Sla) perché mai il suo governo gialloverde (o giallobruno) negava un piccolo aiuto, una copertura economica seppur minima ai disabili che come lui fanno ricorso alla mobilità attraverso l’aiuto delle istituzioni.
“Questo è un altro discorso”, non si sa se Fico lo ritenga un inizio di riflessione futura per ritagliarsi uno spazio post-Di Maio o se davvero si è reso conto che in effetti uno statuto di partito (anche quando fatto solo per avere il finanziamento del gruppo parlamentare come in questo caso) in contrasto con il mandato libero da vincoli, come detta la nostra costituzione ai rappresentanti del popolo, comporterebbe quantomeno osservazioni e richieste di modifica da parte di chi è il garante di un ramo del parlamento stesso.
Fatto è che questa noncuranza non è casuale. E se talvolta è incosciente è solo in dipendenza di una consuetudine. E quest’ultima è figlia di un’idea e di una narrazione, come si dice oggi. Di un’idea che è quella da sempre raccontata da parte di Casaleggio figlio (anche padre, ma il padre comunque aveva cercato vari approdi politici anche contraddittori tra loro dove giocarsela, il figlio è per così dire “nativo direttista”): i partiti sono inutili e comunque sono morti, i corpi intermedi per fortuna già sono stati spazzati via da altri, con il web faremo la democrazia diretta e dunque elimineremo se non il luogo almeno la funzione del parlamento… Ovviamente si tratta di una mia libera traduzione da varie interviste, ma non credo di distaccarmi troppo dal vero. E peraltro Salvini queste cose le pensa e non le dice, ma le pratica anche lui.
Idea (speranza nel caso di Salvini, non certo attrazione filosofica per Rousseau) che si fonde con la narrazione avviata da diversi anni, prima da Berlusconi poi da imitatori a sinistra (D’Alema e Renzi i migliori interpreti), per cui tra rappresentanza e decisione bisogna dare soprattutto conto della decisione e, dunque, progressiva riduzione e mortificazione dei corpi sociali (associazionismo, sindacati, cittadinanze attive varie ecc) e del parlamento.
Il governo gialloverde (ma ci torneremo in maniera più corposa nel tempo, qui scriviamo al volo alcuni spunti e sommari) coglie dunque un frutto maturo di una crisi lunga e costellata di tentativi infruttuosi di riforma, culminati nel voto del referendum del 4 dicembre 2016, e li trasforma nel propellente per una riduzione di ruolo e di significato della nostra democrazia rappresentativa di tipo parlamentare.
Non ancora il golpe. Ma un golpe strisciante. Una pistola carica che passa di mano in mano fino a che qualcuno non deciderà di usarla.
Il parlamento conta sempre meno
È ovvio che non comincia oggi la storia. Sono anni che una legge di parlamentari cede sempre il passo a un decreto legge del governo. Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio sulla legislazione della camera dei deputati (giugno 2018) che ha preso in esame leggi, decreti legge, emendamenti e atti parlamentari confrontandoli con quelli corrispettivi di Francia, Germania, Regno Unito e Spagna e la produzione normativa dell’Unione Europea, negli ultimi dieci anni in Italia si registrano:
1 una produzione normativa costituita prevalentemente da iniziativa governativa con valori attorno al 75 per cento del totale delle leggi (certo ci sono anche le tante ratifiche internazionali, ma c’erano anche in passato);
2 una “scarsa incidenza delle proposte di iniziativa popolare”, che è un esempio di linguaggio davvero della prudenza visto che zero è il numero delle leggi in questione approvate, mentre deputati e senatori si contendono il restante 25 per cento a suon di leggi riformulate o contrattate col governo (se non altro col ricatto della copertura economica appesa al filo del Mef, cosa diversa dall’obbligo costituzionale di avere una copertura indicato dalla costituzione: spero si colga la differenza).
Anche degli emendamenti (che pure spesso sono specchietti per le allodole del proprio collegio elettorale quando non li si segue fino in fondo dotandoli di copertura adeguata e di copertura politica) il parlamento ne ha titolarità per 4609 su 10347 nella sedicesima legislatura e di 5635 su 13587 nella diciassettesima legislatura. Senza contare che spesso “milleproroghe”, in vario modo chiamate, o addirittura punti forza della legge di bilancio vengono approvati a colpi di fiducia su un emendamento unico del governo che riassume duecento commi precedenti.
Un evento davvero di cambiamento
Ecco, se a questi numeri, numeri che non sono chiacchiere sui bei tempi che furono, moralismo sui “nominati”, offese sul livello dei congiuntivi e del galateo delle istituzioni ma numeri su cui si depositano in forma proporzionata le colpe di tutti coloro che l’hanno permesso in questi ultimi dieci anni, compresi i parlamentari stessi, a volte in cambio di un piatto di lenticchie, si aggiungono modalità nuove, che si fatica a ritenere innocenti: per una convenzione parlamentare, tra le parti non solo politiche, nelle legislature del maggioritario, finita l’era della legge finanziaria intesa come assalto alla diligenza e rodeo degli emendamenti (anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo), il governo portava un testo che raccoglieva tutti gli emendamenti approvati in parlamento e l’ultima riunione della commissione bilancio proponeva un testo finale “parlamentare”; ovvero figlio della proposta del governo ma integrato dalle attività, frenetiche, della sessione di bilancio di camera o senato.
Un giusto equilibrio che rispettava l’iniziativa governativa ma anche il ruolo del parlamento (e permetteva chiarimenti, talvolta miglioramenti; magari anche peggioramenti ma definitivamente messi a verbale, non trattati negli scantinati dei ministeri).
Oggi siamo in una situazione per cui un ramo del parlamento ha approvato la scorsa settimana un testo che palesemente si sa che non sarà e non potrà essere il definitivo, anche per via di quel “problemino” del 2,4 oppure 2,04 per cento con Bruxelles. Non solo. La commissione bilancio, i parlamentari dell’opposizione ma anche quelli della maggioranza, infine molti membri del Governo, non conoscono una riga della nuova legge di bilancio, e dovendola approvare entro il 31 dicembre (nei due rami del parlamento se cambia il testo, come pare) pena l’esercizio provvisorio di bilancio per il 2019, considerato Natale e Santo Stefano, appare chiaro come si voterà, con la fiducia, ad occhi chiusi, un testo solo governativo e non parlamentare.
Annullando peraltro proprio le richieste di controllo sulla “casta” che sarebbero alle origini dell’incontro tra “l’honestà” grillina e quella leghista. Qui, la “casta” che decide la legge di bilancio più perigliosa degli ultimi trent’anni in Italia è fatta di, massimo, cinque politici eletti e dieci funzionari tra Mef e Presidenza del consiglio.
Roba che neanche ai tempi della tassa sul macinato con un governo di conti e marchesi savoiardi!
Ma saranno solo stupidi e innocenti? Non so. “Scappati di casa” sono in tanti. E però quando vedi che viene proposta (commissione affari costituzionali della Camera) una revisione costituzionale (che inevitabilmente passerà a maggioranza e poi si andrà quindi a referendum) in cui si propongono referendum possibili anche su tasse e imposte (Franklin, Hamilton, Jay e Tocqueville si rivoltano nella tomba… e pure Einaudi direi) e referendum, senza quorum, che potrebbero intervenire su decisioni prese dal parlamento, di fatto creando la dicotomia popolo votante nei referendum con popolo delle elezioni legislative ed eletti rappresentativi, mi chiedo se gli estensori di tali proposte sanno che chi gliele ha date lavora per un progetto di eversione (sì eversione) della repubblica democratica rappresentativa parlamentare. Qualcuno dirà di no (e sono quelli che in realtà lo sanno bene).
Si dirà anche che per salvare la democrazia rappresentativa dobbiamo concedere maggiore potere alla decisionalità e dunque una repubblica presidenziale sarebbe una possibile medicina. So che è una tesi di sinceri democratici (come per esempio l’amico Giovanni Guzzetta), però mi permetto di osservare che il moltiplicatore elettorale francese ha permesso a Macron di avere con meno del ventiquattro per cento la vittoria all’Eliseo e poi il sessanta per cento in parlamento con le legislative. E tuttavia oggi, senza sindacati, partiti, associazioni, corpi intermedi, con la crisi sociale esplosa e la personalizzazione, si ritrova contro di nuovo il settanta per cento dei francesi (e forse pure qualcuno dei suoi).
Agli amanti della Quinta repubblica gollista ricordo che i consensi popolari dei sondaggi del conservatore De Gaulle (però antifascista, antinazista e antigolpisti Oas, una cosa che da noi manca) erano superiori ai suoi voti dopo il referendum del 1963. Vale a dire che i corpi intermedi, i partiti, i sindacati e le associazioni interloquivano con De Gaulle, litigando, confliggendo o appoggiando, ma avendo relazioni e dunque “tenendo il sociale”.
Per chi suona la campana?
Cancellare il parlamento perché non ottiene subito e in tempi rapidi la fine della miseria, la fine della corruzione, la resa della mafia e della camorra, il rispetto dell’Ue e di Bruxelles?
È difficile difendere le istituzioni, le regole e i regolamenti conquistati nei secoli per permettere anche ai poveri e ai senza parole di dirigere la politica di un paese.
È difficile soprattutto quando il vuoto della politica viene governato dall’economia, e poi dalla finanza che governa l’economia svuotata che governa la politica svuotata. In quel vuoto si svolgono i giochi (già visti) di un’idea (non a caso Rousseau) che intende non risolvere i problemi ma “servire il popolo”, meglio ancora rappresentarlo.
Non decidere ma rappresentare la volontà del popolo. Non fare compromessi politici ma rappresentare la volontà del popolo. Non parlarsi in parlamento (chissà com’è che si chiama così) ma rappresentare la rabbia, la sofferenza, la volontà del popolo.
I social di Salvini e Di Maio sono questo. Essi non lottano (sto parafrasando Furet che racconta Cochin) per raggiungere risultati (tipo Salvini, che supera anche il Cossiga con la K introducendo norme liberticide per tutti nel decreto sicurezza), ma per “rappresentare il popolo”. La lotta tra di loro non è su leggi, nomine e lotta alla burocrazia, bensì su chi è il più puro rappresentante del popolo.
Non si può più far finta di niente. È un golpe strisciante. Indipendentemente dagli errori di chi li ha fatti crescere e aumentare di numeri, consensi e, talvolta, anche originarie ragioni.
Come tutti i golpe va fermato.
Ci vorrà del tempo, intelligenza, non solo furore, ma quantomeno che si abbia chiaro cosa sta succedendo.

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