Gilet gialli, l’utopia della démocratie directe

In Francia come in Italia si dibatte di referendum propositivo, il nuovo feticcio dei movimenti e dei partiti populisti. Il frutto di un’idea semplicistica (e pericolosa) della democrazia.
MARCO MICHIELI
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[PARIGI]

On veut le Ric è uno degli slogan che si può scorgere tra i molti cartelli che i gilet gialli brandiscono durante le manifestazioni che da più di un mese si svolgono in Francia e a Parigi in particolare. “Ric” non è altro che l’acronimo di référendum d’initiative citoyenne (referendum di iniziativa civica), una delle rivendicazioni più importanti tra quelle avanzate dal movimento dei gilet gialli in questi giorni. E quella che sta tenendo banco nel dibattito pubblico e politico. 

I gilet gialli propongono in breve quattro tipologie di referendum di iniziativa civica: abrogativo, costituzionale, legislativo e revocatorio. Se il primo non è dissimile dal referendum abrogativo italiano, qualche problema sorge con le altre tipologie. Il referendum costituzionale non sarebbe come il referendum confermativo costituzionale italiano, che scatta quando non si raggiungono i due terzi nelle votazioni dei progetti di revisione della costituzione. Si tratterebbe invece della possibilità di proporre modifiche costituzionali a partire dall’iniziativa dei cittadini, per obbligare l’Assemblea Nazionale ad aprire un processo legislativo speciale per introdurre le modifiche costituzionali e poi successivamente approvarle o respingerle con un referendum. Il referendum legislativo invece mescola l’iniziativa legislativa popolare con l’istituto del referendum. Il referendum revocatorio, infine, servirebbe per chiedere le dimissioni di un eletto.

Le polemiche seguite alla proposta sono state numerose. Anche se non si tratta di proposte nuove nel dibattito politico francese. Jean-Luc Melenchon, il leader de La France Insoumise, aveva proposto nella campagna elettorale del 2017 il referendum revocatorio del mandato di un eletto, fosse esso il presidente della repubblica o un consigliere municipale. Il referendum legislativo e revocatorio sono proposte che il Front National di Jean-Marie Le Pen e oggi Marine Le Pen hanno sempre sostenuto con forza.

La République En Marche (Lrem), il partito di Macron, per ora invece ne discute. La possibilità di ampliare l’istituto del referendum non raccoglie l’unanimità nel partito. Il nuovo presidente di Lrem, Stanislas Guerini, ha affermato che questo modello di referendum, per quanto se ne debba discutere, lo inquieta poiché teme che si possano far passare delle leggi nel paese che sono contrarie alla tradizione della République:

Non voglio che domani ci si possa svegliare con la pena di morte nel nostro paese, perché abbiamo avuto un referendum di iniziativa cittadina che l’ha ristabilita.

È la mancanza di limiti al referendum che lascia molti dubbi nella maggioranza di governo. Tanto che il primo ministro Eduard Phillippe ha dichiarato in un’intervista alla televisione che il referendum

[…] è un buon strumento in una democrazia, ma non su qualsiasi materia, né in qualsiasi condizione.

Il referendum non è una tradizione ignota alla Francia poiché già la costituzione “giacobina” del 1793 lo prevedeva. E durante il Secondo Impero divenne poi strumento di gestione del potere da parte di Napoleone III che governava attraverso i “plebisciti”. Questo carattere plebiscitario è rimasto anche nella Quinta Repubblica: l’uso del referendum da parte del presidente De Gaulle fu duramente contestato per il suo carattere “autoritario”. Proprio per tale ragione, i presidenti della repubblica successivi vi sono ricorsi poche volte: dieci volte dal 1958, l’ultima volta nel 2005 quando la Francia ha votato contro il trattato costituzionale europeo. Negli anni sono stati poi molti i tentativi di ripensare l’istituto del referendum che dipende essenzialmente dal presidente della repubblica (salvo l’ipotesi della coabitazione, oggi difficilmente realizzabile) e che esclude totalmente l’iniziativa popolare come nel caso del referendum abrogativo italiano.

Il presidente Nicolas Sarkozy aveva creato, senza molto successo, il referendum d’inititative partagée, una sorta di “ric”. Le condizioni per la sua attuazione sono però così severe da averne reso molto difficile la realizzazione: è necessario infatti che un quinto dei parlamentari (almeno 185 deputati su 925) avanzi una proposta di legge che deve ottenere il sostegno di almeno un decimo degli elettori iscritti sulle liste elettorali; la proposta di legge deve essere poi conforme alla costituzione francese e non abrogare una legge promulgata da almeno un anno; soddisfatte queste condizioni si può svolgere il referendum. Ovviamente non è mai stato utilizzato dalla sua entrata in vigore.

In questo “vuoto” prende quota l’idea dei gilet gialli che il referendum restituisca il potere al popolo, donandogli la possibilità di proporre e di abrogare una legge. Di più. La convinzione dei gilet gialli è che la crisi sociale, economica e politica possa essere risolta soltanto attraverso il ricorso alla democrazia diretta, la panacea di tutti i mali. Una teoria molto diffusa tra i movimenti e i partiti populisti. Come in Italia. 

La maggioranza M5s e Lega ha infatti recentemente presentato una proposta di referendum propositivo, non dissimile da quella dei gilet gialli, che obbligherebbe il parlamento a esaminare la proposta di legge popolare entro diciotto mesi, scaduti i quali vi sarebbe un referendum, senza quorum. Una proposta quella della maggioranza che ha suscitato più di qualche obiezione per ragioni non dissimili da quelle che in Francia sono state sollevate dal governo: l’assenza di quorum e la mancanza di limiti di materia. In Italia, infatti, il servizio studi della Camera ha espresso dubbi sulla soppressione totale del quorum (prevista anche per il referendum abrogativo) e la mancanza di limiti di materia (oggi sono esclusa le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali e le disposizioni costituzionali). 

In Europa la situazione non è molto diversa. Secondo The Economist, in Europa si è passati da una media di tre referendum per anno al numero di otto (senza tenere conto della Svizzera e della sua tradizione referendaria) dagli anni Settanta ad oggi. E i risultati non sembrano essere migliori del lavoro delle assemblee parlamentari (Brexit docet).

La narrazione populista propone però una versione naive della democrazia che comporterebbe solo vantaggi per i cittadini dal punto di vista dei benefici per la democrazia rappresentativa affaticata e della “reale” interpretazione della loro volontà, oggi mistificata dall’élite politica.

Naïf poiché non tiene conto dei limiti stessi della democrazia diretta che, innanzitutto, non stimola maggiore partecipazione. Sempre secondo i dati de The Economist, pur essendo aumentato il ricorso allo strumento del referendum, la partecipazione elettorale in quelle consultazioni è passata dal 71 per cento in media dei primi anni Novanta al 41 per cento degli ultimi anni.

Naïf perché presuppone che qualsiasi forma di scelta pubblica sia l’espressione quasi divina della volontà popolare e che i cittadini abbiano piena consapevolezza delle scelte che fanno (e cioè in possesso di una corretta informazione, non sottoposti ad alcuna forma di manipolazione e soggetti in una partecipazione non mediata da altri attori politici). Ma in Svizzera, patria della democrazia diretta referendaria, chi partecipa ai referendum (o ad altra forme di democrazia diretta) è comunque una minoranza. Che vota per convinzione o per abitudine? O perché mobilitata da gruppi di interesse e partiti?
I referendum sono inoltre sempre più l’occasione per esprimere la rabbia contro la classe politica che il giudizio del “popolo” sull’oggetto stesso del referendum. E non sono nemmeno immuni da influenze esterne: i partiti populisti hanno saputo bene sfruttare lo strumento referendario per sottoporre al voto degli elettori temi anche molto controversi. E non dimentichiamo l’impatto che la manipolazione delle informazioni ha avuto sul risultato delle consultazioni referendarie: in Gran Bretagna la campagna a sostegno della Brexit ha diffuso una quantità innumerevole di false informazioni sui benefici derivanti da un’uscita dall’Unione europea. Le conseguenze sono state in numerosi casi davvero disastrose. Come in Colombia dove con un referendum si è respinto l’accordo di pace con le Farc; o in Thailandia dove attraverso un referendum è stata approvata una costituzione che diminuisce le garanzie democratiche per i cittadini.

Naïf perché si immaginano dei cittadini in grado di rispondere a qualsiasi questione, a prescindere dalla complessità dell’argomento. In Thinking, Fast and Slow il premio nobel Daniel Kahnemann ci dice che:

Quando si deve far fronte ad una questione difficile, spesso tendiamo a rispondere a una domanda più facile, di solito senza nemmeno notare la sostituzione che effettuiamo.

Significa che il più delle volte i cittadini non rispondono alla questione posta dal referendum poiché magari troppo complessa per chi attento al dibattito pubblico. Spesso si risponde alla domanda più facile: questo governo sta facendo bene? Matteo Renzi ne ha pagato le conseguenze con il voto del 4 dicembre del 2016, quando la maggior parte delle persone recatesi a votare ha certamente votato contro il governo e il presidente del consiglio piuttosto che sui temi oggetto del referendum costituzionale. Un’idea che in un recente libro di successo, Democracy for realists, anche Christopher Achen e Larry Bartels sostengono. Secondo i due autori esiste una “teoria popolare della democrazia” che propugna l’idea che i cittadini prendano della decisioni in maniera coerente e intellegibile, sulle quali poi il governo agisce. In realtà per Achen e Bartels non questa visione non corrisponde alla realtà dei nostri sistemi politici. Perché un elettore di questo tipo, probabilmente, non dovrebbe avere un lavoro, una famiglia e preoccupazioni di altro genere: quando qualcuno ha del tempo libero non lo impiega certamente per comprendere il funzionamento della politica commerciale dell’Unione europea. E quel che è peggio è che, secondo i due scienziati politici americani, basiamo le nostre decisioni politiche su chi siamo e non su quello che pensiamo. Non agiamo come esseri razionali ma come membro di gruppi sociali, che esprimono un’identità sociale:

Per questo cerchiamo partiti politici che corrispondano al meglio alla nostra cultura, con poca considerazione se le loro politiche coincidano con i nostri interessi. Restiamo leali ai partiti politici, anche molto dopo che hanno terminato di esserci utili.

Che il referendum possa quindi guarire i mali della democrazia è difficile da credere. Anzi, potrebbe peggiorarli. Davvero si può pensare che in un’epoca così complessa, dei temi possano essere affrontati dai cittadini offrendo solo loro la possibilità di esprimere un “sì” o un “no”? Per quanto il referendum possa sembrare un tentativo di trovare un appiglio in un mondo molto complesso, una sorta di mappa da utilizzare per muoversi in un territorio inesplorato, in realtà pone molti più problemi di quelli che vorrebbe risolvere.

E il pericolo maggiore deriva dall’idea stessa di democrazia che i sostenitori della democrazia diretta in salsa populista avanzano. Ai sostenitori della democrazia à la Rousseau interessa che l’esito del voto sia necessariamente giusto, attribuendogli una particolare qualità morale, come se il corpo elettorale riuscisse sempre ad incarnare il bene oggettivo della società:

L’ideale populista richiede che i governanti traducano immediatamente in legge la scelta popolare di un programma elettorale. Nella prospettiva populista i vincoli costituzionali che ritardano questo processo sono intollerabili mentre istituzioni appropriate sono quelle che facilitano una rapida conversione in legge […] La principale minaccia che il populismo pone alla democrazia non è la tentazione fortissima di rovesciare il risultato delle elezioni, ma l’eccezionale capacità di farlo. Le istituzioni populiste dipendono dall’eliminazione dei vincoli costituzionali, e quest’ultima è giustificata dall’interpretazione populista del voto.

spiegava bene William Riker in Liberalismo contro Populismo.

Di fondo i partiti e i movimenti populisti sostengono esattamente questo: la sovranità popolare non può avere limiti. E se vi sono dei limiti, ai cittadini deve essere data la possibilità di liberarsene, anche modificando la costituzione. È la versione moderna della democrazia di Rousseau: il corpo del popolo sa e vuole sempre e comunque il bene di tutti e di ciascuno.

Nessuno contesta che la democrazia rappresentativa viva un momento difficile e che sia necessario immaginare altre forme di espressione politica che recuperino alcune forme di democrazia diretta. L’esperienza della democrazia diretta a livello locale, pur con tutti i limiti all’interno dei quali essa dovrebbe realizzarsi, va migliorata e valorizzata (anche se andrebbe evitato di farne un feticcio). Altre esperienze, come la democrazia deliberativa, potrebbero anch’esse migliorare la qualità delle nostre democrazie. Accanto probabilmente ad una corretta informazione e a una maggiore istruzione.

Ma all’idea della democrazia diretta sostenuta dai partiti populisti ci si deve opporre. E le va opposta la concezione liberale dei limiti alla sovranità popolare. 

Gilet gialli, l’utopia della démocratie directe ultima modifica: 2018-12-23T18:03:42+01:00 da MARCO MICHIELI
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