Israele scopre l’amico “inaffidabile”. E si ritrova a condividere con i curdi siriani un tradimento inaspettato: quello consumato da Donald Trump. La decisione twittata dall’inquilino della Casa Bianca di ritirare le truppe statunitensi dalla Siria (duemila militari) e di sospendere le missioni aeree (scelta che ha portato alle dimissioni da capo del Pentagono di Jim Mattis) è di quelle destinate a terremotare i già fragili equilibri in Medio Oriente. E a consegnare la Siria al “Grande Nemico” dello stato ebraico: l’Iran. Una prospettiva che ha già fatto scattare l’allarme rosso a Gerusalemme.
Per quanto riguarda Israele questa storia ha una lezione immediata e una conclusione a lungo termine. La conclusione immediata è che il desiderio di distanziare le forze iraniane e le milizie sciite dalla Siria non è affatto vicino alla realizzazione. La Russia ha venduto le sterili promesse di Israele, che si sono sgretolate dopo circa sei mesi – e gli Stati Uniti non sono entusiasti di dare una mano. E anche se le Forze di difesa israeliane hanno conquistato uno straordinario risultato nella serie di scontri con le Guardie rivoluzionarie iraniane in Siria la scorsa primavera, ciò non significa che Teheran abbia rinunciato ai suoi piani. La lezione a lungo termine è che Trump, nella sua situazione, è diventato qualcuno a cui non si può fare affidamento. Anche se è fondamentalmente solidale con Israele, e anche se è circondato da familiari, consiglieri e persone inerme che sono ebrei, Trump è in guai così grossi e agisce in modo così irregolare che il governo israeliano non può essere certo del suo sostegno a lungo termine
sostiene Amos Harel, analista di punta di Haaretz.
Anche l’ex ministro della difesa di Israele, Avigdor Lieberman, ha avvisato che la decisione Usa di ritirarsi dalla Siria potrebbe portare ad una guerra al nord tra Israele e le forze sostenute dall’Iran e ha affermato alla radio israeliana:
Il ritiro accresce in maniera significativa la possibilità di un conflitto totale al nord: sia in Libano sia in Siria.
Le gravi conseguenze della decisione di Trump avvicinano gli opposti. Dal progressista Haaretz al conservatore Jerusalem Post, che giudica il ritiro americano una “prospettiva da incubo per Israele e gli stati sunniti della regione”. E rimarca Herb Keimon:
La presenza delle truppe statunitensi nelle aree controllate dai curdi nella Siria orientale ha finora impedito a Teheran di completare quell’arco sciita che porterebbe l’influenza dell’Iran fino al Mediterraneo, passando senza soluzione di continuità attraverso l’Iraq, la Siria e il Libano. La presenza degli Stati Uniti nella Siria orientale era ciò che impediva a Teheran di trasportare armi moderne e potenti via terra, lungo quell’arco, fin nelle smaniose mani di Hezbollah in Libano. Era dunque una zona cuscinetto di importanza cruciale. Come ha detto l’ex vice capo di stato maggiore israeliano Yair Golan in una conferenza sul Mediterraneo orientale la scorsa settimana, ‘abbiamo bisogno della massima presenza possibile degli Stati Uniti nella regione, soprattutto in Iraq e nella parte orientale della Siria: con la presenza americana e il sostegno americano ai curdi, possiamo in qualche modo contenere il peso dell’Iran nella regione, cosa che è estremamente importante’.
Per proseguire:
La presenza americana era anche una carta che poteva essere giocata con i russi per convincerli a sospingere gli iraniani fuori dalla Siria. I russi non gradiscono la presenza americana nell’area e, di conseguenza, gli Stati Uniti potevano dire: ‘usate la vostra influenza per far uscire l’Iran, e noi ce ne andremo’. Ma ora gli Stati Uniti se ne stanno andando senza che i russi – perlomeno a quanto è dato sapere – stiano facendo nulla per far uscire gli iraniani.
Le conclusioni a cui giunge l’analista del Jerusalem Post aprono scenari inquietanti quanto realistici:
Israele, ha affermato mercoledì Netanyahu rilasciando un commento molto contenuto all’annuncio americano, saprà come difendersi anche con le truppe Usa fuori dalla Siria e lasciato da solo ad affrontare le enormi sfide e minacce che si profilano in Siria: dalla presenza russa a quella dell’Iran. Uno dei modi a cui Israele potrebbe fare ricorso per difendersi è quello di agire contro il braccio iraniano rappresentato da Hezbollah in Libano. La performance dell’ambasciatore d’Israele Danny Danon al Consiglio di Sicurezza aveva lo scopo di guadagnarsi la legittimazione internazionale per questa eventuale opzione, un’opzione che il ritiro delle truppe Usa dalla Siria – se effettivamente attuato – potrebbe rendere più probabile. Se, a seguito del ritiro delle truppe americane dalla Siria, l’Iran sarà in grado di trasferire più facilmente a Hezbollah potenti missili di precisione, allora le probabilità di un’azione israeliana all’interno del Libano diventeranno meno remote. Ora, dopo la riunione di mercoledì del Consiglio di Sicurezza, il mondo è avvertito.
Israele “tradita”. Curdi abbandonati. E l’Isis che rialza la testa: è il triplice disastro partorito da The Donald. Dopo l’annuncio del ritiro delle truppe Usa dalla Siria la risposta dell’Isis non si è fatta attendere. Come temuto da molti analisti, lo Stato islamico ha approfittato della solitudine a cui sono stati condannati i curdi per attaccare il sud est della Siria, area sotto il controllo delle Forze democratiche siriane (Fds).
La notizia dell’attacco è stata data da capo dell’ufficio comunicazione delle Fds su Twitter: “l’Isis sta lanciando un grande attacco, si stanno verificando pesanti scontri”. La zona interessata dal nuovo scontro tra Isis e curdi è Hajin, nel sud-est della Siria: la città era stata riconquistata di recente dalle forze curde grazie anche al sostegno americano e la sua presa era stata salutata da molti come la sconfitta definitiva dell’Isis. I jihadisti in realtà erano stati sì vinti e allontanati dalla città, ma si erano rifugiati nei villaggi circostanti, dove hanno avuto tempo di riorganizzarsi e di sfruttare a proprio favore il ritiro delle truppe Usa. Le Forze democratiche siriane hanno combattuto per più di tre mesi per riprendere il controllo di Hajin e i villaggi circostanti della provincia di Deir ez-Zor. Ora i curdi resteranno senza l’appoggio a terra degli americani (forze speciali, artiglieria e intelligence) e privi anche di supporto aereo.
Questi sviluppi sul campo, confermano e rafforzano le considerazioni di Roberto Bongiorni sul Sole24Ore:
Nonostante i proclami di Trump, l’Isis non è sconfitto. Non ancora. Un recente rapporto americano segnalava la presenza di oltre diecimila combattenti sparsi in Siria (cifra forse esagerata). Un numero sufficiente che consentirebbe loro di portare avanti una guerriglia strisciante per ricostruire il network jihadista. È vero l’Isis è ormai confinato in alcuni tratti della valle dell’Eufrate a ridosso dell’Iraq, nel distretto di Hajin. Di fatto ha perso il novanta per cento del territorio. Ma Iraq, Afghanistan, Somalia e altri teatri di guerra hanno insegnato che sconfiggere militarmente un movimento estremista islamico e poi andarsene subito dal territorio ‘liberato’ significa correre un grande rischio. Solo nella zona intorno a Hajin, da alcune settimane investita da una pesante offensiva delle forze curdo-siriane (che avrebbero preso la cittadina), rimarrebbero fino a cinquemila miliziani dell’Isis. La guerra non è dunque ancora vinta.
La situazione del popolo curdo in Siria, preoccupa da vicino la regione autonoma del Kurdistan iracheno. Lo ha dichiarato il leader del Partito democratico del Kurdistan (Pdk), Massoud Barzani, commentando in una nota l’annuncio del ritiro degli Stati Uniti dalla Siria fatto il 19 dicembre dal presidente Donald Trump. “La guerra contro lo Stato islamico non è ancora terminata”, ha dichiarato Barzani, che ha servito come presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno dal 2005 al 2017. Il leader curdo ha espresso la speranza che la situazione attuale “non generi violenza o guerre e non aumenti le sofferenze del popolo curdo in Siria”.
I recenti eventi e la situazione dei curdi ci spaventano e abbiamo già fatto presente le nostre preoccupazioni e osservazioni sul futuro della popolazione di etnica curda in territorio siriano
ha dichiarato Barzani. Secondo il leader del Pdk, già da tempo le condizioni della popolazione curdo-siriana sarebbero dovute migliorare.
Un gran numero di curdi siriani vive nei paesi vicini o in zone di guerra a causa della situazione politica instabile e altre minacce che hanno provocato enormi sofferenze
ha sottolineato il leader curdo. La “fuga” di The Donald dalla Siria rischia di deflagrare anche nel vicino Iraq.

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