Re-use. Scarti, oggetti, ecologia nell’arte contemporanea – la mostra aperta in grande a Treviso, su cui ho scritto per il numero di ytali del 22 ottobre, intitolato L’arte che partì con una ruota di bicicletta – ha suscitato commenti positivi, ma quel che maggiormente mi ha stupito è che il più costruttivo non provenga da esperti o appassionati d’arte, ma da un DJ milanese, collaboratore per oltre dieci anni della rivista Rockerilla, pubblicazione di riferimento per la musica rock, e di Radio Popolare tra gli ’80 e ’90: settore, questo della musica, non dico assente nella rassegna trevigiana, ma nemmeno considerato; mentre dal canto suo il musicologo in questione manifesta un’entusiastica condivisione per il versante visivo.
Scoprire questo percorso artistico – afferma infatti – per me significa Margaret Majo, Enrica Borghi o Alek O (presenti nella mostra trevigiana), che sono andato ad approfondire nel web: favolose!
E nel sentirsi parte di una consapevolezza ambientale sugli effetti avvolgenti delle opere di quel tipo, in occasione di un altro incontro, soggiunge:
Il ruolo del DJ nel tempo ha generato una cultura musicale vera e propria, con la nascita di musicisti-produttori e approcci compositivi come il sampling o il remix in base anche agli strumenti usati: giradischi (turntablism), computer e campionatori (evoluzione dei sintetizzatori) nel loro diffondersi analogico e digitale…
che per me appartiene a ignote galassie.
A questo punto, coinvolti in un comune viaggiare “su queste sintonie e passioni”, è lui che passa dalle mie citazioni relative a Fluxus e Dada al chiamare in causa compositori come La Monte Young (il cui gruppo folk-rock dei Myrrors, originari da Tucson, uno dei quali, da lui intervistato, dichiarava l’influenza del proprio impegno nei campi sociale ed ecologico), nonché di colui che fu l’onnipresente John Cage. Che nel 1959, partecipando al quiz di “Lascia o raddoppia” – in qualità di esperto di funghi, dichiarandosi senza un soldo – vinse cinque milioni di lire (all’epoca ci si comperava una casa), e si esibì in un concerto intitolato “Water Walk”, in cui tra gli “strumenti” c’erano una vasca da bagno, un innaffiatoio, cinque radio, un pianoforte, dei cubetti di ghiaccio, una pentola a vapore e un vaso di fiori.
Protagonista in un’area non tanto diversa – mi segnala inoltre – è stata l’inglese Daphne Oram, pioniera della musica concreta e attiva quasi settant’anni fa (quindi prima di Cage) alla BBC di Londra, che miscelava nelle sue trasmissioni suoni e rumori pre-registrati con live-orchestra performances. Sui metodi dadaisti, mi racconta pure che negli anni ’60 i “Soft Machine” avevano inserito in copertina del loro primo album ingranaggi (riciclati?) azionabili con una rotellina che usciva dal bordo; e che nel secondo la canzone-manifesto s’intitolava “Dada Was Here”.
Un’altra perla rara delle confluenze nel mondo musicale rievocata dall’amico, infine, sta nell’approccio duchampiano di un giovanissimo Frank Zappa, che allo Steve Allen Show trasmesso nel 1963 dall’emittente televisiva americana NBC, essendosi proposto come musicista-compositore, si esibì suonando con un archetto da contrabbasso e con bacchette da batterista le ruote di due biciclette, mandando in visibilio il pubblico.
Essendo da sempre disinteressato di musica rock (et similia), non mi addentro nell’argomento; mi spingo però a supporre che un notevole passo avanti nei recuperi di materiali estranei sul piano musicale sia stato fatto nel 1911 – due anni dopo il “Manifesto dei musicisti futuristi” di Francesco Balilla Pratella – con gli intonarumori di Luigi Russolo (1913). Ne parlo con il solito interlocutore, che si rivela piuttosto sorpreso, ma reagisce citando un album del gruppo newyorchese Material intitolato proprio “Intonarumori”, prodotto dal bassista americano Bill Laswell or sono vent’anni.
Sempre dalla medesima fonte apprendo dell’operato di un complesso toscano che si esibisce usando chitarre, tubofoni, sassofoni e batterie ricavate da materiali destinati ai rifiuti (non per niente si è scelto un nome inglese, “Junk band”, che significa band del rifiuto, o del rottame); e che in Internet, sotto la voce “Rifiuti in musica”, di altri se ne trovano a bizzeffe, soprattutto dall’America latina. Controllo: verissimo; eccone degli esempi.
Continuando quella ricerca scopro che l’Africa nera fa vita a sé, con la produzione – in Ghana, Nigeria, Benin – di uno tsunami di vecchi vinili afrobeat psichedelici, che fanno impazzire collezionisti americani (sud e nord) e cinesi.
Concludo augurandomi che, con l’aiuto del caso, la metaforica freccia che lancio con questa chiacchierata riesca a centrare il bersaglio di una zolla fertile di idee e di propositi costruttivi.

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