[In bus verso il Chiapas, Messico]
Il primo gennaio di venticinque anni fa, il mondo venne a sapere che un esercito di contadini i cui volti erano coperti da passamontagna neri e che imbracciavano per lo più fucili di legno era comparso nelle stradine di San Cristóbal de las Casas, la capitale del Chiapas, regione sud orientale del Messico a forte presenza indigena, occupando la notte precedente varie località.
Ci si rese allora conto che nella più completa clandestinità si era andata formando una strana guerriglia che aveva preso il nome di Ejército Zapatista de Liberación Nacional (Ezln) e aveva la sua base nella Selva Lacandona, a pochi chilometri dalla capitale dello stato.

Il subcomandante Marcos
Quanto alla popolazione di San Cristóbal che festeggiava noche vieja, il capodanno, superato il primo momentaneo stupore, in gran parte solidarizzò con gli insorti, offrendo loro cibo e bevande calde. A poco tempo dai fatti, un docente spagnolo dell’Università di Tuxtla Gutiérrez, che fu testimone di quanto era accaduto, raccontò a San Cristóbal a chi scrive l’atmosfera quasi di festa che aveva connotato l’arrivo degli zapatisti in città. Come se avesse saputo anticipare ciò che lo stesso subcomandante Marcos avrebbe dichiarato nel marzo del 2001 alla Bbc dopo la lunga marcia che aveva portato l’Ezln a occupare in massa lo zócalo di Città del Messico. Ovvero, che quella dell’esercito zapatista era una rivoluzione diversa da quella in cui aveva creduto e per cui era morto il Che, e che agli indigeni col passamontagna
era estranea ogni intenzione di andar a far parte del martirologio della sinistra mondiale o messicana.
Ciononostante, poco tempo dopo l’arrivo in forze dell’esercito regolare, la festa si trasformò in tragedia, e arrivarono i morti, e la lotta che era scaturita dalla necessità di ottenere “rispetto e dignità” per i numerosi popoli indigeni del Messico sembrò autoconfinarsi nel territorio della Selva Lacandona, tenuta a bada da un cordone di sicurezza militare.
I controlli, anche dopo settimane dagli scontri, erano garantiti da diversi posti di blocco, e per passare per località dove si era sparato, come Ocosingo, bisognava dare ai militari, armati fino ai denti, il proprio passaporto, i cui dati venivano segnalati via radio ai commilitoni che presidiavano la strada all’uscita del paese. Il tutto in un clima di tensione che si tagliava a fette, dove cominciava a farsi strada il sospetto che il governo messicano avesse voluto drammatizzare la situazione per fini politici, usando la mano pesante.
Al cessate il fuoco di fatto seguirono le lunghe trattative a San Cristóbal, e lentamente una guerra che avrebbe potuto trasformarsi in un evento sanguinoso, come già era avvenuto per tante guerriglie sudamericane, si andò caratterizzando come uno scontro in cui da una parte e dall’altra non si sparava un colpo.
Il confronto avrebbe nel tempo saputo scansare con grande intuito politico le pressioni che agli zapatisti erano provenute da due lati. Dalla destra perché abbandonassero le armi e abbracciassero la logica della politica; dalla sinistra affinché a una lunga fase di armistizio facesse posto una radicalizzazione dello scontro. Per fortuna le comunità governate dagli zapatisti non seguirono nessuno dei consigli ricevuti, e nel corso degli anni hanno saputo incassare risultati tangibili nel miglioramento delle condizioni di vita che hanno riguardato tutti i popoli indigeni, recepite anche dalla carta costituzionale del paese.
Come dichiarò Marcos alla Bbc all’inizio della presidenza di Vicente Fox:
La nostra specialità è attendere e resistere. Attenderemo ancora che venga qualcuno che sul serio abbia la volontà di giungere a una soluzione.
E così infatti avvenne.
Se la strategia di attesa ha evitato un bagno di sangue e ha portato risultati concreti, non tutti gli obiettivi e le speranze che avevano spinto al “levantamiento” del primo gennaio del 1994 sono stati ottenuti. E lo scopo finale dello zapatismo, che era quello di reintegrarsi nella vita civile del paese, è stato solo parzialmente realizzato.
La scelta di continuare a vivere nella Selva Lacandona ha permesso di mettere in piedi un processo di restituzione ai cittadini delle comunità del diritto fondamentale di decidere come governarsi. Lasciando per sempre alle spalle il marchio odioso che essere nato indigeno significa essere povero e vivere nella miseria. A tal punto, forse, che il risultato più tangibile pare essere il cambiamento della percezione dell’indio avvenuta in tutto il Messico.
Questo era il vero obiettivo della sollevazione di Marcos e compagni, al cui orizzonte politico è sempre stata estranea la conquista del potere. E questa è l’altra sostanziale differenza che la allontana dall’esempio del Che e delle formazioni che lo hanno seguito nella teoria del foco guerrillero. Dal canto suo Marcos, onestamente, l’ha sempre dichiarato, ridimensionando cortesemente i sogni dei molti turisti della rivoluzione che negli anni gli hanno fatto visita.
L’altro sostanziale punto in cui l’esempio zapatista si discosta dalle altre sinistre latinoamericane riguarda la decisione assunta fin dalle origini di non affidare il proprio destino a un leader carismatico: il vero male di cui soffrono la quasi totalità dei paesi in cui governa la sinistra, anche in quelli che, pur bolivariani, dimenticano quel che Bolívar stesso raccomandava riguardo al necessario ricambio delle classi dirigenti.
Lo stesso Marcos – non a caso, come tutti gli altri dirigenti zapatisti, subcomandante perché “chi comanda è la mia comunità” – ha dismesso il nome di battaglia con cui è diventato un’icona. Ed è rientrato da tempo nei ranghi col nome di Galeano.
Ogni leader [dice] deve capire che i processi di liberazione sono frutto di sforzi collettivi, e non di individualità.
Ricostruendo dal basso e non dall’alto le comunità, dalla più piccola allo stato nazionale, partendo dalla convinzione che la povertà non impedisce di raggiungere stadi avanzati in fatto di partecipazione politica. E può addirittura indicare la strada da seguire in altre parti del mondo.
Lo stesso identico motivo, poi, pare spiegare perché l’Elzn ha negato l’appoggio a López Obrador nelle ultime elezioni presidenziali.

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