Le nostre nonne usavano dire che nella vita ad essere pessimisti si finisce col soffrire due volte, ma nei Balcani di questo proverbio non si trova traccia, neppure fra i cattolici. A spiegare perché dovrebbero bastare secoli di storia punteggiati a cadenza quarantennale di guerre e massacri, ma con gli inizi del 2019 c’è un altro timore che continua ad addensare nuvoloni neri sulle teste delle bellicose popolazioni della penisola: la forte sensazione, la motivata previsione, diciamo la quasi certezza che un po’ dappertutto questo sarà l’anno della protesta, delle dimostrazioni e forse della rivolta.
Ha cominciato la Serbia, un po’ in sordina, poi per tutto dicembre a Belgrado le proteste hanno preso a ripetersi, portando ogni volta in piazza qualche decina di migliaia di persone. Poi è stata la volta della Repubblica serba di Bosnia, dunque della Macedonia e infine della Romania. E il commento di Jelica Minić, presidentessa serba del Forum per le relazioni internazionali del Movimento europeo, citata dall’agenzia Birn, esprime bene i rischi del momento:
Negli ultimi 19 anni somme enormi sono state investite nel processo di cooperazione regionale, ma la gravissima crisi attuale minaccia di demolire tutto in un solo giorno, come la torre di Babilonia.
E poi, da queste parti, si fa presto a passare dai “gilet” gialli alla giacca della tuta mimetica.

Corteo nel centro di Belgrado
Anche in un recente passato i principali paesi dell’area avevano attraversato momenti di protesta popolare – basterebbe ricordare Belgrado ai tempi di Milošević – ma adesso la ribellione ha assunto tutt’altri connotati: i movimenti di piazza non hanno più nulla di politico, né tanto meno mostrano coloriture nazionaliste, ma semplicemente e crudamente si rivoltano contro la fame. E proprio per questo, viste le condizioni dell’economia, non s’intravedono soluzioni.
Sono trascorsi vent’anni dalla guerra che avrebbe dovuto porre fine alle guerre dell’area (e che dalla Nato venne dipinta come “intervento umanitario”) e da allora fra vincitori, vinti e spettatori le cose non hanno fatto che peggiorare. Adesso la sopportazione si appresta a toccare il livello di guardia, mentre viste le dimensioni del problema i vari governi paiono impotenti a fronteggiare i rischi che si prospettano.
Nella capitale serba i cortei erano iniziati un mese e mezzo fa: all’inizio c’erano due o tremila persone a protestare per il taglio imposto a pensioni che raramente superano i trecento euro al mese, poi il sabato successivo per strada erano già in otto-diecimila, e ai pensionati si erano aggiunti gli studenti, quindi i disoccupati e infine normali cittadini che, in polemica con il “make up” stradale voluto dal governo, avevano cominciato a ritmare “non vogliamo lampioni/ma ospedali buoni”. Poi il presidente Aleksandar Vučić ha avuto una delle sue sortite più infelici dichiarando: “Anche se in piazza fossero in cinque milioni io tirerò dritto”. Da quel momento esatto i dimostranti si sono moltiplicati.
L’ultimo corteo ha attraversato il centro della capitale sabato scorso (antivigilia del Natale ortodosso) ed erano almeno in venticinquemila, forse di più. Che la cosa incominci a preoccupare è dimostrato dai bizzarri argomenti della direzione di polizia, la quale sostiene che i protestatari sembrano più numerosi perché i pesanti giacconi invernali li fanno apparire più grossi. A segnare però un inasprimento della protesta non è soltanto l’ondata di post che sui social network dicono #1od5miliona (“sono 1 dei 5 milioni”), ma il tono degli slogan nei quali oramai si incrocia e si somma ogni genere di rivendicazioni: “Soldati, poliziotti, fermate il tradimento!” (incitamento al colpo di Stato per impedire il riconoscimento di un Kosovo indipendente), oppure “Basta con la dittatura”,“Ladri, ridateci le nostre pensioni”, per finire con il “Vucic tu conta quanti siamo, per te è iniziato il conto alla rovescia”.
Nel magma di un’insoddisfazione che non era mai stata così diffusa, la rabbia dei nazionalisti si somma a quella dei pensionati e degli studenti, in un miscuglio che sta per farsi esplosivo: la sensazione è che basti uno scontro più cruento con la polizia, una sola vittima delle proteste e tutto può saltare per aria.
Il collante che tiene assieme il tutto è la devastante condizione economica. Dopo le distruzioni inflitte dalla Nato, la Serbia non ha mai potuto contare su un “piano Marshall” che le consentisse di ripartire, e da vent’anni vegeta in uno stato preagonico che non può certo essere cambiato da qualche imbellettamento in stile Dubai (come la famose torre della “Belgrado sull’acqua”) o dall’arrivo di poche grandi imprese occidentali. Fra l’altro, all’antivigilia di Natale i cortei per la prima volta si sono visti non solo nella capitale ma anche a Nis, Novi Sad, Kragujevac, e il sociologo Jovo Bakić i prevede che
nel momento in cui le proteste indirizzate verso questo o quel “ras” locale si salderanno, il movimento potrebbe assumere dimensioni imponenti.
Jelena Anasonović, che è fra i leader della protesta, aggiunge:
Noi certo non la smetteremo, in questa fase il nostro obiettivo è quello si risvegliare le coscienze senza approfittare troppo delle energie della gente. Siamo rimasti passivi per troppo tempo, adesso siamo pronti non per una gara di velocità ma per una maratona.
Un altro elemento chiaro, e inquietante, sta nel fatto che nessun partito di opposizione riesce a cavalcare la protesta: qui siamo già oltre la mediazione politica, questo sembra l’inizio di una guerra per la sopravvivenza.
Poco più in là, nella Republika Srpska di Bosnia, si sono svegliati con un certo ritardo: lì la miccia è stata l’omicidio di un giovane, Davor Dragičević, da parte della polizia. Ma anche a Banja Luka il vento sembra essere cambiato e i serbatoi della rassegnazione si sono svuotati. Nell’area balcanica si riproduce in modo amplificato il fenomeno che ha colpito l’Europa Occidentale: la classe media è svanita e a un piccolo nucleo di super ricchi corrisponde una marea di veri disperati; i pochi che lavorano al massimo riescono a mettere assieme cinque o seicento euro che servono alla pura sopravvivenza, mentre i governi che si sono succeduti non hanno fatto altro che piazzare i loro uomini nei posti che contano, occupando l’intera struttura pubblica. Ecco spiegato come mai nei sondaggi continuino ad aumentare gli ex jugoslavi che rimpiangono i tempi di Tito, e i serbi quelli di Milošević.
Altri paesi fino a qualche mese fa sembravano avere riscoperto motivi di speranza: l’estate scorsa la Croazia aveva celebrato come un trionfo il rientro della nazionale di calcio, medaglia d’argento ai mondiali, ma subito dopo è giunto il brusco richiamo alla realtà. Il magnate del football Zdravko Mamić è stato dichiarato colpevole di aver sottratto denaro ai club di calcio e danneggiato il bilancio dello Stato, ma l’uomo, che ha anche cittadinanza bosniaca, è fuggito lì per evitare la prigionia in patria.
Ma l’evento chiave per l’economia è stato il salvataggio del gigante alimentare Agrokor, la più grande società privata, in gravi difficoltà finanziarie. All’inizio del 2017, la società era diventata statale grazie a una legge speciale, per scongiurare la perdita di oltre cinquantamila posti di lavoro nella regione. Poi, in ottobre, un accordo di ristrutturazione del debito è stato confermato dall’Alta corte commerciale di Zagabria, anche se gli esperti hanno notato che i nuovi azionisti di Agrokor, il più grande dei quali è la russa Sberbank con il 39,2 per cento, hanno interesse più per l’influenza politica che per la produzione di cibo. Martina Dalić, ministra dell’Economia e vice primo ministro, si è dimessa a maggio dopo lo accuse di aver usato la sua posizione per aiutare amici e soci in affari nella crisi Agrokor. A dicembre, la Commissione per i conflitti di interesse ha deciso che la Dalić e l’attuale ministro delle finanze Zdravko Marićvi hanno violato le norme sulla gestione dell’ufficio pubblico, ma la loro condotta non ha comportato alcuna sanzione.
Vogliamo poi parlare della Macedonia? Agli inizi del 2018 una delle principali questioni sembrava risolta: l’accordo sulla denominazione concluso con la Grecia faceva cadere la ventennale opposizione di Atene per l’ingresso di Skopje nell’Unione europea, e dunque pareva che si potesse dare inizio a lunghe trattative. Ma poi l’ex primo ministro Nikola Gruevsky, condannato a due anni di prigione, ha potuto attraversare indisturbato quasi tutti i Balcani per approdare in Ungheria, dove Viktor Orbán gli ha concesso asilo politico. Nello stesso tempo, il referendum che avrebbe dovuto approvare l’accordo con Atene è fallito per non aver raggiunto il quorum. La Nato è pronta a spianare la strada al paese per entrare a far parte dell’Alleanza, ma ci si aspettano dure resistenze.
Oltrefrontiera, da una parte c’è il Montenegro che soffre della medesima instabilità, e dall’altra il Kosovo che ha appena creato un esercito di cinquemila uomini in dispregio della risoluzione dell’Onu, e in dispregio dell’Unione Europea ha aumentato del cento per cento i dazi sui prodotti importati dalla Serbia, affamando ancora di più la sua popolazione.
Ci sarebbe ancora da accennare alle imminenti elezioni in Bosnia con le solite contese sulla triplice presidenza, ma il panorama è già sufficientemente disastrato per insistere ancora. La sola conclusione possibile sembra quella che molti anni fa la mia professoressa di filosofia del liceo proponeva, sottolineando come a volte anche una macchietta può contenere una lezione. All’epoca, si riferiva a una Rita Pavone ancora molto giovane e all’allora famoso “Giamburrasca” televisivo. Ricordate la sigla? Diceva: “La storia del passato/ormai ce l’ha insegnato/che un popolo affamato/fa la rivoluzion”.

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